AGHI DI PINO
scritti di Luca Cenisi
CON IL PERNO A STRINGERE LE LAME.
L’ESTETICA DEL KIRE: UN’INTRODUZIONE
di Luca Cenisi
Com’è noto, il ‘taglio’ (kire 切れ) presente all’interno di uno haiku consiste in «una cesura semantica e/o ritmico-grammaticale o una sospensione del discorso poetico atta a spezzare il flusso di pensiero del lettore e stimolarlo a ricercare il collegamento tra le due parti dell’opera così divise»[1]. Tale cesura viene formalizzata, in Giappone, mediante ricorso ai c.d. kireji 切れ字 (‘caratteri che tagliano’), ossia fonemi [2] rientranti nel conteggio “sillabico” complessivo che svolgono al contempo una funzione semantica e grammaticale (appunto, lo stacco) e una stilistico-poetica propriamente detta, giacché capace di provocare nel lettore una risposta emotiva di ammirazione (eitan 詠嘆) ed un riverbero di suggestioni e sentimenti (yoin 余韻) particolarmente efficace.
Si legga, ad esempio, il seguente haiku a firma di Kobayashi Issa (1763-1828), nel quale lo stacco viene marcato da ya や, particella esclamativa la cui funzione è quella di enfatizzare quanto precedentemente scritto, preparando il lettore alla seconda parte del componimento:
春雨や火もおもしろきなべの尻
harusame ya hi mo omoshiroki nabe no shiri
pioggia di primavera –
anche il fuoco sotto il bollitore
è affascinante
In questo caso la suddetta particella è stata resa graficamente mediante l’uso della lineetta (‘– ’), che divide i due emistichi e le due distinte immagini presentate dall’autore (la pioggia di primavera e il fuoco), rendendo ancor più evidente la giustapposizione (toriawase 取り合わせ).
La poetessa Kiyoko Uda (Tokuyama, 1935), membro della Nihon Geijutsu-in 日本芸術院 (‘Accademia delle arti giapponesi’), nonché Presidente della Gendai haiku kyōkai 現代俳句協会 (‘Associazione dello haiku moderno’) dal 2006 al 2011, interrogata proprio sulla rilevanza dello stacco all’interno dello haiku, ha affermato senza mezzi termini:
Se mi chiedessero che cos’è uno haiku, potrei parlare di diversi aspetti – cioè del riferimento stagionale [kigo 季語, N.d.T.] o della sua forma consistente in 5-7-5 sillabe – ma l’essenza di questo genere poetico è, a mio avviso, il “taglio”[3].
Il kire non è dunque un mero espediente tecnico-stilistico, ma un veicolo espressivo di fondamentale importanza nell’economia complessiva di uno haiku. Attraverso un uso accorto dello stesso, infatti, il poeta è capace di spezzare la continuità degli eventi (renzoku 連続), ritagliando una data situazione o un accadimento ed esaltando, in questo modo, l’unicità che lo caratterizza.
Si tratta, in altri termini, di scindere (kiridashi 切り出し) un evento dal più ampio complesso fenomenico e temporale di cui è parte per trasformarlo in poesia attraverso l’esperienza – al contempo personale ed universale – dello haijin 俳人.
Questa contrapposizione tra elementi, che è dunque distinzione e, allo stesso tempo, reciproca compenetrazione tra bellezza naturale e bellezza prodotta dall’uomo, coinvolge invero le diverse forme di espressione artistica. Nel suo saggio intitolato Kire[4], il filosofo e ricercatore Ryōsuke Ōhashi (Kyoto, 1944) isola ed analizza le quattro qualità fondamentali dello stacco, che influenzano invariabilmente tanto la poesia quanto altre forme d’arte come l’ikebana 生け花 e la cerimonia del tè (cha no yu 茶の湯), oltre che l’architettura e la disposizione dei giardini tradizionali giapponesi. Queste quattro qualità sono:
1. La formazione dell’assenza di forma, ossia la libertà (jizaisei 自在性) – od anche la “flessibilità” – del poeta nell’immergersi nel quotidiano con spontaneità e naturalezza, per poi riemergere dallo stesso delineando una flebile fisionomia (katachi 形) del provvisorio, di ciò che, catturato per un istante, è destinato inesorabilmente a svanire.
2. La temporalità, cioè la capacità del kireji di creare un arresto nella linearità degli eventi, circoscrivendo ed isolando l’accadimento poetico per rafforzarlo (kire-tsuzuki 切れ続き):
Attraverso l’uso poetico della “sillaba che taglia” il naturale flusso del tempo viene “tagliato” e la temporalità originaria della vita naturale viene portata ad espressione[5].
3. Il sentimento, ovvero la capacità del kireji di enucleare l’evento per permettere al poeta e al lettore di cogliere e penetrare il suo naturale portato di suggestioni ed emozioni, acquisendo una vera e propria “consapevolezza della profondità”.
4. La leggerezza priva di scopo, cioè il distacco dell’autore da tutto ciò che è stagnante, pretestuoso e artificiosamente fondato su una visione egoistica e soggettiva delle cose, onde abbracciare una levità (si rinvia qui all’estetica del karumi 軽み) che non scade mai nel frivolo o nel superficiale, ma all’opposto in una visione equanime ed equilibrata – sebbene potenzialmente anche auto-ironica o giocosa (asobi 遊び) – del mondo.
Lo stacco è dunque, in conclusione, un elemento molto importante tanto per lo haiku “classico” quanto per quello contemporaneo (giapponese e non solo), tanto che diversi gruppi e correnti[6], pur proponendo di svincolandosi dal rigido rispetto dello schema 5-7-5 o della presenza di un riferimento stagionale, mantengono nella maggior parte dei casi invariata l’attenzione sul kire.
In chiusura, si propongono tre componimenti di altrettanti poeti giapponesi in cui è presente il kireji (marcato in grassetto):
春の夜や灯を囲み居る盲者達
haru no yo ya hi o kakomitaru mōsha-tachi
sera di primavera –
i ciechi si stringono
intorno alla torcia[7]
Murakami Kijō (1865-1938)
夕日影町中に飛こてふ哉
yūhi kage machi naka ni tobu kochō kana
luci del tramonto
una farfalla vola
nella città
Takarai Kikaku (1661–1707)
親一人子一人蛍光りけり
oya hitori ko hitori hotaru hikarikeri
un genitore,
un figlio…
brillano le lucciole[8]
Kubota Mantarō (1889-1963)
[1] L. Cenisi, La luna e il cancello. Saggio sullo haiku, Castelvecchi Editore, 2018, p. 53.
[2] La tradizione letteraria ne indica addirittura diciotto (kireji jūhachiji 切れ字十八時).
[3] Women & Postwar Gendai Haiku: From Invisibility to Leadership, in Simply Haiku: A Quarterly Journal of Japanese Short Form Poetry, Vol. 7:4, inverno 2009 (http://simplyhaiku.com/SHv7n4/features/Gilbert.html, agg. 2009, ultima cons. 11 maggio 2019).
[4] R. Ōhashi, Kire: il bello in Giappone, Mimesis Edizioni, 2017.
[5] Ivi, p. 87.
[6] Tra tutte, ricordiamo il recente progetto Haiku Column (https://haiku-university.jimdo.com/, agg. 2019, ultima cons. 11 maggio 2019).
[7] Murakami Kijō kenkyū, Kadokawa Shoten, 1979, p. 48.
[8] Shōwa bungaku zenshū, Vol. 35, Shōgakukan, 1990, p. 285.
I JISEI NO KU
I jisei no ku 辞世の句 (letteralmente, ‘[hai]ku in punto di morte’) sono poesie in forma di haiku composte, appunto, poco prima o nell’imminenza della propria morte. Si tratta, invero, di un fenomeno letterario alquanto peculiare, radicato nella cultura nipponica in dipendenza del particolarissimo rapporto che i giapponesi stessi hanno da sempre avuto con la morte, ossia con un evento che, seppur fonte di sofferenza per coloro che restano, mantiene una dimensione “collettiva” capace di influenzare attivamente le vicende dei vivi. Scrive, infatti, Yoel Hoffmann: «La cultura giapponese è probabilmente l’unica al mondo nella quale, oltre alla stesura testamento, si è radicata e diffusa l’usanza di scrivere un ‘poema di addio alla vita’ (jisei).[1]»
Convenzionalmente, la poesia “di commiato” più antica viene fatta risalire all’opera seguente, registrata all’interno del Kojiki 古事記 (‘Raccolta di eventi antichi’) dell’VIII secolo:
おとめの床のべにわが置きし剣の太刀その太刀はや
otome no tokonobe ni waga okishi tsurugi no tachi sono tachi wa ya
la spada
che io stesso ho posto
nel letto della giovane,
ah… ecco…
quella spada! [2]
Le prime forme di jisei assunsero pertanto la fisionomia della waka 和歌 (jisei no uta 辞世の歌), la poesia giapponese per antonomasia composta da cinque versi e 31 sillabe (secondo lo schema metrico 5-7-5-7-7). Ne è un esempio la seguente opera di Minamoto no Shitagō (911-983) e registrata all’interno del Goshūi Wakashū 後拾遺和歌集 (‘Raccolta di poesie successive e spigolature’) del 1086:
世の中を何にたとへむ秋の田をほのかに照らす宵の稲妻
yonoaka o nani ni tatoemu aki no ta o honoka ni terasu yoi no inazuma
in questo mondo
a cosa potrei associarmi,
forse alle risaie d’autunno
che di sera i fulmini
illuminano debolmente… [3]
A partire dal periodo Edo, questa forma di addio venne veicolata anche attraverso lo hokku 発句, assumendo talvolta una connotazione profonda e commovente e talaltra leggera ed ironica, ad evidenziare non solo la brevità della nostra permanenza in questo mondo e la fragilità dell’uomo, ma anche l’effimera illusione di poter decidere come e quando lasciare questa terra.
I jisei no ku possono dunque essere visti come un’ultima, irreversibile immersione estetica nel mondo (tanbi 耽美) da parte del suo autore, immersione che porta con sé una consapevolezza immediata delle cose o, se vogliamo, l’atto di chiusura di un cerchio che non significa rassegnazione, ma trasformazione:
しら梅に明る夜ばかりとなりにけり
shiraume ni akaru yo bakari to narinikeri
proprio come
i bianchi fiori di pruno
schiarisce la notte…
Yosa Buson (1716-1784)
[1] Y. Hoffmann, Japanese Death Poems Written by Zen Monks and Haiku Poets on the Verge of Death, Tuttle Publishing, 1998, p. 27.
[2] http://www.asahi-net.or.jp/~SG2H-ymst/yamatouta/sennin/takeru.html, agg. 20 marzo 2015.
[3] http://www.asahi-net.or.jp/~SG2H-ymst/yamatouta/sennin/sitagou.html, agg. 17 aprile 2016.
di Suzuki Harunobu, Pruni notturni (XVIII secolo)
OMBRE PULVISCOLARI
Recensione della raccolta di haiku Auschwitz e simili di Toni Piccini (Red Moon Press, 2018, pp. 110, $ 20,00 – o € 15,00 se richiesto all'autore).
Auschwitz e simili è l’ultima raccolta di haiku di Toni Piccini, edita dalla Red Moon Press di Jim Kacian in quadruplice lingua (italiano, inglese, ebraico e tedesco); l’opera segue di quattro anni l’uscita di No Password (Terra d’Ulivi, 2014), inanellandosi stilisticamente a quest’ultima ma distanziandovisi, al contempo, significativamente per la complessità e delicatezza delle tematiche affrontate, ossia la vita (o, meglio, la morte) nei campi di concentramento nazisti.
«Vi sono immagini figlie della mia penna […] ed altre connesse a realtà storicamente documentate», precisa l’autore nella sua Introduzione, evidenziando peraltro la presenza di (poche ma essenziali) note a piè di libro che accompagnano il lettore in questo cammino di verità terribile ma necessario.
«Questo solo è negato a Dio: disfare il passato», sosteneva Aristotele, il che implica un’assunzione di responsabilità collettiva per gli orrori consumatisi tra le mura di Auschwitz, sia da parte di chi ha effettivamente agito che da chi, silente e inerte, ha tollerato tali atrocità; ma un’assunzione di responsabilità deve venire dall’interna specie umana, tanto dalle generazioni passate quanto da quelle presenti, responsabilità che implica in primis l’onere della conservazione storica delle vicende riportate nel libro, affinché i nostri figli, memori di tali ignominiosità, possano costruire un mondo migliore.
L’opera consta di 84 haiku, redatti dal Piccini secondo un ormai noto modello stilistico aperto ed essenziale, nel quale la forma espressiva (sugata 姿) si rimodella in base all’ampiezza di respiro delle vicende narrate, sostanziando un’evidente prossimità con i jiyūritsu haiku 自由律俳句 (“haiku a ritmo libero”) di Hekigodō; è la parola in sé, dunque, ad assumere sfericità e centralità all’interno dell’opera, analogamente a come avviene per un altro grande autore nel panorama haiku internazionale, ossia Ban’ya Natsuishi (cfr. il concetto poetico di keywords).
Ma al di là di ogni aderenza ed analogia, Auschwitz e simili si presenta al lettore come una raccolta decisamente unica; unica, come già accennato, per le tematiche ivi racchiuse, ma altrettanto unica per la libertà con la quale il linguaggio si muove sulla pagina (tsuzukegara 続けがら), variando fisicamente forma e consistenza ad ogni componimento ed esaltando, in più di un’occasione, il bianco (shiromi 白み) della pagina stessa, che a tratti è parso a chi scrive terribilmente simile al candore delle ossa.
Difficile rinvenire un “archetipo costruttivo” all’interno del libro: lo stacco (kire 切れ) che separa i due momenti nelle opere che presentano una giustapposizione (toriawase 取り合わせ) è “fluido”, così come fluida è la sua resa grafica, che a seconda dei casi assume la fisionomia della lineetta (“–”), della virgola e dei due punti.
Allo stesso modo, il riferimento stagionale (kigo 季語) fa la sua comparsa solo laddove la sua funzione non si riduce a mera ricognizione di elemento “della tradizione”, ma favorisce il veicolare di una scena che resta necessariamente ed irreversibilmente umana, esaltandola o rinforzandola:
partigiani impiccati:
papaveri freschi circondano
il lager
L’autore possiede una solida conoscenza dei classici giapponesi, e di questo ne dà evidenza anche all’interno di questa raccolta, recuperando la dimensione atemporale di questi (fueki 不易) per rinforzare il suo messaggio, producendo una forma di honkadori 本歌取り particolarmente efficace verso la seconda metà del libro:
gocce di rugiada:
in ognuna un riflesso
di capelli tagliati
opera che rimanda espressamente e volutamente a un altro celebre haiku di Kobayashi Issa (1763-1828):
露の玉一ッ一ッに古郷あり
tsuyu no tama hitotsu hitotsu ni furusato ari
gocce di rugiada –
in ognuna si vede
il mio villaggio
La partecipazione emotiva (kokoro ni kaku 心にかく) del lettore viene enfatizzata, qui come peraltro nella totalità dei componimenti, mediante l’impiego di un linguaggio semplice, immediato e mai pretestuoso, segno tangibile di un’idea di verità (makoto 誠 , letteralmente “parola vera”) che non ha bisogno di essere rivestita di un'autoritarietà fittizia e lessicale.
Laddove la scena richiede ex se di una precisazione storica o di un collegamento ad antefatti, il Piccini rimanda alle note a fine libro, peraltro anch’esse ridotte allo stretto necessario:
miniere –
occhi e teschi completano
collezioni differenti
Lo scritto, che in assenza di una corretta contestualizzazione perderebbe gran parte del proprio radicamento storico, infatti, viene collegato a una nota esplicativa che precisa come «queste parti del corpo vennero prese durante esperimenti medici effettuati ad Auschwitz e altri lager», mutando completamente non soltanto la prospettiva scenica, ma essenzialmente la stessa percezione che di tale componimento ha un qualsiasi lettore, pur lasciando inalterata una dimensione di inesplicabile e indicibile (emoiwazu えも言はず).
Tra le principali direttrici che informano la raccolta nel suo complesso vi sono senz’altro una carica “fragile ed effimera” (shiori しをり) e un acume narrativo che, nella sua sottigliezza (hosomi 細身) riesce a cogliere dettagli e sfumature altrimenti inesprimibili, come nell’opera che segue:
turbinio di foglie
nel vento – un oroscopo
oltre il vetro
Volendo recuperare il filo critico e riassumere brevemente gli esiti letterari della raccolta, possiamo senz’altro affermare che Auschwitz e simili si presenta nell’attuale panorama haiku italiano quale opera di grande innovazione e respiro, sia a livello stilistico-formale (nella sua rottura con il modello yūki teikei 有季定型“tradizionale”) che soprattutto contenutistico; una raccolta ben curata anche a livello tipografico-editoriale che non deluderà le aspettative di chi cerca un punto di continuità qualitativo con le precedenti raccolte del Piccini e, al contempo, una serie di approfondimenti storici (bibliograficamente attendibili) su uno dei periodi più bui dell’umanità.
Un plauso va, ovviamente, infine all’ottimo lavoro di traduzione svolto da Jim Kacian (inglese), Zinovy Vayman (ebraico) e Dietmar Tauchner (tedesco), tutti esponenti di rilievo nel panorama haiku internazionale che – ciascuno per la propria area linguistica di competenza – hanno saputo conservare il senso originale delle opere, aggiungendovi tuttavia una componente umana e generazionale che rimanda, senza eccessivo sforzo di immaginazione, agli attori sociali di quell’epoca.
Al lettore spetta ora la decisione se salire su questo treno – costellato sì di terribili ed irreversibili vicende, ma anche di implicite forme di riscatto – o se rinunciare scientemente al rilancio, nella consapevolezza che «la memoria non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda; la memoria è un presente che non finisce mai di passare» (Octavio Paz):
giostre con cavallini
di vapore – i bambini
sono finiti
candele di paglia:
una veloce Pasqua ebraica
fra i fari notturni
IL CONCETTO DI FŪRYŪ
Il termine fūryū 風流, deriva, etimologicamente, dal cinese fengliu (“buone maniere”, intese come riflesso di rettitudine sociale, ma anche di raffinatezza ed eleganza). “Importato” in Giappone durante il Periodo Heian (794-1185), si è arricchito, nel corso dei secoli, di una pluralità di significati spesso contrastanti tra loro, riferendosi talvolta «alla tradizione del romitaggio poetico e del rifiuto del mondano di ispirazione taoista» e talaltra «all’edonismo della poesia erotica di corte»[1]. Fu grazie all’opera letteraria di Matsuo Bashō e della sua Scuola che il fūryū assunse, nel contesto dello haiku (rectius, dello hokku 発句), un ruolo centrale nella ricostruzione estetica del genere, indicando la via da seguire per cogliere appieno la scintilla creativa (zōka 造化) insita in tutte le cose.
Nel suo Oi no kobumi 笈の小文 (“Ricordi di un bagaglio consumato”) del 1688, lo stesso Bashō scrive infatti:
C’è un elemento comune che attraversa la poesia lirica di Saigyō, le catene di versi di Sōgi, la pittura di Sesshū e la cerimonia del tè di Rikyū. È lo spirito poetico o fūryū: seguire la creazione, divenire amico delle stagioni [2].
In questo senso, dunque, il fūryū incarna un cammino di ricerca, al contempo artistica ed esistenziale, che procede per successivi gradi di affinamento, gradi che la tradizione identifica nel rizoku 俚俗 (“distacco”, “romitaggio”), nel tanbi 耽美 (“immersione estetica”) e nello shizen 自然 (“natura”).
Il rizoku implica, in estrema sintesi, una trasformazione di pensiero e di spirito che porta ad un distacco del singolo (il fūryūjin 風流人) da tutto ciò che è mondano e superficiale; il desiderio di cedere alle tentazioni del mondo deve, cioè, cedere il passo ad un affrancamento sempre più deciso dai vincoli convenzionali, in linea con uno stile di vita sobrio e privo di affettazione (la cosiddetta via dell’“uomo di montagna”, ossia del poeta-eremita). Secondo il poeta Yosa Buson:
Lo haiku mira ad usare il linguaggio del mondano (zoku) e, allo stesso tempo, a separarsi (rizoku) dal mondano. Trascendere il mondano mentre si usa il mondano: [in questo senso] la via del distacco è la più dura [3].
Raggiunto questo primo stadio di affinamento, l’artista deve poi essere capace di cogliere la dimensione “estatica” delle cose o tanbi (presupposto inalienabile dell’arte), fondendosi con la realtà circostante in cui si è calato, sino a divenire un tutt’uno con essa, mediante le principali direttrici dello stile (la forma lirica) e della corrente (il contenuto), le quali propongono un percorso circolare di maturazione basato sull’osservazione del “banale” e sull’immediatezza del suo manifestarsi (yuibi 唯美). Lo haijin 俳人, cioè, lungi da condizionamenti personali e di giudizio, dev’essere in grado di maturare un interesse diretto e sincero verso l’oggetto del suo poetare (sokkyo 即興, “immediatezza”), indipendentemente dalle proprie idee e dai propri pensieri (mu-shin 無心), così da annullare ogni differenza tra soggetto e oggetto, in un’ottica di reciproca interdipendenza, come sostenuto anche da Seki Ōsuga (1881-1920), uno dei maggiori teorici dello haiku:
Noi siamo in grado di comprendere il mondo della creazione solo quando siamo sinceri e umili nei confronti della natura, quando siamo liberi da ogni paura, quando annulliamo ogni distanza tra noi e la natura stessa, quando non ci abbandoniamo a inutili fantasie o non cadiamo in intellettualismi di sorta[4].
Questi valori-guida torneranno, con evidente prepotenza, nel registro espressivo degli haijin dal tardo Edo in poi, laddove i crismi di stesura proporranno un sempre maggiore rispetto delle regole derivate del wabi 侘, dello shiori しをり e del karumi 軽み, così come rielaborati e “perfezionati” dalla Scuola Shōmon di Bashō.
Infine, lo shizen (la “realtà naturale”), che in un certo senso già “racchiude” i due precedenti gradi di maturazione personale, dà loro compimento, confermando la reciproca interdipendenza di natura ed arte, le quali concorrono al medesimo fine, ovverosia l’armoniosa riscoperta del sé come presupposto dell’illuminazione. Possedere questa consapevolezza significa, allora, aver scalato la vetta della montagna, essersi lasciati alle spalle le aporie e le contraddizioni del mondo per ottenere un dono ben più prezioso: la capacità di vivere serenamente il mistero e di trovare un senso anche laddove, apparentemente, un senso non c’è.
L.Cenisi
[1] K. Shūzō, Sul vento che scorre, Ed. Il Melangolo, 2012, p. 19.
[2] Dal Nihon koten bungaku taikei, Iwanami Shoten, 1959, nella versione italiana a cura di L. Origlia (SE Editore, 2006).
[3] T. Ogata, K. Yamashita (a cura di), Buson zenshū, Vol. IV, Kōdansha, 1994, p. 172.
[4] T. Yoshida (a cura di), Otsuji Hairon-shū, Kaede Shobō, 1947, p. 18.
Cinque
haiku
di Fukuda Chiyo-ni
scelti e tradotti da Luca Cenisi
蝶々やなにを夢見て羽つかい
chōchō ya nani wo yume mite hane tsukai
una farfalla –
mi chiedo che sogni fai
muovendo le ali…
夕顔や女子の肌の見ゆる時
yūgao ya onago no hada no miyuru toki
fiori di luna –
s’intravede per un attimo
la pelle di una donna
涼風や袂にしめて寝いるまで
suzukaze ya tamoto ni shimete ne-iru made
vento fresco –
si trattiene nelle maniche
fino al riposo
きじ啼いて土いろいろの草となる
kiji naite tsuchi iro iro no kusa to naru
verso di fagiano –
la terra mutata da erbe
di mille colori
名月や雪踏分て石の音
meigetsu ya yuki fumi wakete ishi no oto
luna piena d’autunno –
aprendo la neve calpestata,
rumore di pietra
Fukuda Chiyo-ni o Kaga no Chiyo (letteralmente, “Chiyo della città di Kaga”) è stata una poetessa di epoca Edo originaria di Mattō (nell’attuale prefettura di Ishikawa).
Nata nel 1703 da una famiglia di artigiani, si avvicinò allo haiku all’età di 7 anni, divenendo ben presto una delle figure femminili più significative del periodo.
Fortemente influenzata nello stile da Matsuo Bashō (1644-1694), riuscì comunque a sviluppare un linguaggio decisamente personale, tanto da ricevere apprezzamenti da personalità influenti come Takarai Kikaku (1661–1707), già allievo dello stesso Bashō, che curò anche la pubblicazione di una sua raccolta intitolata Chiyo-ni kushū (“Raccolta di [hai]ku di Chiyo-ni”), Kagami Shikō (1665-1731) e Yosa Buson (1716–1784), il quale le chiese di redigere una prefazione al suo Tamamoshū (“Raccolta di alghe”) del 1774.
Morì nel 1775, dopo essere divenuta monaca buddhista della corrente dello jōdo bukkyō o “buddhismo della Terra Pura”.
( Utagawa Kuniyoshi )
PIOGGIA OBLIQUA presenta
Luca Cenisi, La luna e il cancello, saggio sullo haiku, prefazione di Paola Scrolavezza, postfazione di Giacomo Vit, Catelvecchi, 2018
LA LUNA E IL CANCELLO
Questo nuovo bel saggio di Luca Cenisi, critico ma anche poeta, ed ecco perché la profonda e autentica passione per lo haiku, rappresenta un essenziale testo per coloro che desiderano comprendere questo genere poetico molto amato in occidente, ma spesso frainteso. E' un viaggio esaustivo attraverso la formazione dello haiku e le sue regole, regole che l'autore giustamente presenta considerando le dovute differenze di forma visto la cultura occidentale, per non cadere in fraintendimenti o per non sottostare a falsi e sterili canoni. Vengono analizzati con chiarezza i caratteri di questo breve componimento, lo schema metrico, il kireji, il kigo... Ci si addentra anche nel tentare di descrivere 'quell'indicibile' che lo haiku esprime, il suo rapporto con la cultura Zen, il percorso di comprensione intima e profonda di se stessi, della natura, la non separazione tra soggetto e oggetto...
Molti sono i concetti che esprimono una comprensione e un approccio diverso da quello comune occidentale, scrivere haiku dunque pone problematiche non semplici e soprattuto per farlo occorre una conoscenza e un 'posizionamento' delle proprie scelte
culturali e di vita sicuramente diverse da quelle tradizionali, occidentali.
Utilissima anche la parte che si occupa dell'haiku contemporaneo e della sua diffusione in occidente.
L.Oldani
Luca Cenisi è fondatore e Past President dell’Associazione Italiana Haiku (AIH) e della European Haiku Society (EHS).
Ricercatore, saggista e haijin, ha all’attivo diverse pubblicazioni, tra cui: Il fiore e lo haijin. Haru ni narimashita (2009), Keiryū (2011), Guadando il fiume. Per uno studio coerente ed unitario della poesia haiku (2013), Selezione naturale (2018) e La luna e il cancello. Saggio sullo haiku (in corso di pubblicazione per i tipi di Castelvecchi).
Dal 2012 è direttore editoriale di Haijin Italia, la rivista ufficiale dell’Associazione Italiana Haiku (ora Gruppo Italiano Haiku).
Nel 2014 ha curato la prima raccolta italiana di haiku interamente dedicata alla figura della poetessa Fukuda Chiyo-ni (1703-1775), intitolata la Donna di neve.
Nel 2016 è stato inserito nell’antologia Cinquanta foglie. Tanka giapponesi e italiani in dialogo, curata da Paolo Lagazzi per l’editore milanese Moretti&Vitali, in collaborazione con Yasuko Matsumoto, Ikuko Sagiyama e Yasuko Tatsumura.
Collabora regolarmente con diversi blog specializzati e gestisce il sito personale www.lucacenisi.net.