QUATTRO DOMANDE A MARIO LUZI
[ Pioggia Obliqua n° 12 marzo-aprile 1998 ]
Nel settembre del 1997 “Pioggia Obliqua” e l’Istituto Gramsci hanno organizzato nell’ambito della festa dell’Unità nazionale di Firenze dedicata alla cultura un incontro con Mario Luzi, il critico Marco Marchi, Vittoria Franco presidente dell’Istituto e alcuni poeti. Luzi ha risposto ad alcune domande tutte impostate sul ‘senso’ di fare poesia oggi. Quelli che di seguito riportiamo sono alcuni stralci dai quesiti posti durante quell’appuntamento.
Luigi Oldani : Vorrei parlasse del rapporto tra la poesia e il trascendente e se questo rapporto può essere definito sorgente essenziale, fonte per la poesia, facendo riferimento anche all’idea dello Steiner in proposito.
Mario Luzi: Tra le varie fonti da cui si può alimentare un linguaggio nascente o rinascente o che tende a rinnovarsi c’è anche la trascendenza: essa è un’esperienza individuale che non può mai istituzionalizzarsi, non può mai essere una costante su cui edificare, potrà essere una scelta di se stessi e del linguaggio ma non una norma, costituirsi tale; nulla di ciò che contribuisce alla cultura dell’uomo in gran parte “diminuito” di oggi può essere escluso dalla paternità o maternità di un linguaggio nuovo. Più di questo non direi, non azzarderei come criterio generale.
Paolo Fabrizio Iacuzzi: il “virtuale” è davvero il demone del XXI secolo e la poesia dovrebbe indicare un percorso alla sua “degenerazione”?
M.L.: Io mi trincererei, non per cautela ma per convinzione, nel potere unificante che ha una vera ispirazione. Molti sono gli inviti da questa o dall’altra parte del mondo e della descrizione e della commedia di esso, ma poi per la poesia c’è questa forza non calcolabile che viene dal dentro non solo dall’individuo (per dentro intendo realtà psicologica, biografica e tutto ciò che si è costituito facendo di me anche qualcosa d’altro che un semplice uomo naturale e ovvio). La cultura penso si faccia forte di queste risposte alle domande, agli inviti, alle tentazioni e alle esigenze che partono dal mondo e esigono una risposta; a un certo punto c’è qualcosa che non è computabile con un dato, e questo è un contributo per la cultura. Fra libertà e determinazione c’è un dialogo continuo che non si esaurisce mai e dunque non ha vincitori né sconfitti, effetto questo che si ripresenterà moltiplicato, almeno numericamente, da queste proposte del mondo odierno.
Giacomo Trinci: Nel magma di Luzi, La beltà di Zanzotto, Poesia in forma di rosa di Pasolini. Tre libri a lungo lavorati nella nostra sete di riconoscere padri che sgombrassero l’eredità vaporosa di un decennio, quello degli anni ottanta, dove né la bellezza né la verità erano stati tentati: né l’etica di un discorso nuovo formulata. Veniamo da polverose strade, ci siamo rivolti a questi libri; ci siamo fatti interrogare a nostra volta, li abbiamo febbrilmente indagati, e abbiamo sentito che da lì dovevamo ripartire. Per radicare la nostra passione e trovare un’identità al nostro tormento. Oggi forse è più chiaro il senso del nostro brancolare; ci sono dei segni netti nella confusione del cammino che percorriamo. Più chiara è la menzogna dei tempi, più necessaria la nostra responsabilità di rispondervi. Vorrei chiedere a Mario Luzi poeta, scrittore, uomo di attenzioni, nel senso profondo che dava a questa parola una fine letterata come Cristina Campo, se il rischio del nostro tempo non sia proprio quello della distrazione e quindi, tutto sommato, dell’estinzione della poesia?
M.L.: Premesso che l’attenzione – come dice la Campo – è il centro della vita interiore e quindi anche della poesia, e che oggi ci siano molte facilità di disattenzione, delle distrazioni troppo incalzanti, bisogna dire che è vero che il mondo oggi parla da tante parti e noi dobbiamo saperle ascoltare ed è una virtù, credo, dell’esperienza progressiva aumentare sempre quest’ascolto, questa prospettiva; ma ci sono troppe false voci, troppe frasi inutili e inconcrete, troppo poca parola, troppe parole e poca parola. Si parla per non dire o per deviare, sviare il discorso verso fini o falsi fini, impropri. Si dà poco peso alla parola, poche volte si ricostituisce cioè il perché della parola, il suo vero motivo di incremento vitale. Questo oggi è palese, mi pare, non voglio essere ripetitivo né polemico, basta farsi raccontare o riassumere alcune notizie del telegiornale, basta questo per capire. Importante è dunque per il poeta non farsi fagocitare dai meccanismi di cui è in parte anch’egli responsabile. C’è uno sforzo enorme del poeta futuro per lasciare queste parole – che non sono la “parola” – queste false indulgenze alle distrazioni, e quindi il poeta deve dare una motivazione ancora, una legittimità al suo lavoro, il poeta deve usare il linguaggio nella sua integrità, nella sua interezza o nella sua ricerca, sempre non ammesso, sempre in pericolo, ma questa è la lotta e l’importante è poter continuare questa lotta, non essere messi nella condizione di abdicare.
Stefano Loria: Silenzio, attenzione. Parole del cuore della scrittura poetica, c’è bisogno di grandi attenzioni per evidenziare un obbiettivo, per corteggiarlo e alla fine per stenderlo sulla carta o sulla tela. Voglio chiedere a Luzi che peso ha avuto sui suoi “oggetti” costruiti con le parole un altro linguaggio silenzioso che è quello della pittura.
M.L.: Certo esso ha avuto molta influenza, molta importanza, devo dire che in un modo più circoscritto, ovvero quello della mia giovinezza, si tendeva molto a quel contatto, vi era attenzione reciproca tra scrittori e pittori, tra le arti, forse più di quanta ce ne sia oggi. Anche la vicinanza fisica delle arti del colore, del disegno, introduceva un fattore essenziale in questo universo silenzioso della pittura: non se ne poteva fare a meno nel linguaggio del poeta di allora. Era copresente, direi, anche una quota di espressione, di dicibilità che veniva dalla pittura. L’ultimo mio libro che ha come protagonista apparente un pittore, Simone Martini, non è una stranezza o una eccentricità, è qualcosa che è infondo già potenza, c’è in tutti gli altri libri. Nell’Ottocento francese, dal simbolismo all’espressionismo, c’è sempre stata questa componente che è divenuta inevitabile. Direi che il sogno wagneriano della unificazione delle arti non si è realizzato e invece si è compiuto questo avvicinamento soprattutto nel campo della pittura e ora si spera anche in quello della musica. Io non sarei quello che sono senza questa adiacenza con artisti che mi hanno “battezzato” per la pittura oltre i tempi. Ho infatti avuto vicini Ottone Rosai e altri pittori importanti come Mario Marcucci, la cui pittura mi ha molto stimolato e illuminato nei rapporti con il visibile, e Capocchini, un artista di cui purtroppo non si parla più. Naturalmente un ruolo significativo lo ha avuto anche la scultura e in una città ricca di opere come Firenze la sua presenza è stata molto intensa.
Edoardo Sanguineti.
Incontro con l’autore
A cura di Francesco Galluzzi e Matteo Chini
[ Pioggia Obliqua #10 dicembre 1996/gennaio 1997 ]
Francesco Galluzzi: Riflettendo sul concetto gramsciano di “egemonia”, una delle intuizioni del Gruppo 63 fu quella che per innovare la cultura italiana bisognava cominciare a pensare in termini di industria culturale, superando il vecchio sistema arcadico-accademico. Come vede la questione oggi, che gli intellettuali sono invece accusati invece di essere troppo presenti sui mezzi di comunicazione di massa?
Edoardo Sanguineti: Mah, la cosa suscitò naturalmente anche una quantità di equivoci. Tener conto dell’industria culturale vuol dire tener conto di quelle che sono le modalità comunicative che il presente offre con tutte le possibilità e gli arricchimenti, le complessità che lo sviluppo tecnologico-industriale comporta. Distinguerei tra sviluppo tecnico e sviluppo industriale ( non è una questione di vocabolario ). C’è uno sviluppo tecnico con delle possibilità comunicative che diventano più ricche, più complesse, più articolate. C’è uno sviluppo industriale che invece è puro sviluppo capitalistico degli interessi del capitale. Spesso le due cose sono andate confuse, per molto tempo si è detto “ma, in fondo la nuova avanguardia è semplicemente il rispecchiamento del neocapitalismo sul terreno dell’arte”. Tener conto di come si sviluppa il capitalismo è molto importante perché è inutile fingere che si viva in una situazione di idillio o di Arcadia o di Accademia o di artigianato della scrittura. Questo non vuol dire subordinarsi agli interessi mercantili. Anzi, il problema è proprio di un’egemonia culturale, ma qui allora ritorna il punto : il problema è quello dell’anarchia. Io mi limito oggi a chiamarla così, e dico “mi limito” anche se in realtà faccio a mio parere la richiesta massima. A dirlo molto in fretta, per paradossale che sembri il comunismo a mio parere è la realizzazione dell’anarchia. Il programma anarchico dello sviluppo delle libere facoltà di tutti è il programma che solo il comunismo riesce a realizzare in modo non utopico. È tutto da fare, tutto da inventare, la storia ha sgombrato ormai da tanti equivoci, però è importante che questo rimanga all’orizzonte. Tra le cose che devo fare in questo periodo c’è una prefazione al “manifesto del Partito Comunista” di marx e Engels. Non so esattamente cosa dirò perché è un problema piuttosto complesso oggi quello di una rilettura di questo testo ma penso che sia importante rileggerlo e ripensarlo, in realtà è un testo pochissimo letto.
Matteo Chini: L’anarchia come programma politico, che da Bakunin a malatesta ha costituito una parte fondamentale dei movimenti sociali del secolo scorso, si è però forse spostata oggi su modalità e prassi differenti. Il discorso libertario ormai riguarda piuttosto le possibilità di autogestione dei centri sociali o le battaglie di singoli e collettivi contro il copyright….
E.S.: Devo confessare che faccio del termine anarchia un uso del tutto particolare che ha poco a che fare con quello che l’Anarchia storicamente e politicamente è considerata e mi ricordo che le prime volte che resi esplicito questo richiamo ( che era già esplicito nelle mie poesie del ’51, è proprio un motivo fondamentale della mia scrittura ) però nemmeno allora c’era un rapporto coi gruppi anarchici politicamente organizzati – un po’ come io ero filocinese nel ’63 ma non avevo nessun rapporto con i movimenti filocinesi: era un modo molto allegorico di richiamarmi a certe cose; tanto è vero che come dicevo poco fa penso al comunismo come alla realizzazione del messaggio anarchico. Però credo che a livello intellettuale le grandi spinte che hanno mosso gli intellettuali del Novecento all’esplorazione, alla scoperta, alla contestazione, sia a livello delle tematiche come a livello formale, sia proprio una spinta al disordine, all’anarchia, alla protesta, alla rivolta, finalmente alla rivoluzione. Che si tratti di Brunuel, che si tratti di Beckett, questa specie di radicalismo anarchico che comincia in fondo con Baudelaire, con Lautréamont, con Rimbaud e arriva a Artaud ovviamente… Tutto questo i giovani non lo vedono come una linea portante. Internet può essere una via di anarchismo comunicativo quanto di egemonia del capitale, dell’organizzazione. Non sappiamo al momento attuale, quali strade e quali esiti avranno queste cose, però i giovani sarebbero incauti ad arrendersi di fronte all’idea che ormai in certo modo i giochi sono fatti. Credo che invece, come diceva Benjamin in termini mistico-ebraici “ ad ogni istante può apparire il messia”, che ogni momento sia buono per una posizione anarchica purché si sia decisi a non compromettersi con la realtà.
F.G.: A tutt’oggi, in quali esperienze della cultura italiana riconosce questa pulsione anarchica?
E.S.: Mi pare pochissimo affiorante. Io continuo ad avere piuttosto simpatia, ma è anche un fatto generazionale, più per vecchi amici perché in qualche modo, anche quando non sono in accordo con loro (il che capita) però esiste un consolidamento di esperienze oltre a un certo obnubilamento dovuto ad un’esperienza – come dire - di complicità e di affetto. Allora quando parlo di musica continuo, in fondo, a pensare a Berio, e quando parlo di pittura a Baj anche se poi io lavoro ogni giorno con musicisti e con pittori molto più giovani e molto diversi. Devo ammettere che ho una certa diffidenza verso i giovani. Posso raccontare un aneddoto. Quando balestrini pubblicò le primissime poesie su “Il Verri”, io suonai le campane a festa nel mio cuore dicendomi “ecco uno veramente di qualità”. E presi la penna, scrissi ad Anceschi per congratularmi. Lui mi rispose approvando, ma cauto e prudente (una prudenza dettata dall’affetto perché lo conosceva, balestrini era stato suo allievo…). Però devo dire che non sono tanti i momenti in cui uno legge un libro e dice “Ecco uno scrittore”, o vede una mostra e dice “Ecco un pittore”… Invecchiando uno diventa prudente ma io ero prudente anche da giovane. Allora non mi sentirei di dire oggi chi sarà il portatore dell’inquietudine adeguata al momento attuale. Ultimamente ho provato simpatia per Scarpa. Ho pensato che Occhi sulla graticola fosse veramente un bel libro. Spero che non resti un libro unico. Detto questo devo anche dire che quando uno ha fatto un buon libro può anche non scrivere più delle belle cose. Del resto c’è gente che passa la vita senza mai scrivere niente di bello. Vengono rimproverati molto di più quelli che hanno fatto una cosa buona perché poi non ne hanno fatte delle altre, piuttosto che quelli che non ne hanno mai fatta nessuna. Ci sono degli scrittori giovani che ho amato: Ottonieri giovane, anche se aspetto sempre che anche lui mantenga un po’ fede a certe cose, Frixione tra i poeti, che ormai non è più giovanissimo.
M.C.: Alcuni aspetti della sua poetica, il plurilinguismo, la commistione di codici alti e bassi, la ritmicità “urbana” di Senzatitolo, presentano caratteri che ritornano in numerosi aspetti della creatività contemporanea, come nel caso della musica rap. C’è un po’ di Sanguineti disseminato in campi che sembrano molto lontani dalla poesia?
E.S.: Può darsi. L’ ultima cosa che io ho fatto proprio con un musicista, l’ho fatta con un rapper, Liberovici. Fra l’altro adesso faremo un’altra cosa insieme di scrittura e musica che si chiamerà Sonetto. Sì, io sono sempre contento quando c’è l’occasione di incontrare dei musicisti, degli scrittori e dei pittori con i quali sia possibile fare qualcosa. D’altra parte bisogna pensare che nella vita non è che capitino ogni giorno gli incontri felici. È bello quando accade. In fondo, malgrado tutto, uno rimane cristallizzato…. Quando penso alla musica penso a Berio, quando penso alla pittura penso a Baj perché queste grandi passioni nascono quando uno ha vent’anni. Poi, se queste si convalidano nel tempo, acquistano inevitabilmente uno spessore forte e allora uno pensa più a questo che non a rapporti a rapporti con persone più giovani. Ma ritengo che la questione di rimescolare i linguaggi sia un problema necessario e quindi se c’è qualche giovane che condivide questo sforzo di prospettiva e di poetica e che insomma mette insieme avanguardia, anarchismo, amore per il disordine, la contestazione e per le molteplicità delle possibilità del linguaggio sono contento. Insomma, facciamone “un’arte da museo” di tutte queste cose!