W. Eugene Smith
PITTSBURGH
RITRATTO DI UNA CITTA' INDUSTRIALE
mostra a cura di Urs Stahel
organizzata in collaborazione con Carnegie Museum of Art, Pittsburgh
MAST, Bologna
fino al 16 settembre 2018
La città e i suoi mille sguardi
Fotografare una città per consegnare una testimonianza della sua essenza non è cosa affatto immediata. Il rischio fin troppo facile è quello di cadere nello scatto da cartolina o peggio nella riproduzione manierata seppur tecnicamente perfetta. Quanto insomma il fotogiornalismo o la street photography ci hanno spesso consegnato negli ultimi decenni e non ci trasmette niente più che belle immagini decorative. Nel suo progetto incompiuto su Pittsburgh W. Eugene Smith ha lasciato invece una suggestiva ricerca fotografica. Nato come fotografo di guerra per la rivista Life e per l’agenzia Magnum, nei primi anni ’50 Smith lascia ogni incarico ufficiale e accetta un contratto con lo storico Stefan Larant per un libro commemorativo in occasione del bicentenario della città. “Labyrinthian walk”, questo il titolo del suo lavoro, lo coinvolge anima e corpo per due lunghi anni ( dal ‘55 al ’57) con quasi 20.000 negativi e 2.000 masterprints, tuttavia senza mai arrivare a compimento. Le foto sopravvissute di questo intenso viaggio troveranno la sua collocazione d’onore al Carneige Museum of Art di Pittsburgh e vengono oggi ospitate nella cornice tecnologica del MAST di Bologna. Ritrarre una città è un compito senza fine, afferma Eugene Smith mentre decide di afferrare quel numero incalcolabile di frammenti imprevedibili che animano Pittsburgh. Saranno di volta in volta le skyline da vedute differenti, cantieri e stabilimenti della città in piena espansione, il fiume Monongahela, i luoghi pubblici deputati della vita sociale, uomini e donne e bambini, le festività, le funicolari, i sobborghi e le zone residenziali. Tutti i soggetti alla fine rivestono la stessa importanza, perché validi rappresentanti del tessuto urbano. Allora il percorso labirintico che compie il fotografo non è una mera documentazione, ma la sincera e sentita esposizione di uno storyteller. Smith riesce a dare voce al fare incessante di esseri umani, architetture, economie, dal momento che per lui lavorare ad un progetto fotografico non sono solo i provini 5x7 o gli schizzi per l’impaginazione o le belle composizioni finite. È anche e soprattutto non considerare conclusa la raccolta di immagini dalla realtà pulsante, sempre accompagnata da blocchi di note e riflessioni. Sto cercando ciò che è veramente nel mio cuore: e quando l’avrò trovato, potrò stargli umilmente a fianco e dire: “ecco qui, questo è ciò che sento, questa è la mia onesta interpretazione del mondo; e non è influenzata dal denaro, da inganni o pressioni, tranne la pressione della mia anima”. La personale scrittura della luce di Eugene Smith viene realizzata mediante un bianco e nero dai risvolti densi e cupi, così carico che anche le foto diurne sembrano spesso in notturna. Dunque un bianco e nero che diventa un nero con un minimo di bianco, dove la luce è usata soltanto per dare una forma e tutto questo è il tono più adatto per fermare l’identità plumbea di Pittsburgh, la città fumosa. Rare armonie e molte contraddizioni stanno insieme con un’adeguata profondità di sentimento, necessaria più di una grande profondità di campo. Nel 1957 si trasferisce a New York e per quasi un decennio scatterà ancora fotografie sull’esperienza di vita metropolitana. Vive in un loft sulla Sixth Avenue, dove allestisce uno studio fotografico e di registrazione. Suoi vicini e amici i jazzisti della scena di allora, destinati ad essere protagonisti dei suoi percorsi artistici al pari dei personaggi che circolano nel ‘flower district’ (lo scrittore Sam Stephenson ha raccolto nel 2009 in tre libri la documentazione di questo straordinario lavoro). “The jazz loft project” è una carrellata di nomi eccellenti del jazz come Monk, Ayler, Taylor, Giuffre, Sims, Bley, fermati nelle improvvisazioni in lunghe session. Tanto nei loro primi piani quanto negli scatti dalla finestra al quarto piano, la sua fotografia resta fedele alla scoperta dello spirito vitale dei soggetti, al portarlo alla luce. Vedi, davvero sto facendo un libro su questo edificio in sè... fuori dalla finestra e all’interno della struttura, perché è del tutto una storia bizzarra e interessante.
Elisabetta Beneforti