INDIPENDENTI LETTURE
dedicate alle case editrici molto indipendenti e alle loro interessanti proposte
" vivo freneticamente sulla luna"
Alejandra Pizarnik, Leon Ostrov, Lettere (1955-1966), a cura di Andrea Ostrov, Edizioni Joker, 2024
Traduzione dallo spagnolo di Antonio Di Gennaro e Monica Liberatore
Davvero mistificanti questi tempi odierni, quando in sede letteraria troppo spesso sembra valere innanzitutto la categoria di presentazione della poeta di turno, con riferimento a disagi fisici o mentali. Tutto questo prima e a scapito di una eventuale ricerca nella scrittura, della militanza, del dettato poetico. Si direbbe tempi di poesia a misura di social, modellata mentalmente (e non solo) sulla sovraesposizione, sulla performance, sull’autocelebrazione e via discorrendo. Si direbbe frutto di un malinteso nell’analisi e nella ricezione di alcune artiste novecentesche, che al contrario si sono tenute lontane dal commercializzare le loro problematiche esistenziali. In ultima analisi, energia creativa e percorsi femministi buttati al vento.
Alejandra Pizarnik ribalta questo assunto odierno e ci consegna una lirica che ha un forte disagio alle spalle e non viceversa. Ne è testimonianza l’epistolario con Leon Ostrov, Lettere (1955-1966), uscito in traduzione italiana per le Edizioni Joker. La poeta argentina aveva una piena consapevolezza della parola e delle sue potenzialità in modo sincero e appassionato. In queste lettere, scritte durante il soggiorno parigino, si individuano molti punti chiave alla base del suo lavoro poetico. Come una sorta di carta assorbente immersa nella sua anima, le pagine sono piene di sentimenti intensi originati da alti e bassi, nevrosi e entusiasmi, problemi economici e vita sociale, in definitiva appare a tutto tondo quella sua lotta individuale fra paure e progettualità. Destinatario delle missive è Leon Ostrov, suo primo psicanalista a Buenos Aires e dunque interlocutore ideale per accogliere la malinconia di fondo, le cronache di una coscienza devastata e di una memoria in frantumi. Non manca la mania di negare la vita, ma soprattutto l’andare incontro al vento fortissimo come metafora della difficoltà di vivere. Emerge anche una costante alternanza di speranza e disperazione per la venticinquenne Alejandra, interessata a tutto quanto accadeva e la circondava, sguardo curioso e meravigliato nonostante il suo male oscuro.
Le risposte di Ostrov sono tanto lucide quanto fraterne e amichevoli nei toni e una questione che rimane sospesa riguarda la scrittura, se abbia o meno una valenza terapeutica. Per la Pizarnik terapeutica risulta senza dubbio Parigi. Ecco un altro importante tema ricorrente lungo l’epistolario, vale a dire la presenza delle due città Parigi e Buenos Aires. La prima è il luogo delle seconde opportunità, mentre la seconda è quello amato di provenienza, compromesso però senza scampo da dinamiche familiari. La vita di Alejandra procede sospesa fra le due, la sua mente anche. Da una parte la ricerca imperitura fra tentativi e cadute, un navigare a vista mettendosi alla prova. Dall’altra la nostalgia e un richiamo privo di logica apparente a causa di conflitti affettivi non risolti. L’altalena umorale fra partire o restare si intreccia con gli eccessi alcolici, con le possibilità e le accensioni. Vale a dire esistenze e percezioni del mondo che corrono parallele e intimamente intersecanti dentro la poeta innamorata degli angeli. Ma anche innamorata dei fantasmi, che vivono in lei e che la circondano. Senza dimenticare che per Alejandra la natura è terrificante dal momento che è connessa con il senso di non appartenenza al pianeta terra e ai suoi abitanti, ai loro riti e costumi. Di nuovo è protagonista il punto di scontro con quel vento fortissimo, come pure l’origine di una sentita incapacità di vivere, quella domanda mai risolta su “come si vive”. La malattia, che non si mostra nelle apparenze ma che brucia negli spazi interiori, vive alle spalle della versificazione e l’alimenta. Con grande trasporto e in varie occasioni dichiara come propri valori spirituali la poesia e la pittura, compagne e sorelle nonché ricettacolo di ogni pulsione originata da lei come dal suo doppio.
Devo creare belle poesie e popolare il mio silenzio di voci.
Devo rendere belli i miei sogni e le mie visioni. Altrimenti non potrò vivere.
L’intimo rapporto scrittura-follia, stretto nell’ordito di queste missive, si svolge e si consolida fino al suicidio irrimediabile di questa “adolescente a metà fra l’angelico e il bizzarro(…)romantica e surreale(…)inclassificabile e unica”, come la definisce Leon Ostrov. Anche il ‘non detto’, in quanto parola ancora da svelare, è suggestivamente incastonato fra le pagine dell’epistolario, prezioso contributo assieme al diario per ricomporre appieno l’esperienza poetica di Alejandra Pizarnik. Fondamentale e immancabile.
Elisabetta Beneforti
"Dove la pelle si toglie"
Susana Chavez Castillo, Prima tempesta, Sur, 2024
a cura di Concita de Gregorio
Contributi di Hilda Sotelo, Sylvia Aguilar Zèleny, Cristina Rivera Gaza, Valentina Jager e Mauricio Patron
“Io sono l’imprevisto di Juarez,/sono ciò che la gente mai saprà,/sono la medusa che dorme/e non vuole mai tornare.”
Ciudad Juarez è città messicana di confine, dirimpettaia della texana El Paso e tristemente famosa per “le croci rosa di Chihuahua”. L’emigrazione clandestina e il narcotraffico convivono con le morti seriali che riguardano le donne. Ciudad Juarez è la città di Susana Chavez Castillo, scenografia e luogo di elezione per la sua vita e la sua scrittura, nonché per la sua tragica dipartita a soli 36 anni nel 2011. Una croce insieme alle altre, ma anche una voce poetica destinata a rimanere una testimonianza tanto forte e di grande rilievo. Noi, lettrici e lettori postumi di questa prima traduzione italiana, veniamo accompagnati ad accogliere il suo importante messaggio. Così leggiamo e non dimentichiamo, passiamo ad altri questa preziosa lettura per moltiplicarne il pensiero. Per la poetessa e attivista Susana Chavez proprio a ciò vale la scrittura, con le parole di Pasolini ricca di “disperata vitalità” al pari della sua intera esistenza: “Esisto, sono viva, sentita, applaudita, abbracciata,/vista, vissuta, sono odorata.”
“entriamo nella materia/attraversiamo il fondo”
Le poesie di Prima tempesta sono intessute di capelli, saliva, sangue, ossa, labbra, e ancora cuore e anima, sole e luna, animali liberi e persone vicinissime o occasionali. È questa una lirica ‘corporale’, materica, autentica al massimo grado perché ha origine senza interposizioni fra pensiero e immagini, perché non ha bisogno di categorie per presentarsi all’uditorio che l’attende. ‘Corporale’ e al tempo stesso caratterizzata da un misticismo di fondo, come sentimento e come chiave di lettura riguardo ai fatti del mondo: “Il mio paese perde la sua infanzia/ma ha ancora la sua ‘fede’/ perciò è lì che va portando l’anima”. Dagli orrori della violenza si parte in ogni momento per rivendicare identità di genere e scelta sessuale, dunque ‘carne’ è parola ricorrente a ribaltare le efferatezze perpetrate in città con straziante gratuità del gesto. La madre, altra figura ricorrente che riassume ogni genitrice, diventa preghiera e tributo di amore per il corpo femminile che si tramanda. La rivendicazione espressa a lettere maiuscole passa anche attraverso l’amore, fra urla e singhiozzi libertà fa assonanza con felicità nella convivenza stretta di pubblico e privato.
“Amore profondo che confina col dolore/non pensare che io voli nel mio dentro/mi addormento sulle tue labbra/ed entro nella tua mente.” L’amore viene affermato fuori da sigle facili o costrizioni sociali, pesi secolari su spalle soprattutto femminili, qui l’amore è un grande abbraccio che comprende innumerevoli elementi. Susana Chavez ama le sue compagne, fuggevoli o di coppia, i suoi familiari, le persone anonime della strada, la natura, le piccole cose quotidiane, i luoghi di Juarez dove va abitualmente notte e giorno nonostante la loro pericolosità. “Poco a poco mi sono abituata/…/Questi sono i posti che mi spettano.” Se è necessario offrire documentazione dei gesti violenti verso le donne, la sigla internazionale “non una di meno, non una morta di più” sono versi di Chavez, esiste ed è legittima ogni forma di amore in quanto angelo-coperta-ali per fuggire oltre. Il riscatto alle paure e al terribile status quo a Ciudad Juarez passa attraverso una resistenza quotidiana fatta di attivismo e di militanza poetica. La vita piena di Susana Chavez era composta di incontri, discussioni, iniziative, di readings, di scrittura e scrittura su fogli non ordinati (poi messi in salvo dal suo grande amore Blanca Inès Cruz Champala). Un flusso continuo e vitale, Hilda Sotelo ci racconta che “la scrittura la sorprendeva ovunque”.
Questa sua poesia risulta fortemente ispanica per immaginario e sentimenti, in deciso legame con il dettato di Garcia Lorca, al cui interno si scambiano un tono ‘confessionale’ fatto di emozioni e vissuto con l’altro più forte senza sconti del linguaggio delle rivendicazioni. Essere donna e voler parlare, amare liberamente, scrivere la personale visione del mondo pare essere sottoposto a un destino amaro e ineluttabile, a cui opporsi sempre e comunque. La voce e il respiro di Susana Chavez sono la voce e il respiro di una donna per tutte le donne. Comunque e per sempre. Lei stessa ne era consapevole perché credeva nella collettività del linguaggio e nella funzione sociale della poesia. Prima tempesta contiene gelosamente qualcosa di così bello e puro da riscattare la sua morte violenta, lei così ricca di vita e amore.
Non badate al numero dei miei anni
non discriminate la mia rivoluzione
non limitatemi nel desiderio carnale
perché questo
oggi porta una musica dolce
e angeli
che si manifestano nella salvezza.
Elisabetta Beneforti
" un solo nome, semplicemente, non bastava a contenerla"
Catherine Lacey, Biografia di X
BigSur, 2024
Tutta questa storia sembra dirci che l’arte può essere una grande mistificazione, perché alla fine è solo questione di ego – chi più ne ha più ne metta. Anche, la creazione artistica si presenta e si rappresenta in forma di ipertrofico labirinto dove ogni passaggio è ormai possibile in virtù dell’eliminazione di qualsivoglia canone o traccia. Così tutto appare permesso anche quando non si arriva a nessuna estetica, al punto che la pratica artistica si costituisce come surrogato o conservante dell’immagine sociale, ostentata terapia o contenitore per i pensierini della sera. Nessun scandalo dunque per l’artista di nome X di cui si racconta la biografia, un caleidoscopio di identità e caratteri più reale del re.
La porta di entrata per questo imprevedibile memoir è l’io narrante, vedova sofferente ma impietosa nella ricostruzione della vita finita della moglie : “non posso far altro che metterla qui, metterla da qualche parte, tradurla in linguaggio perché non mi resti appesa al collo come un medaglione pieno di veleno.” Sulle tracce di ricordi, documenti, ricerche più o meno legittime e rigorose, si svolge il nastro delle vicissitudini avviate a sorprendere lasciando in sospeso respiro e commenti. Non c’è tempo né spazio per opinioni o schemi di riferimento, solo porte che si aprono come specchi riflettenti in un lungo corridoio. Ci si incuriosisce e ci si stupisce in costanti crescita e sottrazione, amore – passione- odio. La tenace scrittura di Catherine Lacey ci porta attraverso gli innumerevoli eteronimi di X, delle sue multiformi creazioni artistiche, delle mutevoli vicende esistenziali. Davanti a noi si manifesta una fantasiosa X, immaginifica e geniale, forse una persona disturbata o solo estremamente furba. La sua biografia è la messa in scena dell’artista come artigiano in tutte le direzioni, un viaggio probabile dentro e fuori l’artista, dentro e fuori la creazione. Quelli di X non sono eteronimi alla Pessoa, quanto ricerche successive in nome dell’identità personale, dell’affermazione nel mondo circostante. Mai sazia e mai soddisfatta delle sue svolte camaleontiche, da cui il risentimento della moglie, che cerca di ricostruirne la vita in una linea retta sempre scivolante e costantemente deviata. Ad ogni passo sfugge qualcosa da rincorrere e in questo modo non si arriva mai ad una conclusione certa. Biografia di X è un romanzo sull’amore e sulla perdita, sulla caparbia volontà di comprendere da parte di chi resta, sulla pulsione affettuosa di riassemblare. E Catherine Lacey è senza dubbio una fra le più interessanti voci della scena letteraria oltreoceano, necessariamente priva di manierismi o linee di tendenza commerciale.
Elisabetta Beneforti
MADRE TERRA E CIELO
Gary Snyder , Pericolo sulle cime, elemento15, 2022
Danger on peaks di Gary Snyder è uscito a venti anni dalla sua precedente raccolta, finalmente in traduzione italiana per la casa editrice romana “elemento 15”. Non è questa una sorpresa all’interno percorso poetico e esistenziale per l'ormai ottuagenario poeta, fra gli ultimi della sua significativa generazione a non aver ancora lasciato il pianeta. I 'battuti e beati', ovvero la comunità di artisti radicali che dal Greenwich Village si sono avviati in più direzioni, di vita e di pensiero politico. Snyder in particolare percorrerà la strada del buddismo zen parallelamente all'attenzione per le tematiche ambientaliste. La sua poesia è da sempre profondamente animata da queste due esperienze e Pericolo sulle cime ne rappresenta un ulteriore svolgimento. Da subito la lettura ci apre un mondo dove si accede per trovare una nuova attitudine nel respirare, nell’ entrare in autentica connessione con madre natura. Seduti su un terreno polveroso/ scrocchiante di foglie secche/ a sud rumore d’autostrada,/ ombre di noce nero,/ con le gambe incrociate, caldo/ ci scambiamo brevi poesie. Comincia e prosegue un viaggio senza fine dentro il paesaggio nella sua autenticità e composizione, cui non manca spesso la cornice di ritualità ancestrali. Allora le poesie accolgono immensità oceaniche e celesti, montagne incantate e boschi indenni alla civilizzazione estrema, animali selvatici come compagni di cammino.....L'immersione risulta totale e la scrittura è l'occasione eccellente per raccontare i luoghi naturali e “lo spirito della terra”. Spiriti delle piante aspettate un attimo/ Per favore tornate e sorridete. L'attitudine di Snyder appartiene all'understatement della sua formazione, mai abbandonato e ottimo cibo per la mente. La sua scrittura è connessa a una dimensione di vita “immediata, intima, di piccoli fatti e intuizioni”, assolutamente al di fuori da qualsiasi retorica o metrica codificata. Insomma il poeta sta ben lontano dall'io lirico come dal demone dell'analogia. Le sicure colonne della poesia occidentale vengono smontate anche grazie al suo percorso zen e all'esperienza diretta con le culture native, di cui non mancano riferimenti ed elementi fondativi. Leggiamo una poetica imbevuta di più suggestioni, che in definitiva sono esperienze di vita. Si tratta di una ricerca continua e continuativa dove non esiste un confine definibile fra vita e poesia, perché non sono mai differenti scene di rappresentazione quanto piuttosto testimonianza l'una dell'altra. Quello che scrive Gary Snyder è politico e la sua scrittura è militanza pura. Il filo rosso in questo si unisce con la concezione della “wilderness”, vale a dire l’esplorazione della nostra parentela con la natura che è fonte unica per ogni tipo di vita. Il rimando immediato è a un altro testo di Snyder, Nel mondo poroso – saggi e interviste su luogo, mente e wilderness, in cui afferma che ogni cosa su questa terra sfuma e si interseca nell’altra dal momento che il nostro mondo è tutt’altro che schematizzato. Nel suo attivismo come nella sua poesia rimane un grande e onesto cantore del pensiero ambientalista, tra gli ispiratori del bioregionalismo e dell’ecologia profonda. Una testimonianza la sua a cui dare ascolto nei nostri giorni cementificati, gentrificati, segnati dall'ego ipertrofico. Leggete leggete leggete a perdita d’occhio come lo sguardo dalla cima delle montagne incredibili della West Coast.
Cose che si spargono
rotolandosi e srotolandosi, impacchettandosi e spacchettandosi,
- questo penoso transitorio mondo.
Elisabetta Beneforti
FOGLI SULLA SCRIVANIA
Abdellatif Laabi, Sul filo della speranza, Astarte, 2020
traduzione di Carolina Paolicchi
Spesso i poeti si domandano cosa sia la poesia, che caratteri abbia il loro rapporto con lei, quanto la poesia come strumento di vita possa essere utile in differenti percorsi esistenziali. Ecco che Abdellatif Laabi con L'espoir à l'arraché (Sul filo della speranza, in traduzione italiana per Astarte) ci consegna le sue risposte o perlomeno un tentativo sincero di offrirne alcune. Laabi nasce a Fes in Marocco nel 1942 e, dopo 10 anni di reclusione per reati di opinione, dal 1985 vive in Francia in esilio volontario e adotta il francese come lingua della sua scrittura, in cui si sommano magicamente la tradizione poetica nordafricana con quella europea. Già poche note biografiche danno misura della sua parabola artistica e dei punti attorno cui ruota la sua pratica poetica : la poesia è per una maggiore vicinanza e consapevolezza; la poesia unisce pubblico e privato, per lui il personale è definitivamente politico; la poesia diviene anche preghiera per il mondo, interrogandosi sul destino di quest'ultimo ;la poesia è compagna di vita; la poesia è “una dea pagana”. Non ho più il tempo/ della pazienza/ Lascio la prudenza/ ai poeti del realismo/ ai pittori del compromesso/ ai musicisti della serenità/ Ho voglia/ di una vera fine/ e di un vero nuovo inizio/ di una riconfigurazione dell’Universo.
Allora la poesia di Laabi è una lunga parola che racconta il mondo al suo interno e al suo esterno e lo fa con realtà e compassione, senza mai perdere di vista il filo doppio che lega l’uomo alla Storia (delle migrazioni scrive la bellissima Aylan di Siria). Le ferite appartengono indistintamente a luoghi e persone, sono individuali e collettive, sono a trecentosessanta gradi diffuse e riguardano responsabilità plurime. Lo sguardo sconsolato di Laabi su “l’epoca oscura”, vale a dire su un’umanità alla deriva, lo porta a fare dei suoi testi un grido di condanna e la voce ‘speranza’ nel titolo è di fatto una dichiarazione di resistenza. Quella “passione per la vita/che rasenta l’indecenza” ci suggerisce che ogni visione del dramma, nonché i drammi stessi, sottende un amore dichiarato per l’esistenza in quanto tale, al di là di umiliazioni, morte, violenza. Un amore manifesto e puro che anima come un soffio leggero le poesie di questa raccolta, un sentimento che si fa “amando” perché anche l’amore è una risposta. Laabi è poeta civilmente lirico, il suo io si dissolve in quello di tutti, ecco la bellezza dei suoi scritti. Il sogno si aggiunge come una costante, un filo rosso fra le maglie di dolori e angosce. La realtà oggettiva non può che sottomettersi a lui in Tre gloriose, dove si chiedono tre giorni di tregua per la pace universale e per ritrovare “un appetito di futuro”. Il messaggio ultimo di Sul filo della speranza è che come la poesia può cambiare il mondo, così noi possiamo cambiarlo con intelligenza e comunanza. Queste poesie sono per noi un autentico abbraccio fraterno.
Un lavoro preziosissimo di traduzione, quello della casa editrice Astarte , vale per l’opera di Abdellatif Laabi al pari degli altri titoli in catalogo, frutto di attenta ricerca sulle plurime sponde letterarie del Mediterraneo.
Elisabetta Beneforti
OCCHI BLU E SPIRITO SELVAGGIO
Dorothy Wellesley, Matrix, Magog, 2023
traduzione e cura di Davide Brullo e Fabrizia Sabbatini
Quello di Dorothy Violet Wellesley è un destino davvero singolare, come un ossimoro, come una bella capigliatura con più elementi intrecciati, discretamente decorativi o meno. Talentuosa quanto irrequieta, aristocratica e sfacciata, vezzosa e pioniera del pensiero radical. Nata nel 1889 dentro l’alcova consolatoria della buona società inglese, giovanissima va in sposa a Lord Gerard Wellesley da cui ha due figli, a seguire la fuga d’amore con Vita Sackville-West e l’attività letteraria nell’ambito del prestigioso circolo di Bloomsbury ( Hogarth Press pubblicherà la sua raccolta di esordio e sempre per la Hogarth curerà la collana “Living poets”). I suoi segmenti di vita segnalano anche la significativa amicizia con William Butler Yeats, che non mancava mai di elogiare la poesia di Wellesley come la “più nobile che abbia incontrato in questi ultimi anni”. Tuttavia le porte si chiudono per lei, dopo altri corsi e ricorsi, alla morte avvenuta nel 1956 in totale lontananza da tutto e da tutti. In verità, dal punto di vista di visibilità letteraria, quelle porte non si erano mai spalancate proprio per sua scelta, desiderando rimanere fuori dal mercato librario e dai suoi riflettori. Una vocazione poetica tratteggiata dall’ossequio alle tradizioni e la trasgressione, da una vita priva di preoccupazioni materiali e disseminata da dipendenze, una vocazione che ha dato vita a versi noti solo negli ambienti culturali dell’epoca e dispersi poi fra biblioteche e antiquari.
A soffiare via la patina di odioso oblio dall’opera di Dorothy Wellesley, arriva nel novembre 2023 la prima traduzione italiana, Matrix per Magog editore. Questo pregevole libro riunisce i diciannove movimenti del poemetto Matrix con una selezione di poesie scritte successivamente (tratte da Desert Wells e da Early Light). Si tratta di un numero non voluminoso di testi, che comunque bastano da soli a definire una poetica ben delineata e senza indecisione alcuna. Dentro immagini dotate di vivido espressionismo vita e morte conversano alternandosi, alle soglie di una poesia ‘gotica’ per gli elementi scelti e per un generale sentire. Il corpo, gli spettri, il sonno, i sogni, buie figure si manifestano in una versificazione secca e decisa. Dorothy Wellesley non conosce lo sfumato o il tratteggio, ma pennellate materiche, dunque le sue poesie non alludono quanto definiscono. E la bellezza sta proprio in questo, nelle parole che non cercano scorciatoie e saldano caratteri contemporanei a tratti classici. La poetessa caustica, tagliente e incisiva sembra seguire soltanto le sue linee di pensiero, accogliendo appassionata più tracce. Il maschile e il femminile, ad esempio, si uniscono nella trama straordinaria del poemetto Matrix, con il fine ultimo di dipingere (una pittura sfrenata alla Turner) fuochi e oscurità, dolore e amore, speranza e crudeltà, speranza e nichilismo. Un “airone della poesia britannica” da non perdere per nessuno motivo.
Una voce forte, la sua, che ha cercato un proprio percorso poetico finalmente accessibile alla lettura oggi dopo quasi un secolo. Grazie a questa raccolta uscita per Magog, arricchita da una interessante scelta di lettere fra la poetessa e William B. Yeats.
Elisabetta Beneforti