Discernere nel cadere, sbrogliare nel capire
Anna Toscano, Il calendario non mi segue- Goliarda Sapienza, Electa, 2023
In apertura del libro alcune fotografie ci mostrano Goliarda in differenti e significative stagioni della sua vita. Giovane attrice, scrittrice a Roma, poi nell’amata casa di Gaeta con immancabili sigarette e materiali per la scrittura. A seguire un viaggio per anni e luoghi, sequenze e passaggi di una artista madre di parole ormai culto per molte generazioni. Questa di Anna Toscano è molto più di una biografia, piuttosto un ritratto a tutto tondo che scava in una creatività “amata e bistrattata” con sincera vicinanza. L’intera narrazione si veste con le parole di Modesta, “personaggia” de L’arte della gioia , “amorevole tarlo” che segue Goliarda Sapienza nella lunga stesura del romanzo. Passano in successione le sue città, di formazione come Catania, di recitazione nonché di esperienza di analisi come Roma, ultima Gaeta come buon ritiro in una dimensione finalmente a lei consona. Al fianco di ogni traccia del vissuto, di ogni amicizia o amore, di ogni scelta e non scelta, si impone la scrittura come compagnia di vita. Scrivere per Goliarda, delinea bene Anna Toscano, è militanza individuale e pratica quotidiana, qualcosa di ineludibile nonostante le difficoltà per ottenere uno spazio adeguato di pubblico e critica. Forse perché avanti nel pensiero rispetto a certe posizioni ideologiche, forse perché non allineata alle tendenze della sua contemporaneità. Rimasta dunque nelle periferie del mercato librario ma non dell’assoluto valore letterario, il suo laboratorio di scrittura è sempre stato animato da una precisa ricerca espressiva e strutturale. Ne sono testimonianza i suoi romanzi e le sue poesie, tanto che non si tratta di una riscoperta d’occasione ma di un appassionato invito alla lettura. Il calendario non mi segue ci accompagna per mano proprio a questo. Un baule pieno di scritti ha racchiuso per anni pagine e pagine in cui Goliarda si cerca, si descrive, cerca soprattutto di capire e farsi capire. Duetta con la vita e con le morti, ricostruisce fatti e vicissitudini, sempre con l’autenticità come tratto distintivo della sua opera. Anna Toscano ci consegna questa doverosa ricostruzione del percorso di una scrittrice importante all’interno dell’iter letterario novecentesco. Un bel tributo uscito per Electa nella collana “Oilà”, un luogo deputato per offrire voce e rilievo a donne che hanno contribuito alla cultura nei suoi vari campi. Una collana che è, come il suo nome, un’esclamazione rivolta alle donne e al loro lavoro.
Elisabetta Beneforti
Una splendida fortezza
Viv Albertine
Vestiti ,Musica ,Ragazzi
Blackie Edizioni, 2023
Te la vedi passare davanti in tutta la sua magnificenza la scena londinese punk e post punk in questo autoritratto di Viviane Louise Albertine, componente delle mai dimenticate Slits. Ecco il volto di un’intera stagione dal backstage e senza ritocchi, popolata di personaggi truccati di ambizioni e contraddizioni. Sono molti i nomi dalle cronache illustri (da Vivienne Westwood a Syd Vicious, dai Clash di Mick Jones a Vincent Gallo) ed altri talentuosi disadattati svaniti nella boa degli anni, ma tutti coinvolti in un’estetica comune di provocazioni e eccessi. Dalla swinging London dell’infanzia per quanto passa da lì e viene assorbito, all’essere catapultati più o meno consapevoli giovani adulti nel sovvertimento ulteriore di ogni medaglia. Cadute e riprese, sia di Viv che della sua “gang femminista”, scandite da rabbia mischiata a un insospettabile romanticismo di fondo, poi ancora la quotidianetà negli squats dove sostanze varie entrano nel giro dei buoni e cattivi maestri. Ragazzi ,musica, vestiti è il ritornello dei punti fondanti per la ragazza Viv, attraverso una narrazione che senza fregiarsi di titoli letterari (come potrebbe, considerata la radice low-fi del punk!) si offre come un documento ben modulato sul sentire di un certo periodo di vita e musica. Non solo. Variegati livelli di lettura propongono sequenze alternate di pubblico e privato negli anni focalizzati dai capitoli. Alla fine entri e esci dalla vita di una donna e dalla sua carriera d’artista, con un prima e un dopo le Slits, come entri e esci in altre vite parallele a quella di Viv. Non mancano neppure i necessari rimandi alla sua famiglia di origine, la cui disfunzionalità viene raccontata dalla Albertine nell’altro suo romanzo autobiografico To throw away unopened. Intanto la scrittura in presa diretta di Vestiti, musica, ragazzi restituisce lo scoppiettio di persone e fatti in rapida successione. Ti viene da pensare che possono essere state le vicende di chiunque, sufficiente aprire la porta e andare a far accadere qualcosa. Spingi il sogno finché non diventa reale! Allora rimetti sul piatto il vinile di “Cut” (apice artistico per le Slits) e continui a leggere questo memoir come una ballata, testimonianza su come rimanere ragazzina dentro nonostante i corsi e ricorsi delle storie: “ Vedo il viaggio della mia vita come un cerchio, come se stessi procedendo intorno a una sfera, a un’arancia. … Dopo essere arrivata in cima, ho iniziato a scivolare lungo l’altro versante e a scendere sul lato opposto. …. Sono timida e incline all’introversione. Però continuo a viaggiare lungo la parte inferiore dell’arancia, non c’è modo di fermarsi.”
Elisabetta Beneforti
"il tempo è una bomba ai neutroni"
Georgi Gospodinov,
Lettere a Gaustìn e altre poesie
Voland, 1922
Le fotografie parlano, raccontano storie, aprono porte sull’immaginario, indagano e riproducono pensieri. Con una scansione simile i testi poetici sono capaci ed estremamente abili nel ricomporre immagini, visualizzare episodi, rendere tangibili frammenti di sguardo tramite le parole. È proprio questo passaggio fra scrittura e osservazione che anima da ottimo fil rosso la raccolta poetica di Georgi Gospodinov, Lettere a Gaustìn e altre poesie, recentemente uscita per Voland. Più che apprezzabile lavoro editorale che ci consegna una produzione ‘altra’ del bulgaro ,nato proprio come poeta e già ampiamente conosciuto come autore di romanzi di autentica postmodernità. Uno scrittore la cui ricerca letteraria si avventura per percorsi non battuti dalla narrativa generalista. Il suo “leggo/ Eliot, ascolto i Beatles” ci fa subito entrare in un mondo poetico, illuminato da un senso-non senso come divertissement venato di toni drammatici. Ma se dramma c’è, risulta il volto di una estrema concretezza e in definitiva di un guardare in modo disincantato a quanto ci circonda. La poesia di Gospodinov ci racconta di una vita di letture, di un’esistenza composta di attività elementari, famiglia, conoscenti e perfetti sconosciuti. Le inquadrature dei versi, dal ritmo incalzante o così piani da cristallizzarsi in poche parole essenziali, raccolgono indistintamente parti del giorno e stagioni come luoghi pubblici o privati tanto visitati quanto omaggiati. Così noi lettori ci aggiriamo fra piccole cose che si fanno grandi, fra particolari del quadro e ingrandimenti studiati, con il fine ultimo di assaporare una cosmicità del quotidiano fatta di tracce di vita e di una latente religiosità. I titoli stessi delle poesie qui selezionate da varie raccolte valgono come respiro iniziale per la lettura, anche indicazione a dove rivolgere il nostro sguardo magari straniato magari sorpreso. Perfino Gaustìn, amico-alter ego creato dal poeta e fondamentalmente suo interlocutore ideale, non è indenne dalla particolare messa a fuoco dei soggetti ritratti. Rimane che questa attitudine alla descrizione viene sempre accompagnata da una lingua poetica semplice, dunque, verrebbe da dire, difficilissima perché affatto banale nel suo racconto in parte lirico in parte epico. Poesia, sembra suggerirci Gospodinov, non sono i massimi sistemi ma quel minimo che riconduce a loro. Ecco la profondità dei testi, quando il resto è solo apparenza. Grazie Georgi.
Elisabetta Beneforti
Stefano Vitale, SI RESTA SEMPRE
ALTROVE, edizioni Puntoacapo.
Prefazione di Alessandro Fo
Postfazione di Alfredo Rienzi
Prefazione
Stefano Vitale «tra il Tutto e il Niente»
Ritornare all’inizio della vita, con l’ultimo paragrafo del libro: la figura del padre. Il Piccolo requiem gli dice addio, fermando in istantanee toccanti le ultime battute della sua esistenza, faticose, tormentate, in un corpo consunto e ormai in procinto di venire meno. Sono pagine amare e coinvolgenti che però non scaturiscono unicamente dalla drammatica, fatale occasione, ma da un più profondo osservare l’esistenza in tutta la sua complessa dialettica fra esistere e scomparire, essere qui e contemporaneamente già un po’ «altrove». Tornando, infatti, all’inizio della raccolta leggiamo:
Segar via i rami secchi
d’una benjamina morente
è gesto necessario
un dolore innocente
sul finire del giorno.
Ma dall’estrema ferita
scorre un lattice scuro
che trattiene la mano
col suo morso colloso
la corteccia si sfalda:
è la vita che urla.
E ancora prima (al secondo movimento di Luce rubata):
Nasce la parola
nel dialogo coi morti
interrogare ostinato
di chi è vicino assente
e tocca al coraggio della paura
graffiare la tavola bianca
con parole pazienti
ragno in bilico sul filo d’una vena.
La vita splende, per poi urlare nel momento della fine (un urlo metaforico, che può esprimersi anche nelle forme ridotte, costrette alla sordina, di un’esistenza allo stremo), e la parola che paziente la ricostruisce nello strenuo esercizio della poesia.
La Natura non sta ferma
sempre muta si trasforma
ombra che si disfa in altra ombra,
luce che s’innerva in nuova luce.
Nella perpetua mobilità della Natura passa anche quel minuscolo, individuale agglomerato di cellule e sogni che è l’io, destinato a sorprendersi del proprio stesso esistere quando i suoi sensi lo rivelano alla coscienza, per un occasionale riflesso (cfr. anche Mi guardo nello specchio, e Trapasso, VIII.):
Miracolo della vita
è la percezione di sé
di colpo riflesso
nella vetrina d’un bar la mattina
perché ti sei visto e sentito
a te stesso sorpreso
nell’istante presente ora svanito
oltre il flusso arrogante del tempo
anche se, lo sai bene,
non servirà a niente.
Incerto è il nostro futuro, come del resto non pienamente sotto controllo rimane già fin d’ora quella che è «la misura di noi». E tuttavia io sono qui a comporre versi, e dunque esisto, e basta poco per rimanere una volta di più incantati dal meraviglioso spettacolo di ciò che accanto e insieme a me si staglia nella sua presenza, e per essere anche solo «rapiti dal canto/ di porte sbattute dal vento».
Intervengono così le quattro suggestive Variazioni di luce per voce sola, di cui la prima dice:
Luce dimenticata accesa
luce sprecata direbbe qualcuno
lume-lama che segna
lo sforzo del nostro apparire.
Sul terreno della pagina, i versi si fanno Poveri strumenti di congiunzione «tra qui e l’altrove», risistemazione e stilizzazione dei Pensieri slogati che «scalciano nella testa del mattino», perché
Ogni giorno tocca fare
un po’ ordine nel mondo
lavare pentole e stoviglie
sciacquare poi asciugare il lavandino
coltivare il senso del decoro
disfare letti, case, amori
e daccapo di nuovo sistemare
per non lasciare tracce di noi
come fossimo passati lì per caso
pioggia svaporata dopo il temporale
piccola fatica universale
Come si vede, caratteristica tecnica ricorrente in queste poesie è l’avvio con un verso in corsivo, che funge quasi da titolo (sopprimendo così d’imperio quel vieto tratto di poetichese che, reato di lesa fantasia, consiste nell’intitolare una poesia con il suo primo verso, immediatamente dopo ripetuto). A volte questa tecnica si afferma quasi con un esordio ex abrupto, come in questa scheggia dei Stati di grazia:
II.
Eppure son certo
che nel riflesso improvviso del sole
che trafigge il dorso del mare
ci ricorderemo d’essere stati
un istante felici.
In ogni caso, in corsivo o no, gli incipit tendono a presentarsi come improvvisi lampi che lacerano il silenzio, scatti nervosi e accattivanti, come in questi tre attacchi che tornano al tema – luminosamente insistente nella raccolta – della luce:
I.
Si nascondono le cose in piena luce
misteriosa eclisse nell’evidenza di sé
scolpìta nel fulgore dei contorni
tesa è la volontà del dire
[…]
II.
Nel crepuscolo la luce ora disegna
sul muro l’ombra delle foglie.
Sarà questa la giusta prospettiva,
il giusto compenso del mio viaggio?
E ancora:
Sprofondare di radici
nella distanza della luce
un vento schiocca saetta
onda e memoria, frattura
che spinge la terra ora a partire
verso il largo, dentro di sé …
Stefano Vitale è nato a Palermo. Il primo di una rosa di Ricordi palermitani, torna a insistere sul tema guida della raccolta, l’intreccio di essere e non essere, di bene e male – parafrasando Gozzano, «vive tra il Tutto e il Niente/ questa cosa vivente/ detta stefanovitale» –. Il nostro intervenire, come meglio possiamo, su una scena esposta al soffio dell’entropia, dell’ineluttabile declino:
Un tempo eravamo marrani
scaltri mercanti ignoti marinari.
Nessuno conosce meglio di noi
l’arte di vendere quel niente che siamo
come fosse la nuda bellezza
d’un mondo che intanto cade in rovina.
Il motivo torna, con un’evidenza pittorica, in un improvviso che ha la grazia di un disteso componimento orientale, osservato però da occidente:
Fiori secchi appesi al muro
condannati al patibolo
natura morta d’ali di farfalla
a testa in giù scrutano noi e il cielo
muto colore d’un grumo di vita
sbriciolato al primo gesto sbadato.
Tutto è «prova generale del prossimo svanire».
Ma, una volta di più, la poesia oppone resistenza, salva il padre, la madre, la città delle origini, i minimi istanti di felicità, con delicata ostinazione. Questo è Lo stato dell’arte.
Alessandro Fo
SI RESTA SEMPRE ALTROVE
Vi chiedo coraggio, sognate
Con la dignità degli esuli
E non con il rancore dei malati
Antonella Anedda, Residenze invernali
Ovunque sia
Io sono ciò che manca
Mark Strand, Tenere insieme le cose
In “Motivi per muoversi”, 1968
(Tutte le poesie, Mondadori, 2019)
Il tempo di una rosa
quello di una vita
improvviso fiorire
lento disfarsi
nel profumo dell’erba
ricamato di luce
nell’istante del disastro
di petali precipitati
cercare la salvezza
nel taglio estremo
c’è il calore del corpo
dimora in cammino
verso l’altro capo delle cose.
E’ un mondo immeritato.
Occorre gratitudine.
Nanni Cagnone, XIV, da “Le cose innegabili”
Passare oltre
la perdita di noi
sciolti tutti i legami
rami senza peso
soglia che si confonde
nell’imparare il senso
della grazia ricevuta
senza merito d’esserci
non più domandare
soltanto stormire
arresi, laceri nella gioia
di questo sostare
e non morire.
Variazioni di luce per voce sola
Luce dimenticata accesa
luce sprecata direbbe qualcuno
lume-lama che segna
lo sforzo del nostro apparire.
C’è chi vive di stelle nate morte
felice nell’eco della loro luce
chi nelle crepe dei muri cerca la voce
disperato per la sua sorte.
Abbi cura che tutto intorno
sia terso e brillante
silenzio che non sia pietra
ma sguardo rapace e felice.
Inghiotte la luce altra luce
mastica i giorni, ai piedi del muro
s’accende un lumino
in memoria del buio che verrà.
Compensazione
Bello pensare che siamo di più
di quel che perdiamo,
di più di quel che per caso incontriamo.
Il silenzio talvolta protegge
altre volte la gioia ci sfugge
inseguendo ombre di nebbia
Nell’oscillare d fragili fili
sta il riposo che ancòra cerchiamo
riparo d’errore, ritaglio di luce.
Così si riparte da zero
più allegri e distratti e non importa
se l’ultimo tram è appena passato.
Ricordi palermitani
I.
Un tempo eravamo marrani
scaltri mercanti ignoti marinari.
Nessuno conosce meglio di noi
l’arte di vendere quel niente che siamo
come fosse la nuda bellezza
d’un mondo che intanto cade in rovina.
II.
Ho portato a spasso
il tuo sorriso in carrozza
dalla Stazione all’Acquasanta
la valigia odorava di treno e di mare
nel traballante scalpiccìo
degli zoccoli sul pavé
il vento ci lavava la faccia
dalla fatica del viaggio.
III.
Con mia madre
in punta di piedi la mattina
verso Monreale
su per corso Calatafimi
e San Martino delle Scale
sotto il cielo ancòra grigio
saliva il filobus
sussurrando alla strada
parole gommate
morbide scariche elettriche
di sorrisi non ancora smarriti.
A mia madre Maria Grazia
Stefano Vitale nel 2003 ha pubblicato (con Bertrand Chavaroche e Andy Kraft) la plaquette Double Face (Ed. Palais d’Hiver, Gradingnan, Francia), nel 2005 Viaggio in Sicilia (Libro Italiano, Ragusa) e Semplici Esseri (Manni Editore, Lecce). Per le Edizioni Joker ha pubblicato Le stagioni dell’istante (Prefazione di Mauro Ferrari, 2005) e La traversata della notte (Prefazione di Giorgio Luzzi , 2007). Quindi Il retro delle cose nel 2012 con Puntoacapo Edizioni (Prefazione di Gabriella Sica) e nel 2013 per PaolaGribaudoEditore la raccolta di poesie “Angeli” con illustrazioni di Albertina Bollati. Nel 2015 ha curato (con Maria Antonietta Maccioccu) la raccolta di poesie Mal’amore no edito da SeNonOraQuando. Nel 2016 ha partecipato alla mostra del pittore Ezio Gribaudo La figura a nudo con una plaquette di 24 poesie pubblicate in mostra e nel catalogo. Nel 2017 ha pubblicato presso l’editore La Vita Felice la raccolta La saggezza degli ubriachi e nel 2019 Incerto confine (con illustrazioni di Albertina Bollati e prefazione di Vittorio Bo) per PaolaGribaudo Editore, Torino. Nel 2021 ha pubblicato Il colore dei gatti per Ventura Edizioni, 12 filastrocche per bambini, con illustrazioni di Albertina Bollati.
Le sue poesie ed i suoi libri hanno ricevuto riconoscimenti in numerosi premi, ed è presente in molte riviste, blog e antologie. Sue poesie tratte da La saggezza degli ubriachi e da Incerto confine sono tradotte in inglese sul Journal of Italian Translation (2019 e 2020) e sul sito Italian Poetry (2018). E’ presente in Ossigeno Nascente. Atlante dei poeti contemporanei sul portale di letteratura griseldaonline dell’Università di Bologna oltre che sul sito internazionale Italian Poetry diretto da Paolo Ruffilli.
Direttore Artistico dell’Associazione Amici dell’Orchestra Sinfonica della Rai., giornalista pubblicista, scrive su www.ilgiornalaccio.net occupandosi delle rubriche critiche dei libri di saggistica e letteratura, curando la rubrica “Oggetti smarriti” dedicata alla poesia.
( NDR
La pubblicazione della Prefazione e di alcuni testi è avvenuta in stretta collaborazione con
l'autore)
Alberto Bertoni, L’isola dei topi, Einaudi, 2021, p.128
La bella raccolta di versi del critico e poeta Alberto Bertoni, appena pubblicata da Einaudi, ha un titolo (L’isola dei topi) che un poco ci inquieta. Benché soprattutto i fumetti (da Mickey Mouse a Geronimo Stilton) abbiano cercato di riabilitarli umanizzandoli, il nostro rapporto con i topi, soprattutto i più pelosi e aggressivi, resta difficile, teso, conflittuale. Li scansiamo e schiviamo volentieri, forse geneticamente e storicamente memori dei tanti danni, contagi e lutti che i ratti hanno contribuito a diffondere nei secoli fra gli umani.
Nel breve testo in prosa che chiude il volume, l’autore racconta un episodio che spiega parzialmente sia il titolo sia la relativa frequenza con cui i topi vengono nei versi nominati: “un’impresa edile ha fatto in zona dei lavori di ristrutturazione e improvvidamente ha picconato il pavimento di una cantina. A quel punto, i malcapitati muratori sono stato travolti da un’orda di topi che lì sotto avevano scavato la loro tana. Chilometri e chilometri di cunicoli, diramazioni, punti di ristoro e di sosta”. In questo racconto gli aspetti onirici (un incubo assillante e tormentoso) e simbolici (i topi come male nascosto e segreto che si accumula silente per poi scatenarsi minaccioso) sono evidenti ma lo stesso non accade nelle poesie dove l’aspetto “fisico” prevale su quella “metafisico” senza annullarlo.
La dimensione che i versi di Bertoni privilegiano è quotidiana, concreta, personale, legata all’esperienza e alla vita reale; il tono è colloquiale, comunicativo, comprensibile, per nulla ermetico e oscuro, aperto al dialogo e non barricato all’interno di un linguaggio per pochi.
Il critico colto non sovrappone la propria voce a quella del poeta Bertoni che si esprime liberamente senza esibire la propria cultura. È l’uomo a mostrarsi attraverso il velo quasi trasparente dei versi (“proprio io in primissima persona / nome e cognome”), a muoversi sul palcoscenico dell’esistenza, spesso osservandosi allo specchio senza ritocchi e maquillage (“nello specchio stamattina ho visto / un sorriso che non conosco”) e consegnandoci l’autoritratto di una persona non più giovane ma non ancora anziana (Bertoni ha due anni meno di me, è del ’55) che rivela, con un tocco di ironico autocompiacimento, segni e malanni dell’età: sintomi di affaticamento (“ho il fiato corto / e da tempo ho bisogno di riposo”), problemi di salute (occorre “ripristinare al più presto / un migliore equilibrio idrico / conclude seria la medichessa / e chissà che scommessa / gioca d’istinto / su quanto sarà lunga la mia vita”).
Nell’io antiretorico del poeta anche noi ci specchiamo, ci riconosciamo nelle sue gioie residue (“quel po’ di piacere rimasto”), nelle indolenze e abitudini, nelle paure, tristezze e soddisfazioni, “fra un pensiero buono / e un altro disastroso”. Il protagonista è un uomo comune, uno di noi: “noi piccoli e dubbiosi simulacri / di un Ulisse umile”. Come suoi compagni di viaggio silenziosi passeggiamo sotto “questi magnifici cieli di Parigi” o navighiamo lungo il Danubio che “è tutto fuor che blu / con le sue troppe / tonalità di fango / grigio piombo, marrone, verdastro”. Camminiamo al suo fianco nelle vie di Bologna (dove Bertoni insegna) e in quelle della sua città natale, Modena, dove “nel giro di un secolo / avremo il mare”. Confida Bertoni (ed è quasi una dichiarazione amorosa): “Modena mi piace / nel cielo di cemento e nel cotto / dei muri che sopravvivono / per le strade un po’ storte del centro”.
L’esistenza concreta si esprime attraverso vigore, energia e vitalità che a mano a mano scemano; è un groviglio di piaceri e di passioni che si affievoliscono (“Resta la triade / Poesia Ippica Inter”), di speranze che resistono gradualmente prosciugandosi, di presenze che sbiadiscono, di bei ricordi e cattivi presentimenti: il corpo come un sismografo registra le scosse dell’inevitabile decadenza. Consapevoli del “comune tristissimo / destino”, un giorno avvertiremo un senso di perdita, di abbandono, di vuoto, di assenza. Nei versi di Bertoni non attecchiscono però angoscia, cupezza e dramma piuttosto fiorisce una solidale indulgenza venata di un consapevole e benevolo scetticismo.
Giancarlo Baroni
a cura di Paolo Lagazzi
CAMPI D'OSTINATO AMORE
Umberto Piersanti, Campi d'ostinato amore, La nave di Teseo, 2020.
Tornare a leggere una nuova raccolta poetica di Umberto Piersanti a quasi quindici anni di distanza dall’ultimo testo della sua celebre trilogia einaudiana (I luoghi persi, Nel tempo che precede, L’albero delle nebbie) non è un evento da poco. Ho percorso queste liriche (Campi d’ostinato amore, La nave di Teseo) con un profondo stupore e una gratitudine un po’ incredula, riscoprendo la voce del poeta sempre fedele a sé stessa eppure nuova, imprevedibile, diversa.
Nessuno più di Piersanti sa che il compito primo della poesia è testimoniare la vita in qualsiasi modo si manifesti: questi versi, dunque, confessano il suo coraggioso ma sofferto cammino nel paese della vecchiaia. Le sue gambe non si azzardano più ad affrontare i sentieri: la forza e la scioltezza sono svanite, i solchi che striano i ginocchi sono simili a “quei cerchi che segnano / nei tronchi i loro anni”. Le tracce dell’eros, un tempo fitte e palpitanti tra i versi come sciami di lucciole ebbre, sono ormai intermittenti come le onde del sogno, della nostalgia o del rimpianto. Chi procede tra queste risacche della vita giunta ai confini è un uomo “fuori stagione”, estraneo a un mondo che non può comprendere e non può comprenderlo. A tratti, quando guarda dietro di sé per cercare di snidare il passato dalla nebbia, egli ha l’impressione che il tempo perduto sia una terra tanto remota da sfumare nel vuoto, da smarrirsi nel nulla. Di molti giorni, di molti incontri non esistono più immagini dentro di lui, tuttavia la sua memoria non è certo diventata uno schermo bianco o uno specchio senza riflessi. Alcuni volti, alcuni luoghi e momenti continuano a varcare la soglia che separa il nulla dall’essere: soprattutto l’infanzia è diventata una specie di leggenda che sfida l’ingiuria degli anni. Ancora, ancora il Natale di guerra del ‘42, momento profondamente sacro nella sua povertà, isola di pura luce nel “nero smisurato” della storia, rinasce tra le pieghe dell’anima; ancora il profumo, o il semplice nome, della “vegelia”, un fiore amato dalla mamma del poeta, risveglia in lui quell’intreccio tra le dure minacce della guerra e le piccole gioie quotidiane da cui la sua vita di bambino fu avvolta; ancora l’attesa dei doni della Befana nel ‘47 balena come un’occasione d’incanto, come un piccolo “Eden che il tempo / non intacca / ma innalza”…
Mai come in questo libro Piersanti ha saputo esprimere quel paradosso poetico che Attilio Bertolucci ha racchiuso per sempre in due versi famosi: “Assenza, / più acuta presenza”. Proprio perché prossime alla cancellazione definitiva, proprio perché affioranti dal nulla come impossibili fantasmi, le figure che ancora palpitano nella mente e nel cuore del poeta marchigiano acquistano spesso una sorta di nitore traslucido, la qualità arcana, quasi metafisica di epifanie dell’Altrove. Lungo tutta l’opera di Piersanti – soprattutto nella trilogia – sono ricorrenti le immagini tese a una specie d’ipertempo o a una forma leggera, sognante di trasfigurazione: nato e cresciuto a Urbino, pur amando le cose concrete, gli alberi e i corpi delle donne, pur essendo radicato nella pelle, nella carne e nei semi della vita, egli non ha potuto fare a meno di sfiorare il neoplatonismo rinascimentale. Mai, però, come in questi Campi il poeta si è spinto tanto innanzi nel suo chiaro e segreto desiderio di assaporare l’ipotesi di eternità annidata negli attimi, di contemplare la luce che fa di un momento un bagliore sovrumano, sospeso e aleggiante tra il mare e il cielo (“celeste come il mare / d’oggi che i raggi / accoglie, / celeste la tua maglia / che il sole di gennaio / non riscalda, / celeste dono agli umani / questa luce, / quest’attimo / sospeso sopra l’acque / e i giorni, / e il tempo / mai l’oscura”). Al fuoco di questo pathos d’assoluto, Il tempo e lo spazio diventano cavità aperte e scoscese, luoghi percorsi dal vento quieto della vertigine. Gli orizzonti, gli esseri e gli oggetti che la memoria o gli occhi possono ancora contemplare – i vetri di villa Gloria e le valli dell’infanzia, le stelle e le piante, i balzi delle cavallette e il monte Catria – sono “immensi”, refrattari ai limiti e alle misure. Il tempo perduto è come una “balaustra” che s’apre sull’abisso, come “la pozza sconfinata” del mare che s’intravede appena dal monte della Conserva o come la danza “infinita” della pula nell’aria. Anche i sentieri, che il poeta non può più percorrere, diventano infiniti nella prospettiva lancinante e icastica della sua nostalgia, del suo bisogno di qualcosa che duri oltre la morte: “La strada che va al mare / bianca, in discesa, / non sai dove finisce / forse mai”…
Questa vastità può produrre a volte un senso di spaesamento, una sorta di capogiro spirituale. Forse lasciarsi trascinare troppo oltre dalla sete dell’assoluto è una forma di hybris, come quella rappresentata da Piersanti nel suo racconto Olimpo? O forse l’abisso che si schiude ai più intrepidi viandanti della vita è sconvolgente perché rivela, come in certi quadri di Friedrich, il nulla al fondo dell’essere? Benché una specie di brivido religioso attraversi le partiture del libro, il poeta sa bene di non poter mai placare i suoi dubbi, di non poter mai fasciare la sua vecchiaia col velo delle presunte certezze. Eppure questo “non sapere” non genera solo vertigine ma permette all’anima di continuare a respirare mentre il corpo vacilla. È dolce abbandonarsi al mistero che permea tutte le cose, a partire dal puro e semplice fatto di essere nati (Febbraio 1941); è dolce lasciare che domande vibranti del sentimento dell’impossibile attraversino l’anima rapita dalle meraviglie del mondo: “danzano le lepri / nelle radure / nelle notti d’estate / quando la luna è colma / e forte splende?”; “in quale ora, in quale / terra sospesa oltre i confini / d’ogni storia e vicenda / l’aquila vola (…)?”; “ma davvero voi, / mie Cesane / sconfinate con la Galassia?”
Qualcosa come un alone estatico irradia spesso da queste poesie, per quanto esse parlino anche di guerra, di morte, dei dolori e dei mali degli uomini. Mentre un canto di “frati bianchi”, limpido come il cielo che attraversa, “scorre oltre / e non sai dove”, un essere senza volto – Piersanti lo chiama solo “l’Antico” – racconta fiabe, miti e magie, oppure “sguilla tra l’erba spagna / coi piedi nudi”, o zappa, o guida un carro coi gesti forti e schietti di uno dei mesi dell’Antelami… Malgrado l’incessante metamorfosi di ogni cosa, la realtà sacra, umile e immensa della civiltà contadina resiste allo sfacelo – almeno nei sogni, almeno nella poesia.
Fra i tanti passi memorabili del libro, uno mi commuove più di tutti, quello in cui il poeta evoca, in controluce alla guerra e al cupo fischio degli aerei nel Natale del ‘42, l’abbraccio protettivo dei suoi genitori: “piangi ma non sai, / gli altri lo sanno // t’hanno accolto nel mezzo / padre e madre, / tu dormi / e più non senti / il fischio nero”. L’abbraccio, in questi versi scarni e tenerissimi, è un gesto salvifico come la poesia – un gesto che ci aiuta a “capire” tutto il mondo di Piersanti. Il calore che emana questo mondo – in modo speciale, unico, questo libro estremo – nasce da un abbraccio alla vita capace di racchiudere in sé “tutto”: l’Antico e il nuovo, l’origine e la fine degli esseri, il dolore e la pietà, il tempo e la bellezza, le ombre laceranti della morte e la luce “ostinata”, irriducibile dell’amore.
Paolo Lagazzi
Patti Smith
L'anno della scimmia
Bompiani, 2020
Immancabile Patti alla svolta degli anni, lo sguardo preciso e fiero in buona compagnia di persone care e luoghi da percorrere. 2016: un intero anno lunare, raccolto fra due capodanni cinesi, dentro un viaggio da costa a costa fatto sia di quotidianità mese dopo mese sia di visitazioni. Anche stavolta più scrittrice di memoir che story teller, con L'anno della scimmia pone un passo ulteriore sul suo percorso di cronache dal tempo cominciato con Just kids. “Mi sento in dovere di scrivere”, ci avverte nell'epilogo e non nasconde la sua “incessante urgenza di scrivere”, coniugata ad un'onestà emotiva che ritroviamo in tutte le sue narrazioni. Scrivere per lei equivale a scattare foto con la vecchia Polaroid ( alcune delle quali supportano i vari capitoli), vale a dire fermare quel momento, cristallizzarlo per visite future non duplicabili. I miti narrativi di Patti Smith si alimentano costantemente dalla realtà come dal sogno, ricomposti nella scrittura senza mai un confine lucido piuttosto in un amalgama di veglia e sonno. Allora passano sotto i nostri occhi di lettori incantati gli ultimi contatti con Sandy Pearlman e con Sam Shepard, il disagio politico per le presidenziali di Trump, il corona virus che avanza annotato in uno dei pannelli finali, la baracca sulla spiaggia come buon ritiro..... Tutto questo e molte altre vicissitudini incrociano la rotta con Ernst, Cammy, Jesus e la bionda ,“ tutti personaggi di una realtà alternativa, ritagli in bianco e nero di un mondo in technicolor”. Nient'altro che comparse durante il viaggio, ognuna dotata di contorni precisi ed evocata dall'io narrante come presenze vive e vegete. Davvero non ha importanza se non afferriamo subito e sempre la loro consistenza, Ernst e gli altri ci accompagnano nella strada dei ricordi tangibili della scrittrice. Come dire che anche questi uomini e queste donne sono necessari, perché “ce ne sono due di te (…) Uno se ne va in giro per il mondo, l'altro cammina nei sogni”.
Documentarista e visionaria, Patti Smith non manca di punteggiare i racconti con tributi appassionati a riferimenti letterari di grande spessore. C'è l'Europa e ci sono gli Stati Uniti, poli importanti dello stesso cuore. La ragazza del Mid-West che ha percorso interamente le scene della sua generazione, lei così musicalmente americana, ha sempre manifestato la fascinazione per la cultura del vecchio continente. Da Rimbaud a Bolano (a cui sono dedicate molte pagine del libro), dalle architetture nordiche all'arte italiana, dall'opera lirica a Artaud, l'elenco sarebbe lunghissimo. Lei rimane spesso sul confine fra appartenenza e non appartenenza, nutrendo la sua libera ricerca artistica con temi e sonorità da entrambe le direzioni. Prima di un recente concerto al Fillmore West si succedono il ricordo dell'ultima cena di Leonardo con la raffigurazione di Gerry Garcia, sorridente e pugno alzato. E tant'è.
Ne nasce un libro ricco di sfaccettature, figlio di considerazioni e immaginazioni, nonché di sentimenti privi di inutili sentimentalismi. Ritroviamo qui una prosa spesso poetica, a tutt'oggi cifra stilistica che caratterizza Patti Smith, sua voce inconfondibile sulla pagina come su un palco. L'anno della scimmia è un viaggio che conferma, a lei stessa come a noi, un'identità precisa fatta salva dal caos.
“Il mio breve viaggio è servito a ricordarmi che ci sono universi dentro altri universi, e una società fluida che capisce il valore delle piccole cose, fornite dal destino per guidare una persona attraverso cammini disseminati di ostacoli imprevisti”
Elisabetta Beneforti
il nostro dialogo è il mio guardare
Cees Nooteboom, Addio
Poesia Iperborea, 2020
La poesia qui nasce in un giardino d'inverno. Nuvole, foglie, fiori, un perimetro di terreno umido, animali ospiti : ecco le occasioni elementari ma profonde per richiami antichi e vite odierne. Grandissima testimonianza di scrittura e di pensiero questo ultimo lavoro del poeta nederlandese, la sua poesia al tempo del virus. Fin dalle prime pagine non leggiamo riflessioni circostanziate sulla pandemia (operazione adesso vulgata e banale), bensì seguiamo una magistrale poetica di osservazioni a margine di questi giorni. Abbiamo di fronte a noi una poesia che è dialogo con l'uomo e per l'uomo, intesa come condizione permanente. Davvero il tempo del virus diventa uno spazio sospeso e cornice ideale per immagini a scorrimento, un tempo che ne libera rapidamente molti altri. I testi di questa raccolta si pongono fra terra e cielo, metafisici quanto terrestri. La poesia è annotazione , sguardo, apparizione e attraverso lei Nooteboom si rapporta con il silenzio e con l'ineffabile, ne traccia la presenza persistente. L'addio del titolo non segna un distacco doloroso, piuttosto ha i contorni gentili e partecipativi del congedo. Nei differenti riferimenti questi congedi del poeta sono ad occhi asciutti, saggi e consenzienti, isolati nel fermo immagine del loro momento: Le ho viste andarsene, le persone/ della mia vita, uscire lentamente dalla mia/ e dalla loro esistenza. Le ho immaginate finché/ ancora le vedevo, sentivo le loro voci lontane,/ suoni d'aria. L'addio è nel suo svolgersi un viaggio, l'accompagnamento amoroso puro. Non sentiamo mai lo iato della morte, perchè il fondamento sta nella 'leggerezza' di Italo Calvino. Le quartine delle tre brevi sezioni sono attraversate da teste, corpi, anime, interrogazioni ed enigmi. Nooteboom non si concede risposte come non ci offre assiomi definitivi nel suo dettato poetico piano ed emozionale. Le domande restano aperte, in sincera conversazione con il lettore e confermano in Addio che la Poesia è sempre più necessaria nel mondo, quando questo ci appartiene o ci sfugge visitando il giardino d'inverno : Al cancello del giardino piagnucola il mondo, il /rumore di un giornale.
Elisabetta Beneforti
I NOMI DELLE COSE
GIANCARLO BARONI, I NOMI DELLE COSE, PUNTOACAPO, 2020.
È curioso, o forse sarebbe più giusto dire significativo, che nel suo titolo, come nei titoli delle ultime raccolte di Pontiggia (“Il moto delle cose”) e di Ruffilli (“Le cose del mondo”) tornino le "cose". Forse c'è una ragione epocale in questo? forse oggi più che mai i poeti (o almeno i più lucidi fra essi) sentono che le parole devono confrontarsi con le cose, cioè con la realtà, perché la poesia possa opporre un argine alla minaccia montante del nonsenso?
Il fatto è che la realtà è sempre inseparabile dai fantasmi, dalle ipotesi o dal mistero, e il tuo libro lo mostra con forza, con arguzia e con tocchi asciutti, sapienti. La vita oscilla tra "giardini rigogliosi" e pensieri feroci, tra "campi fertili" e atrocemente ripetitive ideologie, tra desideri e ceneri, tra meriti e colpe difficili da districare, o tra il buio e il caso (o il miracolo) in cui le cose si inabissano e da cui, chissà come, rinascono...
Forse la sola verità a noi concessa è quella umile, quotidiana delle signore che tornano dalla spesa con le borse profumate di pane, o è la grazia delle ragazze che "portano dei mondi sulla testa / e nelle tasche dei sogni". Forse dovremmo abbandonare il peso delle parole e cercare dei lumi, dei sentieri possibili negli occhi dei maestri pittori, nei loro quadri capaci di ribattezzare senza tregua le cose, di mostrarci il mondo come una "realtà inesauribile", come infinita povertà e ricchezza, come abbraccio fra sassi e comete...
Paolo Lagazzi
IL MIO INDIRIZZO è OVUNQUE
Jessica Bruder, Nomadland, Edizioni Clichy, 2020
Sono giovani e sono anziani. Appartenevano a una middle class ormai definitivamente collassata dopo la devastante crisi economica del 2008. Hanno poche risorse e svariati appigli regolati da una basica comunanza per la sopravvivenza. Si presentano come famiglie sradicate e come single con rinnovate prospettive. La trasversalità è fatta salva in questo nuovo gruppo sociale, ma le dinamiche delle loro vite si intrecciano in un unicum di percorso al pari dei raccordi anulari e autostradali che percorrono. Ecco le decine di personaggi che popolano le pagine di Nomadland, un racconto di inchiesta della giornalista americana Jessica Bruder adesso film per la regia di Chloè Zhao , Leone d'oro a Venezia 77. In prima fila troviamo Linda, che l'autrice segue nelle sue vicissitudini per tre anni in lungo e in largo degli States. Lei è una ' vandweller', persona a cui basta un camper riadattato per spostarsi da costa a costa per i lavori occasionali che permettono di arrotondare l'esiguo assegno della previdenza sociale. Linda e gli altri non posseggono più niente se non quanto contiene il Van, tuttavia sono legati e collegati fra loro da una ricca quanto autentica rete di amicizia. In definitiva sono artisti della fuga, che fanno delle reunion nei campeggi un concreto attestato di solidarietà e convivenze. Per l'approvigionamento di acqua e elettricità ci sono i parcheggi compiacenti dei centri commerciali o i 'workcamper' nei pressi dei magazzini Amazon dove si lavora stagionalmente (inevitabile macchina di sfruttamento e disumanità). Ci sono anche i depositi affittati e le vendite in cortile per il surplus della vita precedente stanziale, come pure la condivisione di conoscenze e di mestieri che fa di queste persone i veri appartenenti a una comunità senza scopo di lucro. È in definitiva un' America fuori dai radar, quella che ci racconta Bruder, un' America parallela o se vogliamo un piccolo pianeta ( neppur troppo minimo) in orbita dentro l'America ufficiale consegnata dagli organi governativi. Permane pur sempre quel sottaciuto spirito da pionieri, impresso nel DNA di una nazione, che serve a salvarsi dalle conseguenze di un default ai livelli di quello degli anni '30. In questo viaggio con assai poco spazio per il romanzesco, Bruder rende noi lettori partecipi di un percorso esistenziale nel suo bene e nel suo male; merito della giornalista è di aver dato voce e 'visibilità' a questa comunità speciale. Certo che sia uno “stile di vita emozionante e innovativo”, sebbene presenti svantaggi e empasse da risolvere o arginare anche quando meno te lo aspetti. Le parole chiave allora sono 'farcela' e 'cavarsela' al riparo di qualsiasi dubbio o tentennamento, e se la paura arriva rimane sottopelle fino al bivio successivo. Linda e gli altri non si sentono 'senza tetto', sono solo 'senza casa' stanziale vivendo e spostandosi in camper. Il nomadismo qui è una necessità, è l'ultima spiaggia per non unirsi agli homeless cittadini, ma è anche vissuto come una ritrovata libertà sullo sfondo delle grandi pianure. In definitiva queste persone, molte delle quali appaiono veri “evangelisti del nomadismo”, si sentono libere di non soccombere del tutto sotto i colpi degli errori del sistema. La subcultura che ne ha origine è destinata ad espandersi negli States, dove ben si conosce il vuoto pneumatico di tanti aspetti del sociale, quanto per noi oltreoceano possono nascere comprensibili riflessioni da questi fatti. In quale posto è andato mai il cosiddetto sogno americano, viene da chiedersi, quando è necessario tenere un basso profilo negli spostamenti perché si è fuorilegge da molti punti di vista e se si abbandonano le varie 'coperture' si rischia di essere segnalati o denunciati. Ritorna l' altro mito americano dell' outsider, per decisione o per bisogno, non scevro di riferimenti letterari al pari di questa subcultura, da Steinbeck a Least Heat-Moon da Vonnegut a Thoreau. Non contraddice nessun loro principio il grande progetto di Linda: su un appezzamento interrare uno scuolabus per risiedere o per riposarsi fra uno spostamento e l'altro. Resta sempre legittimamente valida una risposta 'altra' :
Furgoncini in mezzo al deserto
Furgoncini di materiali scadenti
Furgoncini in mezzo al deserto
Furgoncini tutti diversi
Ce n'è uno bianco e uno bianco
E uno bianco e uno a fiori
E sono fatti di materiali scadenti
E sono tutti diversi
E le persone sono vagabondi su ruote
Le persone più gentili del mondo
E non si faranno mettere in gabbia
E non saranno tutti uguali
Siamo amichevoli
Siamo una famiglia
Ci piace stare insieme
Nel deserto, nel deserto
Dove tutta la terra è uguale....
E non abbiamo padiglioni,
Alberghi diurni, palchi centrali
Ma abbiamo un bivacco attorno a cui nascono le amicizie
Siamo tutti fatti di materiali scadenti
E la pensiamo tutti in modo diverso
Elisabetta Beneforti
Frances McDormand nel film di Chloè Zhao
MINIMO UMANO
Stevio Di Spigno, Minimo Umano, Marcos y Marcos, 2020
La dedica iniziale ad Alfred Schnittke, posta come proemio, autorizza a leggere questo nuovo libro di Stelvio Di Spigno come una sorta di rito musicale, di tellurico concerto per orchestra, visto
che l’orchestra, secondo Schnittke, è l’archetipo stesso della società umana, delle sue ramificazioni e delle sue involuzioni. Ed infatti, in Minimo umano si avvicendano preludi e congedi, in
mezzo la prima sezione, Versi morali, che sembra alternare lentezza meditativa e velocità di visione; un adagio, le Elegie finali, che chiudono i conti col
passato fin troppo presente fin ad ora; uno schiarimento abbagliante nelle poesie di Terra e cielo, e poi di nuovo un soprassalto allegrissimo con fuoco ne Il mondo estremo e La vita facile, per
poi chiudersi con un lento, commovente postludio nelle poesie dedicate a Elena D’Arienzo ed Emilia Criscuolo, i numi tutelari di questa epopea. Letto così, questo libro appare molto più
comprensibile, specie se si tiene conto della cultura musicale di Di Spigno e della sua ormai inveterata tendenza a spingere la gamma emotiva fino all’estremo del dicibile. Resta un solo un
enigma: come ha fatto un urto così tremendo dell’idealità poetica
con la realtà vissuta a tradursi in forme così marmoree e sicure, mentre tutto nel e del mondo dell’autore crolla su se stesso non lasciando che macerie fumanti e rimpianti angosciosi. Ma questa
è la storia della forma in poesia, fa parte dello statuto stesso del genere, bisogna starci dentro, e Di Spigno ci sta davvero a suo bell’agio.
Ferdinando De Nicola
Cameretta
O cameretta che già fosti un porto
PETRARCA, R. V. F. CCXXXIV
Irreale è questa stanza e il sogno
che la contiene. Si allarga di notte,
fino a diventare immaginaria, non
si vede più l’armadio, la porta, la vetrata,
la tela della Madonna col Bambino,
ma un sussurro di foglie e il guaiolare
dei cani, dall’ampia campagna di fronte,
entrano e prendono ristoro. La stanza
si fa enorme, sparisce ogni confine
temporale, si vede solo un’età
perduta come un rampicante,
ai piedi del mio letto, dove dormivo solo.
Mi tornano alla mente i desideri,
le azioni del giorno e le avventure
del pensiero. E guardo questo spazio,
diventato puro. La luce della lampada
fa sparire anche me nel suo candore,
ridivento della terra, del vento, del cielo,
e poi mi sento lontano e catturato
verso mondi che non possono morire,
e degli anni che restano non vedo più la fine
nella danza di queste ore inebriate.
Somnium
Tendo la mano a una conca
inesplorata: sfilacciato dal ritmo
delle nubi, lo stesso cielo è diviso
secondo il fianco di osservazione. Come
un mare senza sponde, torna
in se stessa l’anima accecata, e perde
ogni insegna del giorno passato. Si sposta
un costone cadente e romba un tuono
come dall’aldilà. Ma non lo sento.
La vita continua negli ossari
o nel ricordo? Nella storia o nelle steppe?
con noi o senza noi? La risposta
a questi allunaggi della mente
è dovuta. Con parole troppo grosse,
talvolta, ma il silenzio non è ammesso.
Le tre di notte, fumo intorno al letto,
odore di brace dal camino. Ho abbracciato
l’amore di una donna a me uguale,
solo più grande e senza destino.
Vorrei restare in questo lago di grazia,
le palpebre abbassate, il petto lento.
Faccio a caso due passi, mi colpisce
come un sasso il gallo delle periferie.
Con ancora più sangue
il sole invalido piomberà,
come la vendetta di una iena.
Fotografia Ettore Prota
Stelvio Di Spigno è nato a Napoli nel 1975. Per Marcos Y Marcos ha pubblicato nel 2015 il
fortunato Fermata del tempo e, nel 2020, Minimo umano. Gli altri suoi libri di poesia sono
Mattinale (Sometti, 2002, ed. accresciuta Caramanica, 2006), Formazione del bianco (Manni, 2007) e (peQuod, 2010). Ha vinto il Premio Andes, il premio Nazionale di Calabria e Basilicata e il premio Sandro Penna. Ha pubblicato due monografie: “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi (L’Orientale Editrice, 2007) e L’artificio della naturalezza. Da Leopardi a noi (Agiscom, 2015). Vive e lavora a Roma dove insegna nei licei.
Nell'iconico dipinto di Grant Wood, American Gothic, viene rappresentato senza compromessi l'ancora attuale e discutibile concetto di radicamento nella propria cultura, alla quale non sono permesse alterazioni di sorta. L'obbiettivo della coppia austera di bianchi in posa con il forcone è preservare l'orticello delle tradizioni dalla minaccia di ogni possibile cambiamento. Così lo sviluppo industriale negli anni '30 di Grant equivale oggigiorno al melting pot culturale dato dalle migrazioni. La difesa esposta nel quadro non è affatto anacronistica, se non a caso ne mutua il titolo questo libro di esordio di Arianna Farinelli per la collana “Munizioni” diretta da Roberto Saviano. Gotico Americano ci racconta dall'interno risvolti pubblici e privati dell'arcipelago della contemporaneità, laddove l'ambientazione statunitense della storia è solo un punto di partenza per utili riflessioni a venire. Sì perché il libro di Farinelli, prima ancora di un complesso di istanze narrative, si presenta come documentazione per domande e risposte sui nodi civili del nostro tempo. La vita della protagonista Bruna così tanto bene integrata nella upperclass della grande mela (sposata ad un medico, due figli, docente universitaria), è solo un decorato paravento per contraddizioni che si sommano e si scontrano. Niente altro che una filigrana finissima destinata subito a sgranarsi, non essendoci offerte sintesi sociali. Ecco che Bruna porta nel suo percorso l'identità come marchio e come motivo di lotta. Lei per prima italiana che ha deciso di vivere negli States, il marito Tom mammone insicuro e nipote di poveri immigrati meridionali, Yunus il giovane amante che diventerà jihadista, il figlio piccolo Mario che manifesta una disforia di genere, l'ingombrante suocera Amanda che ha rinnegato le sue origini dopo la soglia della completa integrazione.... Sembra proprio non esistere spazio alla cultura della differenza all'interno dello sbandierato sogno americano, grande balena bianca che non perdona. Tutto quanto non è in linea con la liturgia politica è considerato “alieno” e dunque alienabile. Allora migranti, afroamericani e bianchi outsider condividono lo stesso destino e a niente varrà il loro essere onesti o pieni di nuovo amore o autentici. Ci saranno invece le tappe esistenziali di Yunus dal ghetto alla morte a Mosul, sarà Bruna a far crescere Giona il figlio avuto da lui, sarà Tom a rimanere murato per sempre nel moralismo paralizzante della sua famiglia. Una domanda opportuna a cui ci sottopone Gotico Americano è se certi fenomeni di radicalizzazione riguardino soltanto alcune culture o se ne siamo alla fine tutti coinvolti. La lettura di questo romanzo suggerisce di spostare lo sguardo e focalizzare meglio le coordinate. Perché le parole sono importanti, perché le parole sono “munizioni”. Le uniche da utilizzare.
Elisabetta Beneforti
INCERTO CONFINE
a cura di Elisabetta Beneforti
Stefano Vitale, Albertina Bollati,Incerto confine, disegnodiverso, 2019
Disegnodiverso è una pregevole collana-editrice che dal 1990 pubblica piccoli libri d’arte, come recita la seconda di copertina “capricci editoriali per il collezionista del terzo millennio”. Ogni plaquette raccoglie in 60 pagine voci di poeti, attori, musicisti e artisti, questi gioielli preziosi come la piccola editoria è in grado di ricercare e offrire.
Ultima uscita di questo interessante progetto è Incerto confine, poesie di Stefano Vitale e illustrazioni di Albertina Bollati. La relazione intessuta fra i due linguaggi artistici è da subito compagna imprescindibile nella lettura. Le delicatissime e al tempo stesso incisive illustrazioni non sono semplicemente affiancate al testo con un generico ‘a fronte’, quanto invece partecipano come in un duetto unendo voce alla voce. Il dettato poetico abbraccia saldamente il dettato figurativo. Così i temi lirici di Vitale hanno modo di dispiegarsi nei tratti di Bollati, come le variazioni cromatiche dei disegni riecheggiano nei versi. Poesia lirica questa, di un lirismo sentitamente civile, il cui canto spiegato e netto si affranca da facili cadute morali o declaratorie. Indicata già nel titolo della raccolta viene rappresentata e declinata la parola ‘confine’, lemma oramai quotidiano con il suo portato di aspettative e strazianti vicissitudini. Ne nasce un dizionario composto a più voci, quelle dei migranti e come riverbero quelle di tutti noi in quanto uomini. La condizione di trasmigranti dunque è collettiva, perché l’essere umano vive e sopravvive sotto una varietà di cieli e in tante terre di mezzo. Passare il confine / è un viaggio verticale ci avverte Vitale e il temibile ventre della balena racchiude quei passaggi in mare nella condizione di sospensione dei corpi. Spesso sono proprio loro, i corpi, a parlare con lividi-sangue-sudore quando e se le descrizioni non sono sufficienti: Il confine del corpo / è il filo spinato della paura. L’hic et nunc è lo sguardo che deve spostarsi dentro il flusso arrogante del tempo. A tratti, come un respiro breve ma necessario, il confine è anche facile da attraversare per completare gli orizzonti a definire l’esperienza. Il pessimismo della ragione si coniuga con l’ottimismo della speranza, ha scritto Alessandro Fo nella sua recensione al libro. I confini sono e restano plurimi :concreti e concettuali, corporali e terrestri. Non siamo dentro e neppure fuori, noi permanenti prigionieri dei confini tracciati. All’interno della narrazione trovano una bella collocazione citazioni dirette da grandi maestri come Celan, Strand, Sereni.
La poesia di Stefano Vitale ha una sicura appartenenza alla ricerca poetica contemporanea e non solo italiana, anche questo dato fa di Incerto confine un libro di rinnovate letture.
Alfabeto muto
Cerchiamo la parola esatta, àncora
che viene dal bene
che ci afferri come un destino.
Cerchiamo la parola esatta, luce
nella piega delle labbra
nel gesto lieve delle dita.
Cerchiamo la parola esatta, argine
che ci renda lo splendore del silenzio
senza vergogna né rassegnazione.
Ma quel che abbiamo è
un alfabeto muto
passo senza cognizione
pieno d’errori
distrazioni, omissioni.
Stefano Vitale, Albertina Bollati,Incerto confine, disegnodiverso, 2019
“LIFE IS A REAL DREAM
AND I AM DREAMING IT”
Lawrence Ferlinghetti
Scoppi urla risate
Sur, Roma, 2019
Davvero cento anni ancora di beatitudine per uno degli ultimi poeti beat viventi! In rotta di avvicinamento al suo compleanno esce in traduzione questa ultima raccolta di Lawrence Ferlinghetti, letteralmente un cesto ricolmo di Blast Cries Laughter per festeggiare un ragguardevole anniversario. Un secolo che lui – definito “il Prévert d’ America” – ha attraversato lucido e sinceramente espressivo, in stretto contatto con gli scrittori suoi contemporanei per affinità di vedute e in corrispondenza di amorosi sensi con i grandi del passato – da Dante a Beckett dagli antichi rimatori a Pound. Poeta fertilissimo e pittore visionario, editore attento più alla qualità della voce poetica che al mercato, attivista per l’ecologia e la pace, Ferlinghetti riassume tanto nella sua opera che nei suoi dati biografici il profilo dello scrittore della controcultura americana. Va da sé che una vita longeva gli abbia anche permesso di superare i limiti di un certo momento storico, garantendo una maggiore incisività all’enunciazione del punto di vista sull’uomo e sul mondo. Le poesie di Scoppi urla risate contengono tutti i temi a lui cari da sempre, come la partecipazione alla natura come quintessenza di ogni essere vivente, l’epica e la lirica del quotidiano, l’abbandono delle armi e dei motivi che portano a utilizzarle. Se è vero che da tempo gli oracoli si sono estinti, ancora una volta ritroviamo Ferlinghetti indelebile come l’inchiostro a mantenere uno sguardo disincantato ma pieno d’amore, ad ogni passo accompagnato da un sorriso ironico. Quel sorriso, non ci sbagliamo, anche tagliente perché diretto e preciso che arriva a farsi polemico in immagini accecanti contro i bigotti, il capitalismo, l’attualità dei social e della rete. Un grande sonno/ ci ha sopraffatti tutti/ coi dispositivi in mano// Tra gli alberi si sentono/ i violini dell’autunno/ mentre i cavalli bianchi del mare/ si lanciano ancora sulle nostre spiagge/ con un ruggito immenso e perduto. Intanto per lui l’America resta “crogiuolo di pazzi” nelle scelte politiche e nella morale dominante, complice consapevole di alienazione e discriminazioni. In un sogno dentro un sogno ho sognato un sogno/ di lotta quotidiana per l’esistenza/ nel modellino a molla dell’universo/ il tritacarne vorticante del mondo/ sul punto di divorare sé stesso. Poche poesie dopo il suo anarchico sentire va in dissolvenza nelle descrizioni di vita che scorre, lui seduto su una panchina al Ferry Building di San Francisco/ sull’ultima frontiera nella terra della libertà felice di rappresentare il Teatro Magico della realtà pura e semplice : Ah dolci le mattine/in cui sull’amore splende il sole. Costantemente nel backstage dei versi di Ferlinghetti è impossibile non sentire rimandi alla Grecia antica o a certa tradizione classica italiana, tutto l’interesse sincero per la cultura europea. Il desiderio espresso che l’Età dell’Oro ritorni / prima che tutte le età finiscano nasce dalla rivisitazione dell’immaginario ellenico e del suo paesaggio, popolato da divinità e poeti, da quella Sibilla a cui si rivolge: dacci nuovi sogni da sognare/ nuovi miti con cui vivere! La dimensione del sogno ritorna in più occasioni, occasione esso stesso come prossima controparte di una fragile realtà e tributo inevitabile al Surrealismo e Dada. Ferlinghetti non lascia mai, continua a nuotare con lunghe e placide bracciate in quella instancabile ricerca di sensi e significati che hanno fatto del suo percorso uno dei più significativi del Novecento americano. In Autobiography del 1958 scriveva “young men should be explorers”. Questo anziano ragazzo, tenero e libertario.
TRAGICOMMEDIA
Le maschere classiche di
tragedia e commedia
sovrapposte
una all’altra
attraverso cui il poeta parla
contemporaneamente
a volte scoppiano
rapsodiche
in risate
scomposte e irrefrenabili
Così che naturalmente
ne scaturiscono
le più Assurde
tragicommedie
Elisabetta Beneforti
Julian Schnabel
Van Gogh – sulla soglia dell’eternità
Svizzera, Gran Bretagna, USA, 2018
Festival di Venezia 2018: Premio Coppa Volpi migliore interpretazione maschile a Willem Dafoe
Quanto un artista può raccontare le sequenze di percorso di un altro artista. Come gli camminasse accanto e ci desse conto del suo lavoro per contingenze esterne e interiori. Ad una ventina di anni da Basquiat , Julian Schnabel compone un ritratto del pittore olandese nei suoi ultimi e fecondissimi anni di vita. Lontano dagli stilemi classici del biopic, questo Van Gogh-sulla soglia dell’eternità ha la straordinaria forza di condurci all’interno di una “sbalorditiva autenticità” artistica. Dai grigiori di Parigi e delle pretestuose famiglie di artisti sarà la fuga ad Arles a rinnovare l’animo di Vincent, sullo schermo un impareggiabile Willem Dafoe. Il sud gli offre un buon ritiro dalla socialità del mondo e le scuole vulgate, nonché gli scenari migliori per soddisfare la sua ricerca di dipingere una nuova luce. I gialli, l’arancio con il marrone, blu intensi e rosa sgraziato: ogni accostamento cromatico è defilato dalla modernità di allora, ogni gesto netto delle pennellate è necessario per condividere ciò che vede e per rappresentare la natura nei suoi elementi terreni. Le tele si popolano di alberi, animali, covoni, campi seminati, fiori recisi. Van Gogh è delirante quanto illuminato, sentitamente inquieto e fuori posto per la comunità sonnolenta della provincia. Disagi mentali come abusi alcolici gli fanno visitare manicomi e dottori, l’amato fratello Theo lo segue e lo supporta, l’amico Paul Gauguin è amicizia e condivisione nella ricerca pittorica. Per Vincent la natura è tutto, guardare è tutto, non ha bisogno di nient’altro per vivere se non stare immerso nei suoi paesaggi fortemente convulsi. Perché quando dipinge lui dimora in un momento di quiete, in mezzo al vortice di stati allucinatori e paranoie. Questo ci racconta Schnabel, componendo una tela dai fili intrecciati dentro e fuori un’esistenza particolare. Allora finisce per delineare sia la poetica di Van Gogh, attraverso le conversazioni con personaggi a lui prossimi, sia il processo della sua pittura. Alla fine poco contano alcuni episodi biografici dalla versione differente rispetto ad altre fonti, come il preciso ruolo del fratello e di Gauguin o l’effettivo destinatario dell’orecchio tagliato o ancora la reale natura della sua morte. Ciò che più rilevante rimane è l’aver reso cinematograficamente la natura materica e febbrile del lavoro artistico di un grande maestro. La camera di Julian Schnabel segue obliqua e inclinata i movimenti di Vincent, dando origine a un punto di vista che appartiene principalmente al pittore e di seguito a noi spettatori. Le inquadrature si succedono dalla prima alla terza persona e con questo ci concedono l’ingresso nelle visioni e nelle distorsioni di una mente tanto malata quanto lucidamente geniale. Infine lo sfuocato nel basso della scena quando salgono le crisi improvvise. Lo sguardo di Van Gogh diventa le scene del film, una vera immersione tattile e umorale nel processo artistico di lui che ha inseguito freneticamente luce e eternità. Quella ricerca costante dell’infinito che si tradurrà nell’applauso delle generazioni successive. La camera ardente a Auvers-sur-Oise vede la bara circondata dalle sue tele, persone vanno e vengono omaggiando più le opere che l’artista. Dopo la Provenza e Saint-Rémy, la casa gialla e i paesani che l’avevano espulso, restano le rappresentazioni dei luoghi tanto amati e intenzionalmente consegnate al mondo per recare speranza quanto conforto. Ha scritto Antonin Artaud:
il corpo sotto la pelle è una fabbrica surriscaldata e fuori il malato brilla,
riluce
da tutti i pori
scoppiati,
così un paesaggio di Van Gogh a mezzogiorno.
Un giorno la pittura di Van Gogh armata di febbre
e di buona salute,
ritornerà per scagliare in aria la polvere di un
mondo in gabbia
che il suo cuore
non aveva potuto sopportare.
(A.Artaud, Van Gogh il suicidato della società)
Elisabetta Beneforti
JOY HARJO
Un delta nella pelle
Poesie scelte, 1976-2001
a cura di Laura Coltelli
Passigli poesia, 2017
PREMIO INTERNAZIONALE CAMAIORE 2018
Energie universali/ ci congiungono/ l’un l’altro/ nella creazione costante/ il destino/ carica il flusso/ noi siamo la corrente/ dell’eternità, scriveva il cantante e poeta Santee John Trudell. Si parla qui del respiro profondo di un intero popolo, della sua cultura nell’incontro-scontro con il cosiddetto ‘sogno americano’. Trudell non apparteneva certo alla categoria degli ‘indiani da circo’, offrendo nei suoi testi l’anima e le vicissitudini dei nativi americani. Anche con la lunga opera poetica di Joy Harjo siamo subito fuori dai confini di una facile etnografia da manuale. Quanto di più autentico, liricamente collettivo e individuale al tempo stesso, si possa chiedere a un poeta indigeno. La scrittura per lei, infatti, è il motivo non solo per condividere la testimonianza di una particolare condizione storica e sociale, ma anche per trasmettere emozioni e percezioni di una donna prima ancora che nativa americana. Mixed blood, Creek da parte di padre e Cherokee-francese da quella di madre, Joy Harjo possiede dati biografici fatti di turbolenze, cadute, riprese. Non è un caso che questa raccolta abbia un titolo assai suggestivo (Un delta nella pelle, originariamente How to became human) e tanto significativo per le sue testimonianze. A partire dai suoi luoghi deputati, dall’Oklaoma al Tennessi dal New Mexico a New Orleans e Santa Fé, queste sono le terre che accolgono e ricoprono materne. Si legge il senso di non appartenenza all’America contemporanea, intrecciato saldamente con i riferimenti ineludibili alle tradizioni di intere tribù. Il mito da un lato e l’identità statunitense dall’altro in un cerchio in cui entrano la fierezza come la ghost dance come le vite a stelle e strisce. Su tutte finisce per farsi sentire fortissima una grande energia positiva. Ecco dove arriva sempre la straordinaria voce poetica di Joy Harjo, che percorre il solco dell’antica tradizione orale con tutto il portato del ritmo e delle sonorità necessarie per esprimere costumi ancestrali. Il fuoco e il seme sono elementi benevolmente dominanti per la trasformazione, per il potere del cambiamento. Nascita, morte, sopravvivenza: il ciclo della vita sia degli umani che della natura è tema trasversale, necessariamente sotteso ad ogni racconto. Joy Harjo è la narratrice d’elezione di un “popolo espropriato”, lei canta le memorie inestimabili del Sud Est affinché queste non perdano terreno nella storia e nelle aree geografiche. Nelle poesie del Delta nella pelle opposti reali non esistono, perché ogni elemento si amalgama insieme nella diversità attraverso un puro ed eterno fluire. Al largo e nel profondo con un linguaggio prosodico e visionario al contempo, che spesso procede con grande impatto per luci e ombre. Più che di un figurativo illuminato e piano, si hanno chiaroscuri sempre dotati di serena forza. Leggere la Harjo significa farsi accompagnare lungo circostanze, immagini, profonda leggerezza, rabbia manifesta, paure mai sconfitte, immancabili scarti fra presente e passato. Centrali perché indispensabili sono qui le donne come portatrici di un destino, come conduttrici di esistenze nel cuore o ai bordi delle comunità. Il dolore può grandemente segnarle nella stessa misura in cui un parto può farle risorgere.
Ricorda il cielo sotto cui sei nata,
impara le storie di ogni stella.
Ricorda la luna, impara chi è.
Ricorda la nascita del sole all’alba,
il più possente attimo del tempo. Ricorda il tramonto
e il concedersi alla notte.
Ricorda la tua nascita, come tua madre lottò
per darti forma e respiro. Sei la testimonianza della
sua vita, quella di sua madre, e poi quella di lei.
Ricorda tuo padre. Anche lui è la tua vita.
Ricorda la terra, sei tu la sua pelle:
terra rossa, terra nera, terra gialla, terra bianca
terra bruna, noi siamo terra.
Ricorda le piante, gli alberi, gli animali, anch’essi hanno
tribù, famiglie, storie. Parla con loro,
ascoltali. Sono poesie viventi.
Ricorda il vento. Ricorda la sua voce. Lui conosce
l’origine di questo universo.
Ricorda che tu sei tutti e tutti
sono te.
Ricorda tu sei questo universo e questo
universo sei tu
Elisabetta Beneforti
HALLELUJAH TOSCANA
immagini di Marco Paoli
e
poesie di Alba Donati,
con un testo di Michael Cunningham,
Contrasto, 2017
Hallelujah Toscana va oltre lo straordinario lavoro fotografico, edito da Contrasto in elegante formato con copertina blu intenso e pagine introduttive in giallo acceso. Allusione esplicita al cielo e al sole di tanti paesaggi di questa terra. Hallelujah Toscana è un viaggio dentro più viaggi.
Un lungo racconto per sequenze di immagini e parole attraverso luoghi a margine dei percorsi toscani abituali. Pagina dopo pagina incontriamo isole e cimiteri, chiese e antiche ville, statue ed ex ospedali psichiatrici, manifatture e opifici, stanze museali.
Ci sono nature altre, umanità altre, storie inaspettate tanto vive e presenti. Sono quelle visitate con grande maestria (di sguardo e di cuore) dal fotografo Marco Paoli come reportage e al tempo stesso esplorazione della terra natìa, quasi un nuovo continente.
Un rigorosissimo bianco e nero ci restituisce differenti scenari, tutti trattenuti nella loro assolutezza. Unico pegno è rappresentare se stessi con le vicende di cui sono eredi, mentre eventuali annotazioni temporali vengono sospese nello scatto o rimandate a pensieri successivi. Possono essere alcuni oggetti abbandonati a fornire tracce di vita di tanti luoghi dismessi, a dare occasione per posizionare in quello spazio azioni e faccende.
Saranno le poesie di Alba Donati, che intercalano la serie fotografica, a regalare contorno e voci ai fantasmi abitanti di questi luoghi. Fantasmagorie nelle architetture della versificazione, tanto ipnotica quanto oscura e quotidiana. Nei testi poetici si intrecciano registri linguistici alti con forme del parlato, in un’alternanza di io/noi narrante con un tu/voi interlocutorio. Nasce qui un emozionante succedersi di versi che si fanno testimoni della gestualità delle statue come di stanze fatiscenti. Le voci che ricompone Alba Donati sono molto belle, piene di una forza espressiva che definisce oggi un momento importante della poesia italiana contemporanea.
Inoltre parole e foto non sono meramente dialoganti sul bene e sul male, ma di questo bene e male creano una mise en scene , una sincera rappresentazione a completamento. Marco Paoli e Alba Donati procedono per descrizioni che aprono a suggestioni, mai terminate in un cerchio chiuso piuttosto disponibili a letture ulteriori.
Intermittenze dello sguardo corrono fra riflessi sull’acqua, finestre deserte su paesaggi aperti, statue percorse da rampicanti, nebbie accecanti, muri di contenzione e graffiti, giardini dai ricordi sontuosi.
In Hallelujah Toscana ritorna declinato al meglio quel “perdersi a guardare” di Mimmo Jodice, riferimento eccellente per Marco Paoli. Il passato è il nostro presente adesso in questa regione che è grembo materno e memoria collettiva. L’intersezione di fotografie e poesie dà avvio a nuovi linguaggi. Come a una nuova, restituita bellezza.
di Alba Donati
Ben oltre le siepi e i bossi
oltre i cipressi e i gigli
sei anche tu come tutte
abbandonata , terra mia,
c’è sempre qualcosa
che sfugge all’ordinato apparire,
c’è sempre quel luogo
sconosciuto che tale vuole rimanere
un buio che si chiude al buio
una vertigine rimasta vertigine
e così anche tu, luminaria
di bellezze, custodisci zolle riverse
ossa interrate, muri scavati
nei muri, stanze e corridoi
dove risuonano voci inudibili.
Noi siamo sulle tue tracce
terra abscondita,
ti cerchiamo, ti inseguiamo,
ci caliamo, ci involiamo
abbiamo occhi ciechi per vedere
meglio, le tue infinite strade
di spavento e meraviglia.
Infinite, absconditae
Hallelujah Toscana
HALLELUJAH TOSCANA
immagini di Marco Paoli e poesie di Alba Donati,
con un testo di Michael Cunningham,
Contrasto, 2017
ANTONINE VOLODINE, ANGELI MINORI, L’Orma editore,2016
Distopie e ultime frontiere
C’è di tutto qui.
Ci sono rovine e esplorazioni ai confini del mondo conosciuto. Ci sono mari sfiniti e villaggi di tendoni. Ci sono animali vivissimi e quanto resta della natura. Ci sono molti giorni e molte notti, come c’è una scansione centenaria del tempo che si allunga a perdita d’occhio. E soprattutto ci sono i personaggi dai nomi improbabili con storie parallele o tangenti come stanze affacciate su un corridoio. Ognuno di loro vive la propria esperienza senza commozione o con gioia rarefatta, solo raggiunge il punto più alto o più basso di numerose generazioni. Sono loro gli Angeli minori raccontati da Antoine Volodine attraverso i quarantanove narrat del personaggio Will Scheidmann. Entrare in questo romanzo è come calarsi in un abisso, per poi riaffiorare e mantenersi su una superficie uniforme. Gli uomini e le donne di questi episodi sono bizzarri ? Sono solo proiezioni della nostra coscienza? Compongono un affresco dalla trama notevole e credibile? All’interno dei narrat straniati e stranianti niente alla fine è misterioso o assurdo o confutabile. Semplicemente siamo di fronte a una realtà ‘altra’, quella del mondo dopo il presente e dunque connotato da una dimensione spazio-temporale di profilo extraordinario. Allora certi scenari inusitati come quelli che flirtano con l’ordinario ci avvolgono accattivanti. Grandine sottile e tundra grigia, una luminosità fuori dal comune in diurno e notturno, le sfumature del cielo come variazioni d’umore, nuvole e stelle a coprire benevoli la volta celeste, un calamaro gigantesco arenato a decomporsi. Non sono da meno gli stessi personaggi che scioccano con il loro fascino di fantasticheria. Will Scheidmann, il dicitore, creato con pezzi di stoffa e incantesimi da vegliarde immortali. Freek Wislow, uno degli esploratori nel mondo alla deriva. Sophie Gironde, amabile creatura che fa partorire orse bianche su un transatlantico. Sarah Kwong anima il centro educativo e sua sorella vende al mercato mazzetti di erbe medicinali. Rachel Carinissimi “ha già ucciso molti capitalisti, ma non li ha mangiati”. Djimmi Iougriev, parvenu della nuova era, sguazza nel lusso del suo appartamento inondato di musica. Lo scrittore Fred Zeulf, autore di libri cui spesso manca la fine e ricolmi di scenari abbietti e belle scene di tenerezza. E via discorrendo. Nel mondo degli Angeli minori non si muore mai, perché si continua a vivere per secoli trascinandosi fra bisogni primari e visioni oniriche, uniche possibili per riscattare la sequenza delle stagioni. Dalla soglia del millennio (appare in prima edizione nel 1999) ci viene consegnato da Volodine questo romanzo apocalittico dove più generi letterari si intrecciano e si fondono senza forzature stilistiche. Le sue
interferenze fra mondi paralleli lo mettono sulla linea di quel certo sguardo sul mondo partorito dal genio indiscusso di P.K.Dick. Non a caso Volodine, scrittore francese ancora in posizione defilata sulla scena italiana, ha creato per sé e i suoi eteronimi la corrente letteraria del “post-esotismo”, che prevede la fusione fra realtà e fantastico, sogno e politica. Come contrappunti su una partitura ben definita risultano di grande effetto le intromissioni dell’autore con notazioni di poetica su quanto sta scrivendo. Dichiarazioni sottili in grado di accompagnare nell’infinito viaggio delle sue parole. La sottile inquietudine che prende durante la lettura dei narrat proviene da una scrittura liscia e piana, classica si direbbe, al punto di apparire quasi rassicurante. Ma è solo un momento. Maestria di un narratore invincibile, avvalendosi di quei “travestimenti magici” del suo background russo, vuole che si cambino le carte in tavola da una pagina all’altra. Sul palcoscenico degli Angeli minori c’è tutto e c’è niente. Alla fine dei conti ci siamo noi e quello che potremo diventare. Chapeau, monsieur Volodine.
Elisabetta Beneforti
CINQUANTA FOGLIE
Cinquanta foglie, Tanka giapponesi e italiani in dialogo, a cura di Paolo Lagazzi, con tavole di Satoshi Hirose e Daniela Tomerini, Moretti &Vitali, 2016.
Le traduzioni sono di Yasuko Matsumoto, Ikuko Sagiyama e Yasuko Tatsumura.
Una delle cose che non può non colpire di questo libro, è l’introduzione di Paolo Lagazzi, eccelsa. E' una delle voci più raffinate e interessanti della critica italiana e specializzato anche nella cultura orientale, le sue parole risplendono del suo sapere. Ogni suo scritto sempre emoziona per la precisione e profondità intellettuale e per la grande apertura, il grande respiro della ‘comprensione ultima’ che riesce a trasmetterci poesia. Una penna quella di Lagazzi che rende felice il lettore, perché la scrittura è essa stessa arte e sapienza di un percorso che offre a noi lettori un dono a cui per la sua profondità non siamo purtroppo abituati.
Un libro questo che ci rimanda alla bellezza e alla leggerezza tipici di certa cultura giapponese. Una raccolta di tanka (5,7,5,7,7 sillabe) una forma lirica molto antica che risale a circa al VIII secolo d.C., un poco più esteso di un haiku (5,7,5, sillabe). Il tanka era molto usato, anche per uno scambio di missive, messaggi amorosi, informazioni varie, ci si apriva così a una pluralità di risposte tra gli scriventi, esso talvolta era accompagnato da un qualcosa che esprimeva bellezza, un ramo, una carta particolare, si veniva così a formare un unicum artistico tra scrittura e oggetto, anche oggi tutto questo ha un seguito, con dipinti, piccole opere d'arte, oltre che con la raffinatezza della Via della scrittura.
Vengono qui proposti 25 tanka giapponesi di autori contemporanei a cui ‘rispondono’ altrettanti poeti italiani. Il tanka, forma da sempre molto praticata ha dato spazio a sentimenti di vario tipo, temi tipici della poesia, ha sempre e ancor più oggi, per la sua storia e natura poetica, rappresentato un veicolo di espressione più schietto e con uno spettro più ampio rispetto all’haiku, che è lampo di intuizione, saetta nel ‘nulla’ e al tempo stesso nella 'apparente semplicità' dello scorrere del tempo. Il tanka apre a un luogo poetico più accogliente, vi si può esprime con respiri più distesi e direi a tutto campo, aperto a una quasi completa espressione, seppur all’interno di una metrica che può risultare più consona a noi occidentali. L’haiku invece è un salto “nell’indicibile”, si gioca in quell'ansa speciale tra detto e non detto, anche se in occidente è molto praticato e spesso risulta, a torto, poesia facile, semplice, dal contatto con la natura, quasi fotografico. L’haiku, come ‘deve essere’, è una poesia difficile, come lo spirito da cui trae la propria linfa, ovvero la cultura, la filosofia, la religione Zen.
E lo Zen è un altro grande fraintendimento a cui noi occidentali siamo approdati, relegandolo a quieta e banale meditazione e a una certa pacatezza nei modi e nel vivere.
In questa raccolta anche la traduzione ha una sua valenza, infatti il lavoro intrapreso nelle rispettive lingue richiede una cognizione, oltre che degli idiomi , dell’area poetica, con tutti i peculiari rimandi in cui si dipana la poesia.
I poeti si parlano attraverso una sorta di intuizione-comprensione da due mondi non proprio simili, la cultura giapponese e quella italiana, occidentale. Sono tutti tanka molto belli, alcuni opera di autori molto conosciuti in Giappone, come Makiko Kasuga, Hiroshi Shino. I poeti italiani, tra i quali Giancarlo Pontiggia, Luigia Sorrentino, Davide Rondoni, Renato Minore e il Maestro Zen Fausto Taiten Guareschi, rispondono, anche se con "risposta", come ci suggerisce il curatore, si intende non una "vera risposta", che la poesia non può dare risposte, semmai rimandi, rintocchi, sfioramenti , assonanze in quel terreno di detto e non detto….una speciale atmosfera, il famoso yūgen.
Questo accostamento è ispirato, dal rapporto tra Maestro Zen e discepolo, un rapporto che avviene tra le due "anime", da "mente a mente da cuore a cuore", una comprensione, come dicevo, che travalica il razionale e le chiusure che la mente ci impone per una paura costante. E questo incontro-dialogo tra diverse culture, con dei tanka, oltre le comuni parole, con la poesia appunto , rappresenta un messaggio, ovvero che l’arte può farci superare ogni barriera e incomprensione, può contribuire alla sconfitta delle discriminazioni e della barbarie, così presenti attualmente.
E questo ‘gioco’ di risposte dal giapponese all’italiano è un susseguirsi di misteri, dolcezze, ambiguità, paure, ombre, dolori e slanci verso l’apertura della vita, in versi in cui gli ostacoli culturali non esistono, si crea quel linguaggio magico proprio della parola poetica in cui l' autore riesce a mantenere la propria cultura nutrendola anche d'altro e dunque trasformandola, arricchendola.
L.O.
Alcuni Tanka
Portano in classe
una bottiglia d'acqua
le ragazzine,
dove mai sta arrivando
il deserto?
Hiroshi Shino
Gira il sole. La casa
sta ferma ad aspettarlo.
Nel suo bacio
la pietra
ritorna guancia, carne.
Umberto Fiori
Nel bosco della mente
uve, mieli, ombre- orci
di un tempo felice. Irrompe
con stridi, con becchi
l'istrice della notte.
Giancarlo Pontiggia
Le foglie vive
congiunte come mani.
La giovinezza
è fiorita dai rami
sul dorso della pietra.
Luigia Sorrentino
Pieno di luna.
Nello stagno di ghiaia
guardo all'alba.
Il cielo s'è coperto.
Ricordo nostro padre.
Fausto Taiten Guareschi
Quanto è bello ciò
che va appassendo
senza parola!
Ai piedi dell'albero invernale
sta penetrando la luce.
Makiko Kasuga
Cinzia Marulli, Percorsi, La Vita Felice, 2016
da Pensieri, Cinzia Marulli.
Il senso bianco delle nuvole
È la mia strada
che non conosco
ma non mi importa
mi piace il vento
e il suo trasporto.
Tu mi guardi come fossi nebbia
eppure sento una voce
una voce chiara
e la tua risposta
che fulmina il pensiero.
Dimmi.
Copri questa domanda disperata.
«Dov’è il senso del sentiero?»
Lo chiedo a te che stai lì
con le mani nella terra
e i piedi in aria come radici celesti.
«Il senso del sentiero» mi dici
«non è nel percorso
e neanche nell’arrivo.»
Poi la certezza:
«È nel ritorno.»
Cinzia Marulli
PERCORSI
Ho voluto leggere Percorsi, di Cinzia Marulli, senza nessun intento da recensore, se così posso dire, ma ‘da poeta a poeta’…
Questo libro già con il titolo ci annuncia l’intento, un cammino in un sentiero che si svelerà poi per il lettore, chiaro e preciso, espresso con delicata forza. Un viaggio che centra l’Uomo, o meglio il Tutto.
”Il tempo non conta e neanche la lunghezza del percorso/Ciò che conta, invece, è mettere un passo dietro l’altro”, ecco questo cammino in cui tutto si muove intorno alla poeta, un viaggio profondo che la porta a contattare, a dialogare con ombre, voci, con la natura…, il ritorno è essenziale, certo, ma un ritorno in cui si è come purificati, forse dopo la vita comune, il dolore, il pianto….
Purificati dalla comprensione, dalla sofferenza, dalla conoscenza e dall’essere coscienti della realtà, ma senza separazione con tutto ciò che è Vita, senza arroganza, ci si dissolve così nella natura, si aspetta, su un picco, per volare che le ali spuntino, ma alla fine esse sono inessenziali per gettarsi nel cielo-Vuoto e ci si getta! Ecco la Vita.
E che dire di quei delicatissimi “fili d’erba” che ogni tanto spuntano tra le parole…
La leggerezza di queste poesie, il silenzio a cui rimandano e direi quasi la grazia e la gentilezza che esprimono, accentuano in un modo tutto suo la forza di questi testi, di una scrittura pulita, limpida, dal ritmo sicuro e spesso incalzante, una poesia che sa dove ‘andare’, ha un preciso ordine e le ‘tappe’ di questo viaggio hanno tutte un senso profondo, si toccano gli elementi della Terra, i dolori degli esseri umani. E il disperdersi “ghianda dispersa nella terra”, è un esserci in tutte le cose, non un abbandono, non un lasciarsi andare, è un essere partecipi al Tutto, per comprendere e per forse ritornare nella vita dove prima si era ma non come prima.
Il tempo non c’è inteso come scansione ‘normale’, c’è il Grande tempo, che abbraccia il passato e il futuro in un unicum che pur nell’incertezza governa l’Universo, con salde radici nella terra. E naturalmente c’è la morte, grande tema qui affrontato quasi con naturalezza, certo il dolore si sente, ma l’accettazione “ Pensatemi allegra in questa morte che non è nero” ribadisce quella leggerezza e soprattutto quell’esprimere un pensiero caro ad oriente che affiora un po’ ovunque, “i fili d’erba”. Una ricerca spirituale che si alimenta e abbraccia culture diverse, quasi all’opposto oriente e occidente, ma che qui si unificano per celebrare quella Unità che permette di custodire, di coltivare “davanti a me -la luce-”, come scrive Cinzia Marulli.
Nei suoi bei versi, ben calibrati e mai esagerati, come dicevo, di una raffinata maestria, la parola, la poesia ha un ruolo, me lo si lasci dire, offre “la grande apertura di cuore” come si dice ad oriente, per “salvarsi e salvare” e continuare il Percorso.
Luigi Oldani
da Pensieri, Cinzia Marulli.
Forse è nel silenzio che si ascolta
la musica più sublime
in quel vuoto che avvolge
tra la sospensione ansante del respiro
e l’attimo incerto sul bordo del destino.
Nell’apparente conclusione di un percorso
si sfiorano i sentieri del domani.
Mi sono sempre chiesta dove vanno le nuvole
a chi porteranno l’acqua della loro pioggia.
Non ci sono orme
nessuno che calpesti questa terra umida
eppure sento un sorriso avvicinarsi
l’abbraccio invisibile della luce a trafiggere il buio.
Giorgio Caproni, IL "TERZO LIBRO" E ALTRE COSE, Einaudi, 2016
UN LIBRO NECESSARIO
Le vicissitudini di Giorgio Caproni sono racchiuse in questa raccolta per sua cronologia anomala, edita originariamente nel 1968 da Einaudi che la ripropone adesso – raccolta concessa allora dal ‘garzantiano’ poeta in via amichevole. Il terzo libro era così uscito vicino ad altri importanti lavori poetici e pur presentando solo pochi inediti è di fatto un importante momento di passaggio nel percorso di Caproni. Quanto si è indagato per l’occasione in fatto a conti filologici, liste lessicali, cronologie esatte, nomi e cognomi e riferimenti, ma al di là delle varie notazioni testuali resta la testimonianza di una voce poetica fra le più ‘forti’ del novecento italiano. Piana, si direbbe, limpida e appassionata che è ormai parte di una tradizione a cui risulta impossibile non guardare e riferirsi. Una poesia da non mettere sotto microscopio, piuttosto da far volare dalle pagine aperte che la accoglie. Il canzoniere della sua vita Caproni l’ha scritto stagione dopo stagione, variando gli accenti o le melodie in un continuo sentire e trascrivere. Genova come Livorno come Roma sono luoghi deputati ma anche affetti al pari delle persone e degli eventi che popolano la sua poesia. Ci sono le donne, siano madre o moglie o giovinette. Ci sono i monti vissuti da partigiano, la guerra, la figura del padre. E ancora i vapori, la nebbia, le tende, le stanze vuote che delineano attimi dolorosi. Insomma tutto quanto successo nel decennio fra il ’44 e il ’54. Non appare mai una nota di consolazione, solo accettazione e apertura su immagini che dal poeta si offrono puramente condivisibili. Le forme minime e allegoriche sono lo strumento più sicuro che può accompagnare il racconto caproniano. Vale anche per i muti dialoghi, fatti di domande e asserzioni, che passano quasi indispensabili in tanti dei testi qui raccolti. Il terzo libro e altre cose vuole anche essere il documento di una direzione presa, l’assestamento di un’intera generazione attraversati eventi storici terribili e conclusa la “giovinezza”. Ho conosciuto neri / tavoli - anime in fretta / posare la bicicletta / allo stipite,e entrare / a perdersi fra i vapori. /E ho conosciuto rossori/ indicibili – mani / di gelo sulla segatura / rancida, e senza figura / nel fumo la ragazza /che aspetta con la sua tazza / vuota la mia paura.
Elisabetta Beneforti
Le giovani
parole
Sono giovani queste parole, che nella sua ultima raccolta la poetessa compone a raccontare interni ed esterni del mondo sensibile - pubblico e privato. Passano stagioni, volti cari della mamma e di amici, fatti minimali , elementi di una natura ora buona compagna ora colma di inquietudine. Si prende la più bella/gittata dal cielo universo/ e si tesse si tesse la luce/ con l’ombra. Il secco/con l’umido del sotto terra./ Nei fiori. Le aurore e i tramonti di ogni sensazione o immagine arrivano allo sguardo del lettore sempre partecipe di tutte le loro spore, così la cifra lirica si allarga ad un campo apertissimo leggi universale. Punto di forza è una gioia che si illumina e si oscura attraversando le varie sezioni del libro. Meraviglia dello stare bene/ quando le formiche mentali/ non partoriscono altre formiche/ e si sta leggeri come capre sulla rupe/ della gioia. A tutti gli effetti testimone e testimonianza dei percorsi di vita rimane la parola poetica, affatto timida nel cercare toni suoi propri per la scena contemporanea e nello stesso tempo ricca degli echi di un’intera tradizione letteraria. Dentro la lingua/un fagotto di sillabe/si srotola in canto./è tempo di cadere/dentro covoni di parole/e farne pane per tutti. Il canto della Gualtieri è alzare e scorrere, scivolare via e riapparire, modulare parole come note musicali, accendersi di contrasti e sinonimi inaspettati. Particelle del mondo e frammenti di discorso ricomposti in un monologo dialogante, specchio inconfessato dell’esperienza teatrale della poetessa ora qui declinato in uno stile piano e disteso. A cuore aperto vengono tessute frasi e scenari, a cuore aperto si misurano passi e cadute. Tanto d’amore viene/e sostiene. Niente che resti/ non amato.
Elisabetta Beneforti
Mariangela Gualtieri, Le
giovani parole, Einaudi, 2015
Un bellissimo libro di poesie di uno degli autori più famosi in Francia, recentemente si è parlato molto di lui, anche per le sue prese di posizione spesso provocatorie ma mai gratuite e superficiali, dettate spesso da un profondo disagio di vivere l’attualità, soprattutto in terra francese.
Queste poesie ci sono piaciute molto, un ritmo incalzante grazie a una sapiente rima, a una profonda ricerca di parola spesso senza speranza, disillusa, quasi arresa all’evidenza dei fatti dell’ umanità, ma talvolta un barlume di speranza, un chiarore ancora sul mondo, pare dirci, può arrivare. Testi che descrivono piccoli momenti di vita più "comune" o riflessioni su di essa, altri ci propongono una lirica particolare, un viaggio nell'umana condizione non banale dove, malgrado tutto, la bellezza della parola viene trasportata da una musicalità che ci cattura.
La traduzione è ad opera di Alba Donati e Francesca Garavini, ed è proprio da questa sinergia tra una poetessa, la prima e studiosa, scrittrice la seconda che ‘nasce’ una traduzione che non tradisce il testo originale, anzi lo valorizza, spesso con il tocco delicato e ricercato, intelligente di chi conosce l’autore, di chi ‘sa’ la poesia.
FRANCO MARCOALDI, IL MONDO SIA LODATO.
Un libro che ci è piaciuto molto, per la sua forma in primis, un poemetto dal ritmo incalzante e soprattutto per la tematica non ovvia, una sorta di inno al mondo, un mantra, una preghiera sui generis, un ringraziamento e un atto di accusa. Un esprimere rammarico, pietà, amarezza per gli umani che vivono nel mondo con le loro vicissitudini e disgrazie, ma, ed è questo l’aspetto veramente straordinario e affascinante, diremmo quasi con risvolti ‘religiosi orientali’, il poeta ringrazia il mondo.
Un atto modesto, quasi in sordina e, si capisce, con la forza incredibile di chi sa vedere la globalità delle Cose, un Unicum che è la Vita, dalle mille sfaccettature e sempre e comunque affascinante e dolorosa, incredibilmente da vivere.
Allora “Mondo, ti devo lodare” è un grazie, una gratitudine che malgrado tutto arriva.
Un poemetto in cui il ritmo esprime appieno, nel suo essere serrato e al tempo stesso rilassato , pacato, proprio la visione del Mondo che il poeta ci regala.
“Non penso mai alla poesia come a qualcosa di sublime, di ‘poetico’, e sento infatti particolarmente vicini a me quei poeti che premono sul pedale dell’ironia. Penso piuttosto che la poesia sia una forma di ‘emotion recollected in tranquillity‘, come diceva Wordsworth, e che la parola poetica debba essere precisa, pur nella sua ambiguità costitutiva, e tersa. Ecco, la Szymborska ha ad esempio questa grande virtù di rendere cristallina la parola poetica”.
da Incontro con Franco Marcoaldi a cura di Niccolò Nisivoccia, Nuoviargomenti.net
Franco Marcoaldi, IL MONDO SIA LODATO, EINAUDI, 2015
La vita dei bicchieri e delle
stelle
di Giuseppe Grattacaso
Un desiderio di ordine e insieme di delicato scompiglio sembra potersi dire alla base della raccolta di Giuseppe Grattacaso: Non esiste modo di dare un senso al cielo inessenziale e sbilanciato, scrive l’autore, e contemporaneamente sembra forzare le sillabe nella direzione diametralmente opposta della sua sistemazione, della comprensione di un legame, di un ponte che faccia della quotidianitàuno specchio, più o meno riconoscibile, di un quadro celeste piùlontano e, non per questo, del tutto insondabile.
Il passo d’avvio per questa duplice indagine è un percorso che traccia confini, ripercorre i limiti del reale, dei gesti quotidiani per poi isolarne le forme e potersene servire come arma, scudo o semplice contraccolpo contro i suoni dell’universo: esplosioni, nascita e morte delle stelle, rotazioni costanti di corpi stellari.
Agiamo nello stretto di poche cose, si legge, ed in questa limitatezza l’autore cerca una traccia, una ruga, una imperfezione, uno screzio testimone della vita delle stelle, dei pianeti sopra di noi.
E poiché una catalogazione degli oggetti intorno –bicchieri, posate, sedie e poltrone – corre il rischio di confinarci nel mondo di ciò che non sappiamo, le poesie della raccolta ci guidano in modo centrifugo verso un mondo altro degli oggetti, girano intorno alle cose e ce le mostrano in una prospettiva che le renda vive di una profonditàquotidiana, quasi avessero col tempo, con l’uso, rubato a noi un po’di vita, un po’ di sentimenti.
Un riparo per chi vive nella realtà delle cose tentando di conciliare gli spazi del cielo con quelli della casa e dell’anima, sembra essere nel tempo: Facciamo un poco meno, cosa importa / a tutti gli altri se facciamo meno, / ci alziamo un giorno, non partiamo in quarta, / ci stiracchiamo, ci guardiamo intorno / e quando sembra sia arrivato il tempo / per andare finalmente a spada tratta, / invece ancora un poco rallentiamo (…). Rallentare il tempo delle azioni, dei pensieri, ridurre all’osso le domande sull’universo lasciando che il solo guardare possa sbarazzarsi del superfluo e cogliere la “maglia rotta nella rete”, il pertugio privilegiato da cui guardare le cose mutare, evolversi o, semplicemente, esistere: Però che bello quando il mondo è fermo /immobile e granitico d’estate: / mortale fino a ieri, adesso eterno, / senza importanza appuntamenti e date leggiamo nella sezione finale, Quartine d’agosto, dove le stesse parole sembrano ridotte all’essenziale, epigrammatiche nelle loro intuizioni, immagini, potenzialità.
Il tempo sospeso tra i riflessi del cristallo delle brocche, dei bicchieri nella credenza è il richiamo di una esistenza senza alcun confine nell’universo, di uno spazio e di un tempo piùlontani che si toccano tra i bagliori di luce o tra le bave di vento nell’aria.
L’urgenza di una poetica dello sconfinamento che tuttavia resti sempre immanente, nell’al di qua delle cose, si fa in Giuseppe Grattacaso espressione piana e mai banale della bellezza di tutto ciòin cui è rintracciabile un inizio, una vita e, talvolta, una perdita irrimediabile: se nulla si crea, ma tutto non rimane, l’esplosione di una supernova ha quindi in scala su di noi la stessa incidenza, lo stesso effetto, di una tazza improvvisamente perduta, scheggiata dopo anni di quotidiano servizio tra le nostre mani, sulle nostre labbra.
DANIELA GENTILE
Giuseppe Grattacaso, La vita dei bicchieri e delle stelle, Campanotto Editore, 2013
VITTORIA FRANCO, RESPONSABILITA', FIGURE E METAMORFOSI DI UN CONCETTO, DONZELLI EDITORE, 2015
Che cos’è la responsabilità? Quando è nato questo termine? Ha un significato univoco? Un’etica della responsabilità è possibile? Dopo aver trattato dei tre paradigmi fondamentali della responsabilità, quello giuridico, quello politico e quello filosofico morale, il volume approfondisce quest'ultimo muovendo dalle prime discussioni, a partire dalla metà dell’Ottocento, con John Stuart Mill e i deterministi, che identificano l’essere responsabile con l’essere colpevole e la responsabilità con l’imputabilità. Fra le reazioni a tale impostazione, quelle dei kantiani e degli spiritualisti francesi, i quali propongono interpretazioni che lasciano spazio alla libertà e alla morale. Fra loro, due giovani filosofi: Lucien Lévy-Bruhl, col suo concetto di responsabilità vuota, e Jean-Marie Guyau, con la nozione di morale senza obbligo né sanzione.
Nel prosieguo dell’analisi l’autrice, visitando alcune delle teorie etiche più importanti del Novecento, propone l’idea di un’etica della responsabilità come risposta possibile nell’epoca della fine della metafisica. In Hannah Arendt vengono rintracciate tre diverse figure della responsabilità: come colpa, facoltà di giudizio e cura del mondo comune; in Ágnes Heller emerge la figura dell’etica della personalità; in Emmanuel Levinas la responsabilità si libera completamente dal peso della sua storia giuridica in quanto imputabilità e diviene darsi totalmente all’altro. E infine, nelle critiche dei postmoderni all’universalismo – Bauman, Derrida, Apel, ma anche Ricoeur – l’autrice individua il luogo d’origine di un’etica della responsabilità come «autodeterminazione responsabile» e come facoltà di giudizio.
Nella responsabilità sono in gioco le due libertà, dell’io e dell’altro, che devono trovare il modo e la misura del con-vivere nell’equilibrio fra autonomia e limite. Essa sorge nel momento in cui si arriva alla consapevolezza di lasciar essere anche la libertà dell’altro.
Marco Marchi, Per Pasolini, Le Lettere, 2014
Questo saggio di Marco Marchi, uno dei migliori critici attuali, arricchisce la nostra comprensione dell'amato Pasolini, " figura centrale, di primissimo piano ed assolutamente ineludibile, del nostro secondo Novecento". Sono 'interventi' selezionati e provenienti da molteplici occasioni come convegni, incontri di studio, in diversi periodi.
Una ridifinizione e una ricollocazione di Pasolini oltre le consuete " accezioni contingue, ambedue mass-mediologichee a forte rischio di banalizzazione: quella del regista di film crudeli e trasgressivi noti in tutto il mondo, (...) e quella del provocatorio giornalista, "corsaro" e "luterano", a suo tempo ospitato dal Corriere della Sera (...). Le due immagini finiscono poi con il convergere in quella consumistica di un Pasolini personaggio eretico e scandaloso (...), più moralisticamente giudicato e guardato con sospetto (...) che effettivamente conosciuto. Quale invece, al di là di ogni forma di demonizzazione o di mitizzazione di Pasolini, la sua incidenza storiografica, quanti i suoi talenti trasformati per tutti noi in cultura!"
Il critico nei vari capitoli ci propone come non mai Pasolini quale poeta che offre un profondo contributo al Novecento con la sua originalità poetica. "E' il soffio dell'ospirazione che agisce". Urgenza espressiva che porta Pasolini a risultati di alta poesia che vanno, tra l'altro, dalla terzina, all'epigramma, alla lirica amorosa, un intento, che si esprime durante tutta la vita del poeta, di elvare la parola quotidiana e di trasformare la poesia stessa...
Una raccolta di scritti molto belli che Marchi ci propone, come altre volta ha fatto per molti autori, che ci illuminano e ci conducono alla 'vera' scoperta di un Pasolini che va ancora letto, studiato e di cui far tesoro.
UNO DEI LIBRI PIU' BELLI
Questo libro di Bruno Galluccio lo possiamo definire senza dubbio uno dei più belli ed interessanti mai pubblicati ultimamente.
Un autore che è scienziato e poeta, due mondi che riescono ad unirsi in una ricerca che si esprime qui attraverso un linguaggio unico che ci accompagna in un viaggio 'fisico' e 'metafisico', metaforico.
È una raccolta che affascina il lettore, lo smarrisce e lo lascia perdere nell'Universo. E al tempo stesso con tocco lieve e quasi magico lo riassicura con certezze che subito la parola poetica lancia nell' infinito...
Una raccolta originale come difficilmente accade. Due linguaggi, una magia, un universo che ci stupisce, ci rincuora e alla fine ci disperde ancora...
Con più di cento fotografie, Mimmo Jodice, in conversazione con Isabella Pedicini, ci
parla del suo percorso fotografico, una riflessione ampia e completa sul fare fotografia. Organizzate in base a sei parole chiave – Linguaggio, Persone, Silenzio, Enigma, Prospettive, Riverberi.
Temi che si possono ben ritrovare nelle sue opere.
Mimmo Jodice nasce a Napoli nel 1934." Dal 1967 sceglie la fotografia come strumento
ideale per testimoniare il suo tempo: da autodidatta sperimenta le possibilità di questo mezzo e arricchisce la sua formazione attraverso il contatto con alcuni artisti d’avanguardia che
frequentavano Napoli in quegli anni, come Andy Warhol e Joseph Beuys." (Contrasto) Nel 1970 diviene il primo docente di fotografia in Italia nelle accademie di Belle arti. Bellissimi i "suoi"
mari, le onde, le statue del museo archeologico di Napoli...Le città.
“Abril”
è una rivista europea in lingua spagnola nata 23 anni fa in Lussemburgo da un’idea di un gruppo
di traduttori professionisti. Oggi è diventata maggiorenne, ed è orgogliosa di avere pubblicato autori provenienti non solo da ogni angolo d’Europa, ma anche americani, sia del Nord che del Sud, senza dimenticare i molti asiatici e africani.
Accoglie testi di giovani scrittori, che in molte occasioni hanno raggiunto la fama dopo (non necessariamente "in conseguenza di"!) essere apparsi sulle nostre pagine-, così come il lavoro di autori affermati.
“Abril” è aperta alla narrativa, alla poesia -una recentissima collaborazione poetica è quella con i due poeti fondatori di Pioggia obliqua, Elisabetta Beneforti e Luigi Oldani-, al saggio e all'intervista.
Incoraggiamo da questa piattaforma quei creatori che vogliono "fare un salto verso l'Europa" a farsi avanti sulle pagine di “Abril”... tradotti in spagnolo.
Per abbonamenti ed invio di testi: abril@lu.coditel.net, oppure revista.abril@mac.com
Kkyu Sojun,
Nuvole vaganti, la raccotla di un Maestro Zen
A cura di Ornella Civardi
Ubaldini Editore
Ikkyu Sojun (1394-1481) è una tra le figure più particlolari dello Zen, sceglie la vita del monaco itinerante a contatto con le persone ‘autentiche’, non ama le raffinatezze di corte, nè le affettazioni religiose di molti monaci e Maestri, il suo è uno Zen diretto, che esprime libertà dalle convenzioni, espressione ‘vera’ del sentire interiore, in sintonia con la sua stessa vita quotidiana, in una continua ‘simbiosi’ con la poesia, che del resto è vita. Molte le sue poesie che ci arrivano tradotte in un italiano che spesso perde probabilmente la sua prima freschezza e originalità. I suoi sono anche testi talvolta spregiudicati, spesso contro i potenti, sempre espressione di un sentire Zen profondo. Alcune poesie sono dense di passione
erotica.
Sotto i piedi il filo rosso
Il somaro s’inchina alle regole,
l’uomo le infrange:
Innumeri come i granelli di sabbi del fiume
le sciocchezze in cui annega la mente.
Nel bimbo appena nato
già corre il filo dell’eros,
Sboccia e sfiorisce il fiore rosso
primavera dopo primavera.
(...) il filo rosso delle passioni che non si può tranciare. Esiste un solo modo per liberarsene, porvisi davanti con risolutezza. Ikkyu concorda con Songyuan sulla necessità di imparare a conoscere e a convivere con la propria sfera emotiva, piuttosto che perseguire un ideale di Buddhità “pietrificata”. Si rifiuta perciò di legittimare i precetti di un ascetismo istituzionale e imposto, considerando tali regole qualcosa di futile e sostanzialmente estraneo alla parola di Buddha, qualcosa che serve solo a molestare lo spirito e a distrarlo dalla vera Via. Lo slancio erotico è congenito all’uomo, presente fin dalla nascita, e perciò in essenza buono. Nella vita sboccia e si spegne con l’ineluttabilità di un fenomeno naturale.(...)
PIOGGIA OBLIQUA
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