Bartolomeo Bellanova, Perdite, puntoacapo editrice, 2022
Prefazione di Maria Luisa Vezzali
Un passo avanti dentro la vita risulta contemporaneamente un passo avanti verso la morte. Nascita e scomparsa: due facce della stessa medaglia sulla quale è inciso il nostro umano, inesorabile, condiviso destino. Bartolomeo Bellanova nella sua intensa raccolta intitolata Perdite (puntoacapo editrice, 2022) scrive che i due volti finiscono quasi per specchiarsi, : «Il buio è luce di altro colore / la morte è vita di altro spessore» . Non sono previsti sconti né rinvii, le nostre esistenze, trascinate dal divenire, approdano tutte sulla stessa sponda: «Non c’è prescrizione / Non c’è appello / Non c’è permesso per buona condotta». Il confine fra aldiquà e aldilà si può rivelare drammaticamente labile e sottile, una frontiera porosa e senza mura, una barriera che non separa: «Oltrepassare la soglia tra qui e di là / è breve / è fruscio di lucertola / davanti ai piedi».
Per l’autore il divenire, personale e collettivo, biologico e storico, si presenta con i tratti prevalenti di un progressivo e ritmico decadimento, come una «naturale marcescenza», come decomposizione («il nostro decomporci un po’ per giorno»). La strofa di una poesia, intitolata Lo scoiattolo, spietatamente lucida e allo stesso tempo vibrante di commozione dice: «Tra poche ore i corvi faranno scempio / della tua irrequietezza / e divisioni di formiche / assedieranno affamate / i tuoi pensieri rimasti appesi / tra i tronchi di due querce».
Il giudizio di Bellanova sul mondo attuale si potrebbe probabilmente definire radicale. Il suo sguardo tende a cogliere, a volte in maniera acutamente visionaria, discrasie, anomalie, contraddizioni, contrasti, rischi, ingiustizie, nefandezze, disagi, desolazioni, dolori e sofferenze («occhi rossi di pianto») della realtà in cui siamo immersi e che ci circonda. Nella sua illuminante Prefazione, la poetessa Maria Luisa Vezzali sottolinea che in questo libro le poesie «sono, in primis, un palese atto di denuncia nei confronti di un mondo spogliato di umanità, che si regge sui principi di una violenza sistemica».
Il presente è inquinato da «parole infestanti» e da tubi di scappamento («Il simposio dei tubi di scappamento / intrattiene i pedoni / lungo i viali di circonvallazione»); l’ambiente è assediato da «sacchi di plastica» e discariche, da «macerie di cantieri sbarrati», da una «melassa di veleni», dalla siccità («È una bestemmia alla nostra madre / l’acqua salata che risale la foce / spacca le labbra dei campi / e prosciuga la pubertà del frutteto»). Certo, il tono è tendenzialmente a tratti apocalittico, estremo e pessimistico, soprattutto nei confronti di un futuro già ipotecato, nella sua fisionomia e nel suoi sviluppi, dall’oggi. Riporto per intero la poesia che, con amaro paradosso, chiude il volume:
Falso indizio
Quando tra migliaia di anni
silenziosi robot asessuati
scaveranno sotto a decine di metri
di fogliame e liquame,
tra pezzi di viadotti o tralicci
ci troveranno abbracciati,
marmorizzati fossili a spirale,
umane ammoniti da collezione
e attribuiranno all’eccesso d’amore
la causa della nostra estinzione.
In realtà è proprio nell’amore che l’autore rintraccia e individua uno spiraglio in prossimità di una parziale salvezza; l’amore si manifesta come vicinanza, unione («con le mani intrecciate / possiamo plasmare mondi»), condivisione, dialogo («aggrappati alla mia voce»), ascolto.
Scrive con puntuale sintesi Maria Luisa Vezzali: «Amore, Natura, Poesia sono la triade positiva di questa raccolta, ciò che alla perdita si oppone e che può salvare, soprattutto grazie al nodo virtuoso delle loro interrelazioni».
Giancarlo Baroni
Esistono molteplici ragioni per volersi appropriare di questo agile libro di Giancarlo Baroni (Come lucciole nel buio, puntoacapo Editrice). Ad iniziare da quella che può parere la più futile: la intrigante bellezza della veste tipografica. La copertina, la quarta di copertina e il dorso riproducono un particolare di un quadro di Cezanne (Le mele e le pere): una densa velatura dai toni autunnali, freddamente carnali e un po’ avvolgenti, con quella luce impastata e pingue che sembra provenire dagli oggetti stessi. Quasi ti costringono, quelle tinte seducenti, ad aprire il volumetto, a perderti nella lettura, complice l’invitante filo d’Arianna delle denominazioni dei capitoli, a partire dal sottotitolo: Dieci riflessioni sulla vita e sulla letteratura. Ma Cezanne potrebbe costituire soltanto la sontuosa porta d’accesso slegata dal resto dell’edificio. In realtà ha diffuso i suoi colori cremosi e olivastri nelle stanze della casa. Il pittore non ha forse scritto che «i colori sono l’espressione di questa profondità alla superficie, salgono su dalle radici del mondo.»? E Baroni, con questo libro, sembra proprio guardare “alle radici del mondo”, spesso negli anfratti bui dell’ontologia, in attesa che dal profondo risalga la luce fredda e intermittente di sparute lucciole a gratificare di un significato, almeno provvisorio, il nostro esistere e l’umano destino. Oppure, col medesimo atteggiamento conoscitivo, si interroga – e ci interroga - su cosa sia l’arte e che ruolo giochi tra i bisogni dell’uomo e nella società contemporanea.
Baroni potrebbe condividere le parole con cui si aprono gli Essais di Montaigne: «perché è me stesso che ritraggo […] sono io stesso la materia del mio libro». Si tratta infatti di «un libro di autocoscienza laica», per dirla con Auerbach, un’opera nella quale lo scrittore, con esibizione di umiltà, ci presenta «buona parte di quello che ho imparato» in una lunga vita e che condivide col lettore quasi con pudica ritrosia e non senza inconsci propositi catartici e di autoanalisi. Questa operazione sfida un poco le convenzioni culturali, dà importanza a quello che, in tempi di rimozione e saperi fluidi dai bordi indefiniti, pare non importare più e riscopre un mondo, prossimo e accessibile, ma il più delle volte lasciato giacere nella penombra perché nessun raggio luminoso (fatta eccezione per la lettura fideistica) può rivelarlo intero.
E’ appunto l’opera, lieve e densa ad un tempo, di un autore curioso dei molteplici aspetti del reale e che non si vergogna di scandagliare i misteri dell’esistenza, di tenere gli occhi bene aperti davanti alla voragine oscura della morte, di chiedersi il perché del dolore e della gioia, di indagare i limiti della conoscenza e le ragioni dell’arte. Baroni non ha alcuna verità preconfezionata da propagare, interpella se stesso, esibisce con fierezza i propri dubbi, le proprie inquietudini esistenziali, dichiara i propri amori. Emerge limpida la sua passione per la letteratura e in particolare per la poesia, la più inutile e la più indispensabile (e faticosa) delle forme d’arte, nata, come ci ricorda Fernanda Romagnoli, dal connubio tra «colomba e serpente», magari «malattia endemica e assolutamente incurabile», come sosteneva Montale, ma strumento privilegiato, per Baroni, per interrogare il mondo ed esserne interrogati. Assieme al filtro letterario che l’autore sembra utilizzare per leggere la realtà e il proprio accidentato paesaggio interiore, traspare pure, al di là della discrezione, il rimorso velato ma sentito del peccato di poetare anziché vivere.
Inseguendo queste Lucciole, il lettore troverà una serie cospicua di ricordi letterari, citazioni di autori che vanno dall’antichità ai giorni nostri. Non si tratta di un esercizio artificioso e meramente enciclopedico, ma di un processo naturale: quelle immagini fanno parte della coscienza di Baroni, del suo panorama interiore, del giardino fiorito o riarso dei suoi ricordi e delle sue passioni allo stesso modo dei suoi sentimenti; perciò la sua realtà intima, al momento di dichiararsi, ricorre naturalmente ai ricordi letterari. Tornano in mente le parole di Machiavelli nella Lettera a Francesco Vettori a proposito del rapporto con gli scrittori antichi: «dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandoli delle ragioni delle loro actioni, e quelli per loro humanità mi rispondono». Da Omero a Caravaggio, da Conrad a Patrizia Cavalli, Baroni sembra voler stabilire un ideale contatto fraterno con artisti e letterati, persino cantautori, e interrogarli, condividere passioni, insicurezze esistenziali e comprendere come essi hanno offerto provvisorie, personali risposte agli stessi interrogativi che assillano la sua coscienza. E nel rivivere entro la consolidata impostazione di un classico – o di un autore contemporaneo - la sua esperienza interiore trova come una conferma e una legittimazione solenne e nello stesso tempo una chiarificazione e una sorta di purificazione.
Infine, questo volume «a la gaetta pelle» sembra volerci suggerire che di questo vasto universo, del significato del nostro esistere, noi cogliamo talvolta sparute luci fredde, come quelle delle lucciole, che ci danno l’illusione di piccoli barlumi che vincano il buio. Ma quei puntini persi nell’oscurità non riscaldano, non illuminano, sono leggeri e ingannevoli al pari della bellezza. Osservati però nelle notti d’estate, accrescono il mistero incommensurabile del mondo e forse sono lì per dirci che l’intimo segreto del loro vagare sfidando le tenebre è il volo stesso.
Fabrizio Azzali
Francesca Anselmi, Nel lento fluire delle ore, Edizioni Gazebo
Nel lento fruire delle ore è la seconda pubblicazione di Francesca Anselmi per le edizioni Gazebo. Conosciamo bene il lavoro attento e qualificato nella scelta della poesia da parte della poetessa Mariella Bettarini. La copertina è impreziosita da una fotografia di Gabriella Maleti, fondatrice lei stessa delle edizioni.
Questa raccolta di Francesca Anselmi racchiude ed esprime un fervore e fermento di parole, attimi fugaci in cui il verso nasce da un silenzio taciuto.
La poesia dell'Anselmi, traspare un bisogno di rinascita, un desiderio di ricostruire una "nuova Francesca".
" Dalle rovine del mio essere
ho ricostruito la mia essenza.
senza un progetto, senza una scadenza,
mi sono ridisegnata.
Inconsapevole, disattenta, mutavo.
Inconscia artigiana di me stessa,
creavo ciò che mai ero stata. "
Un continuo lavorare nel proprio inconscio, attraverso un viaggio interiore ricco di domande, di propositi. Nella ricerca "del senso e del non senso". Un navigare nei ricordi del passato: siamo per poi/ non essere più gli stessi./ Mentiamo evolvendoci,/i gusci dei nostri cambiamenti./Ci comportiamo/ nel lento fruire delle ore/ e il gioco col tempo/ diviene inevitabile.
In queste poesie si legge un persistente bisogno di speranza, di una luce:
Fulgide stelle
siete nella notte
luce che conforta.
Se pur nascoste
la vostra eco luminosa
arriva a me.
Il bisogno di una presenza amica pronta ad illuminare, a riempire un vuoto interiore. Francesca Anselmi giuoca con le parole per gridare ad un mondo freddo, indifferente, silenzioso...."amatemi per tutto quelloche vi trattiene dall'amarmi"Ma c'è anche l'amore che lega in un abbraccio continuo, che si tramanda nella bella poesia dedicata alla figlia Greta. L'amore che placa l'ansia che dona forza e speranza. Una speranza che nasce dallo stupore: "Guardo il cielo/la sua vastità./Infiniti silenzi lo compongono./Resto così,/inebriata da tanta bellezza."Una speranza che grida al mondo l'amore per il viaggio continuo di ogni uomo, nonostante le battaglie per essere migliore. Un elegante speranza di comprendere la vita diceva J. Borges.Paolo Carnevali
Luca Pizzolitto, Il tempo fertile della solitudine, Campanotto editore, 2018
Ancora un canzoniere per Luca Pizzolitto, qui alla quarta raccolta pubblicata, indubbia conferma di un interessante percorso poetico. Una scrittura priva di formule manierate, dotata di un andamento e di scelte linguistiche portate ad una profonda essenzialità. Si direbbe, lodandolo, un ‘togliere’ piuttosto che aggiungere nella versificazione. Pizzolitto rimane convintamente un poeta lirico, quando traccia la ricerca di identità nella non-appartenenza del corpo e dei luoghi. Il suo sguardo è senza riserve, mai ammaestrato alle facili conclusioni, restando così sospeso in un chiedersi solo a tratti interrotto. Se si individuasse una deriva nichilista, questa sarebbe consapevole e pungente, quasi una presa di posizione minimale. Sono cantabili l’irrequietezza, l’inquietudine, la solitudine, quest’ultima sempre ‘fertile’ come recita il titolo. La solitudine, si legge qui bene, non è mai una resa, tutt’altro. Risulta necessario accudirla, farne buona compagna e buona maestra. Quel ‘naufrago e straniero’ di ungarettiana citazione, si ricongiunge a se stesso lungo strade d’amore e di vita.
La necessità di andare piano.
E quella di corrersi incontro.
Ruba alla notte l’essenza del vuoto
fanne collana per i tuoi seni spogli.
Sei partita nel vento.
Presto anche tu sarai sale
poi sabbia
poi niente.
*
La bellezza si stanca
in fretta del tentativo
di spiegarmi a parole.
Qui ho vissuto eppure
non sono mai stato
da me sono partito e
in questo niente ritorno
in un silenzio stellato
e trafitto, sempre troppo
lontano da me.
*
MENTRE NEL CIELO DI SARAJEVO
In una notte come questa Izet scriveva
poesie mentre nel cielo di Sarajevo
esplodevano stelle artificiali
e lungo le strade risuonava
il canto stridulo delle sirene.
Da una frattura di quiete
sale l’angoscia della terra.
Eppure anche questo
incerto sfiorarsi
è un tentativo
di sopravvivere al presente
di stare
stare vicini.
Tu stringimi
diventerò canto
tra le tue mani.
*
DOMANI, FORSE
Io vengo per sentieri
dove la gioia è un insulto
uno sputo
che cresce tra i rovi.
Sempre si sposta l’amore
un poco più in là.
Il mio cuore è uno spazio di terra
per l’inerzia dei gatti randagi.
*
È gioia irrequieta
questo tendermi
mai esistere a pieno
vivo a piccole dosi
nelle parole che scrivo.
Sono fuori dal tempo
non addomesticabile.
Selvatico.
Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale. Da quasi quindici anni si interessa e si occupa di poesia. Nel 2008 si classifica 1° al Premio Arezzo Poesia. Nel 2009 è finalista al Premio Letterario Città di Chieri. Nel 2014 vince il 1° premio al XXXV Concorso Letterario Internazionale Città di Moncallieri. Suoi testi sono apparsi sulla rivista “Tratti” e su blog e siti letterari. Tutti i suoi libri precedenti sono stati pubblicati da Ladolfi Editore e Transeuropa.
Henry Ariemma, Un gallone di kerosene, Transeuropa, 2019
Stiamo leggendo un canto lirico e riflessivo che racconta i differenti volti dell'esistere, attraverso sezioni che valgono come parentesi e tasselli di un sentito dialogato. I paesaggi urbani si alternano con una natura terrigna, più interprete che mero sfondo scenografico, e sono entrambi popolati da personaggi sinceri e perdenti. In questo parlato piano piano emergono affetti amichevoli, gli alti e bassi del vivere comune, le interrogazioni sospese di più ritorni e partenze. Alla sua terza raccolta poetica, Ariemma consolida una versificazione sempre più matura, con echi importanti della tradizione italiana.
Erano lunghe figure i tuoi disegni,
occhi ubriachi felici al sorriso
aperto un mondo,
linee decise per motore
al solo cuore, sguardo per carpire
fermezze in mani arcobaleno...
E i vestiti sono state le mie favole,
creta a stringere città per parole nuove,
indovinelli al navigare
pesce in carta di scatola blu
brillando polveri, oro ovunque
sulla pelle nella fronte e palpebre: luce
di questi sogni incollati ai tuoi,
due monete fissate insieme nel gioco di sempre.
*
Non mi hai dato tempo per incontrarti
sei andato con sorriso e sguardo alle parole
non dette, portando l'esempio mancato al togliere
mondo materiale, ornamento e gesto che ora ha fine.
Non mi hai dato tempo per incontrarti
sei andato con sorriso e sguardo in voce forte
senza l'aspettarti storie sbagliate, disimpegno
mancato coro parlando d'alberi, cielo e mare
ogni dove cuore al solido freddo.
Tolgo cento miei giorni a non essere
solo, a tradurmi tuoi sapienti libri,
capire se di interesse puoi parlare adesso
stessa indifferenza al dolore che mi libera.
*
Non avere nulla, è meglio di vivere?
Abituati a non avere niente
perpetrando non vivere,
non amore, mancato possesso
senza ragionare fede allo scopo
ultimo che premi questo dover rinascere
nuova pagina consapevole a quella scritta,
sovrascritta specchio in ombra, spento sole?
E' chiamare vetri i cristalli brillanti
perché persi inestimabili?
Henry Ariemma è nato a Los Angeles nel 1971 e vive a Roma. Suoi componimenti sono apparsi su riviste e litblog specializzati. Per Ladolfi ha pubblicato le raccolte di poesie Auruspice nelle viscere (2016) e Arimane (2017).
Antonio di Gennaro, Accadimento onirico, Nulla Die, 2019
La scrittura qui si tesse di immagini in trasparenza, portatrici significative di pensieri e riflessioni filosofiche. Come si osserva nell'introduzione alla silloge, di Gennaro scrive dal "mondo intermedio" dei poeti ed i suoi testi valgono come autentica "preghiera". Più spirituali che religiose in senso stretto, le poesie di Accadimento onirico parlano a Dio con un 'tu' privo di risposte eppure presente e ineludibile. La lirica si pone fra "io" e "l'altro", persone e destino, vita e morte, risentendo nell'impianto generale degli studi del poeta sull'opera di Emil Cioran. Pur dotata di un linguaggio forte e decisamente espressivo e di una interessante ricerca poetica, resta l'impressione che questa raccolta risulti 'appesantita' da eccessive citazioni da filosofi e pensatori. Se l'intento, soprattutto negli inserti in prosa, era quello di spiegare una poetica, forse è proprio lì che la creatività viene meno.
Accadimento onirico
Potesse la parola
estirpare alla radice
l'essere del nome tuo
confitto nell'anima,
arginando con
frangifrutti di lemmi
la mareggiata improvvisa
dei sogni.
Scarabocch-io
Per inventarmi la vita
aveva carta bianca
e una penna nuova di zecca.
Cominciò con tratto incerto
a tratteggiarmi un profilo.
Disegnò segni, sogni,
cancellò, riscrisse...
abbozzò per ore schizzi
senza esserne convinto.
Scarabocchiò un io-macchia....
ovunque interruzioni e niente smussi,
sprazzi d'inchiostro.
Lascia che noi
sia la poesia più bella
e mai scritta,
che solamente Dio conosce
e custodisce
nel regno delle possibilità
irrealizzate....
Antonio di Gennaro (1975) è saggista e studioso del pensatore romeno Emil Cioran con importanti pubblicazioni dal 2014 a oggi.
Iuri Lombardi, I Banditori della nebbia (LFA Publisher, 2019)
E' il sesto romanzo di Iuri Lombardi, già notoscrittore e autore poliedrico. Si tratta di una storia avvincente, a cavallo tra il romanzo di formazione e il noir, ambientata nei giorni nostri a
Lucca e racconta l’avventura di un gruppo di amici – presumibilmente giovani- che vengono chiamati a lavorare presso un’emittente privata locale di proprietà di uno dei più feroci e accaniti
psichiatri che ha un progetto criminale: costruire un manicomio sotto il mare tra Gibilterra e la Sicilia allo scopo di «conservare la malattia» e non guarirla mediante la sottrazione del tempo.
Ma un bel giorno lo psichiatra scompare misteriosamente: cosa è accaduto al medico e magnate televisivo?
Intanto il gruppo di amici vive paradossalmente un periodo intenso e di lavoro attraverso
inchieste, campagne pubblicitarie, reportage, denunce giornalistiche e privato; la vita e i destini sembrano infatti intrecciarsi continuamente e a prevaricare sono i sentimenti, l’affetto, con
risvolti di rapporti amorosi e tanto ancora...
Lombardi ancora una volta pare aver colpito nel segno, attraverso l’uso di una tecnica narrativa perfetta e avvincente, mediante il tono poetico di un «romanzo di descrizioni». Nelle pagine che
si susseguono è facile rintracciare il suo tocco poetico quasi a stabilire, senza retorica o forzature, una «narrativa di parola».
Insomma si tratta di una grande prova, la sesta dello scrittore fiorentino che vive tra Firenze e Roma.
da I bandidtori della nebbia, di Iuri Lombardi
Hollywood del Serchio
Nella realtà dei fatti siamo pescati a canna per quanto concerne
le finanze, nel senso che abbiamo un euro in due se non in tre, e
nonostante il mestiere che facciamo, i piazzisti, perché alla fine
di quello si tratta, non abbiamo nulla e per lo stato siamo nulla
tenenti. Nonostante ciò facciamo una vita da divi del cinema e
più o meno viviamo Lucca, questa realtà ristretta contenuta da
mura, come fosse una sorta di Hollywood nostrana, di paradiso
non ancora avuto o meglio guadagnato, tutto italiano. A Lucca a
dire il vero abbiamo alloggio, dove sfamarsi, trascorrere il tem-
po e un lavoro nell’emittente del dott. Della Farina; una piccola
realtà televisiva specchio del sistema e che il Cavaliere – a con-
ti fatti è un professore, un luminare della medicina- ha voluto
creare in un luogo neutro forse per non destare tanti sospetti a
seguito dei suoi traffici non tanto onesti; proprietario di cliniche
private d’avanguardia e in Italia e in Svizzera; gran lume della
psichiatria criminale, teorico della contenzione come mezzo di
contrasto alla malattia; di recente, non proprio da adesso, forse
da qualche tempo? Investitore di TV, coproduzioni cinematogra-
fiche e giornali.
Iuri Lombardi, nasce a Firenze , poeta, scrittore, saggista, drammaturgo. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: i romanzi Briganti e Saltimbanchi (Siris, 1997), Contando i nostri passi (Romano,2009), La sensualità dell’erba (Biondi, 2012); le raccolte di racconti Il grande bluff (LettereAnimate, 2013), La camicia di Sardanapalo (Talos, 2013), I racconti (Poeti Kanten, 2016). Per la saggistica: L’apostolo dell’eresia; per la saggistica: L’apostolo dell’eresia (Faligi, 2015). Per il teatro: La spogliazione, Soqquadro (Poeti Kanten, 2016). Vive a Firenze. Dopo essere stato editore, approda con altri compagni nella fondazione di Yawp, per cui dirige la sezione di critica letteraria. Collabora con siti e riviste letterarie, come Carmilla. L’ultima raccolta poetica che ha dato alle stampe è Il Sarto di San Valentino (Ensemble, 2018). Da poco ha deciso di sciogliere di nuovo il silenzio, con una serie di poesie uscita sul n. 93 della rivista Atelier.
ANTONIO BACCIOCCHI
GIL SCOTT-HERON
il Bob Dylan nero
VoloLibero, Milano, 2018
I ritratti fotografici di Gill Scott-Heron ci consegnano uno sguardo acuto, ironico e invitante, accompagnato da quella passione e sofferenza dove sono racchiuse radici e propaggini della black music. Lui giovane o lui invecchiato anzitempo, lui sul palco al piano o lui in intensi primi piani, sempre fedele a sé stesso come ai voli e alle cadute che l’hanno accompagnato. A corollario di queste immagini bastano davvero alcune sue parole un anno prima della morte, parole che valgono da manifesto di un intero percorso: La musica ha il potere di farmi sentire come niente altro. Mi dà una certa pace per un po’. Mi riporta a chi sono veramente. Il libro di Antonio Bacciocchi è un testo necessario, stesura di sequenze arte-vita e tributo all’inestimabile lascito di musica e parole. Scott-Heron nasce a Chicago e si trasferisce giovanissimo a New York, inizialmente nel Bronx e poi nel quartiere ispanico di Chelsea. Dopo l’uscita del suo primo romanzo The Vulture (cui seguiranno negli anni molti libri e raccolte di poesia) si iscrive all’Università della Pennsylvania e lì incontra Brian Jackson, per lungo tempo suo collaboratore musicale e sodale in numerose vicissitudini. Arriveranno in seguito i lavori con importanti produttori della scena jazz, tour e concerti, matrimoni e divorzi, prese di posizioni non sempre gradite, i vari progetti con l’Amnesia Band, il suo inferno sulla terra chiamato tossicodipendenza. Tutto questo per dare vita a un poeta appassionato e ad un musicista tanto rigoroso quanto esploratore. Graffiante e irridente per urlare i fatti storti nel mondo a proposito di prevaricazioni e discriminazioni. Gil Scott-Heron è stato costantemente sospeso fra lacrime e sorrisi, degna espressione del connubio storiacce-vitalità estrema, supportato da quell’ironia che gli faceva da scudo e da spada. Alle parole fondeva sonorità più disparate che vanno dal classico blues al funk, dal jazz al R&B, fino alle incursioni nell’acid jazz e nel soul. Ma anche precursore di rap e hip hop negli spoken word, poesia pura su ritmi scanditi nel solco dei Last Poets o dei losangelini Watts Prophets. Un esempio per tutti, la celeberrima The revolution will not be televised . Lui che non ha mai mancato di raccontare le sue rivoluzioni o se stesso, temi indiscutibilmente offerti per venire condivisi. La vita nel ghetto, l’essenza della cultura afroamericana, il cammino difficile dell’uomo ancora prima dell’artista, gli omaggi a Coltrane e Lady Day, il carcere come ostica dimora. Ci restano brani pieni di bellezza e fisicità, che un’accurata discografia compresa nel libro di Bacciocchi ripercorre in tutto il loro intrinseco valore. E poi la definizione contenuta nel titolo, “il Bob Dylan nero”, dalla quale Scott-Heron prese sempre le dovute distanze. Aveva ragione, e non solo per la differenza degli strumenti suonati o per le caratteristiche vocaliche, come teneva a specificare. Diremmo noi oggi che Dylan è stato uno straordinario menestrello beat, mentre Gil si è lasciato trascinare fino al limite della sua ricerca per attingere a parole che valgono un’intera poetica. Senza dubbio si può avvertire un’urgenza di scrittura e un’autenticità che non viene mai meno. Dai primi lavori ricchi di accensioni sonore degli anni ’70 all’ultimo I’m new here , così intenso e commuovente nel suol blues mesciato di elettronica, Scott-Heron ha lasciato un patrimonio artistico e ha influenzato più di una generazione di musicisti e di poeti. Grazie al libro di Antonio Bacciocchi abbiamo un motivo in più per accendere lo stereo e calarci in nuovi ascolti di Gilbert il poeta.
Elisabetta Beneforti
Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l'Italia, Ladolfi Editore.
«Se esiste in Fitzgerald una doppiezza è proprio verso Zelda Sayre: il lavoro continuo contro la pazzia, ma anche il dialogo con essa; la sublime coincidenza tra uno spirito di conservazione e uno di distruzione. Era impossibile per lui proseguire la vita senza la compiutezza dell’amore: o meglio, Fitzgerald lavora, e lavora sodo (anche fino all’infarto), ma si muove nella società da allora in poi come il fantasma di se stesso; lavora per pagare la cura ormai senza speranza di Zelda. E se tornerà a scrivere con Gli ultimi fuochi, è per cercare lei in un mondo altro: lontano dalla clinica e ancora più lontano dalla realtà».
F. Scott Fitzgerald e l’Italia ripercorre la storia della ricezione editoriale e critica che il nostro paese ebbe nei confronti dell'opera dello scrittore americano: dalle prime traduzioni di Tenera è la notte e Il Grande Gatsby, che vennero ignorate dal pubblico, fino alla riscoperta autoriale nel secondo dopoguerra e alle nuove edizioni italiane che ne seguirono, per arrivare alla conclusione che «dal dialogo con se stesso e con Zelda nasce cioè tutta l’opera di Fitzgerald».
Ma siamo davanti anche a un viaggio nella poetica americana: se infatti Elio Vittorini fu il primo a parlare espressamente di poesia come genere unico per inquadrare la letteratura statunitense nella grande antologia Americana, paradossalmente sarà al contrario il realismo di Hemingway a figurare come miglior esempio di questa visione. Sarà poi altra la critica italiana che, più avanti, parlerà della scrittura di Fitzgerald come «decisamente lirica» e del romanziere americano come «poeta».
F. Scott Fitzgerald e l'Italia allora non rielabora solo la sfortunata vicenda editoriale dello scrittore nel nostro paese, ma ci pone davanti una domanda importante: può un romanzo considerarsi poesia?
Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l'Italia, Ladolfi Editore, Collana Smeraldo, 2018.
Luca Pizzolitto
Dove non sono mai stato
Con questa recentissima raccolta il poeta torinese Luca Pizzolitto continua il suo canzoniere in fieri, nel solco già tracciato dalla silloge precedente Il silenzio necessario (Transeuropa 2017). Come sentimento profondo detta un canzoniere, le poesie qui accolte vengono modulate sui toni dell’amore e del suo malinconico svolgersi. Ogni testo è un frammento necessario per comporre un quadro d’insieme, in cui prevale il chiaro-scuro di ambienti e sentimenti. Sono gli “amori sfuggiti di mano”, sono giorni invernali che rammentano momenti solari, sono il costante ripercorrere episodi lungo “la vertigine del vuoto”. L’io narrante e il tu interlocutorio si fondono e si confondono, alternati a un ‘noi’ che richiede un conforto continuamente sfuggente. Ricorda la messa a fuoco di un obbiettivo questa vicinanza-lontananza con la persona amata, sua presenza tanto cantata quanto dolente. Luca Pizzolitto porta nel suo canzoniere una versificazione piana e distesa, in grado di non cadere mai nella retorica ne’ in un certo manierismo. Allora questa poesia lirica si nutre di immagini e parole del quotidiano, spesso nega per affermare, sempre lascia sospese anche le immagini più narrabili per non disturbare l’incanto che ne può nascere. Personalmente non credo che sia facile scrivere versi d’amore, anzi mi accorgo quanto sia immediato scivolare in banali espressioni. Basti dare un’occhiata al dilagante proliferare di raccolte poetiche sentimentali assemblate dai social, al confine fra litanie sanremesi e incarti di cioccolatini ma benedette dall’industria libraria. Luca Pizzolitto con Dove non sono mai stato ha il grande merito di affrancarsi da questo scenario e di offrirci una nuova silloge dal timbro poetico autentico. Come testimonianze del suo buon percorso intrapreso valgano anche le epigrafi contenute nel volume (partendo da Caproni per il titolo poi Candiani, Fiori, De Angelis, Czechhowski) a svelare influenze e suggestioni, riferimenti più che onorevoli.
Elisabetta Beneforti
Luca Pizzolitto, Dove non sono mai stato, Campanotto Editore, 2018
La nebbia si posa sull’alba
e appiccica il viso, rallenta
lo sguardo. Una donna
in pigiama passeggia col cane,
tace il cuore e quel che ne avanza,
i miei amori in salita,
naufragio nel nulla.
Nei cortili di case popolari
abbandonate, nei ritorni
sempre così insicuri,
nella voce dei miei passi
che ripetono il tuo nome.
Vegliare la notte e i suoi peccati
nella premura della luce.
Tendere la mano nel gesto vano
di porgere carità alla bellezza.
NELLA BREZZA
Gli scali aerei alle due del mattino
le stazioni vuote i muri scritti
i vagoni abbandonati sotto la neve.
Sono nato da poco e
dopo la notte e il vuoto
immergo il mio volto
nell’acqua fredda del fiume.
L’amo infilza il labbro
indifeso di chi è
destinato alla fine.
RIVEDERSI DOPO QUESTO TEMPO
Alle disattenzioni
ai letti distrutti
alle stanze vuote
agli amori sfuggiti di mano.
Guardo le tue piccole dita.
È per noi questo silenzio che
giace improvviso sul lavandino.
Noi che abitiamo
le vene della terra e
le voragini del pensiero.
TENERE IL TEMPO DEI SOGNI
Sfioro il tuo viso e ritraggo
la mano nel dilemma di un addio.
Completa la luce il buio
e nei paesaggi appena intravisti
mia madre rideva, rideva di gioia.
Perdonami se non ho più voce.
INTERMEZZO
Portami dove si colora il tramonto
dei colori che Sara custodisce
nel cuore. L’ultima volta
che ho spento il sole è stato
alcune lune fa.
Il mio nome era un altro,
il mio corpo chissà.
NOTA BIOGRAFICA
Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale. Da quasi quindici anni si interessa e si occupa di poesia. Nel 2008 si classifica 1° al Premio Arezzo Poesia. Nel 2009 è finalista al Premio Letterario Città di Chieri. Nel 2014 vince il 1° premio al XXXV Concorso Letterario Internazionale Città di Moncallieri. Suoi testi sono apparsi sulla rivista “Tratti” e su blog e siti letterari. Tutti i suoi libri precedenti sono stati pubblicati da Ladolfi Editore e Transeuropa.
CINZIA DEMI, Nel nome del mare, Messina, Carteggi Letterari, 2017, pp. 45, edizione numerata da 1 a 150. Copia 14.
Cominciamo con il titolo: Nel nome del mare, che subito ci porta nella dimensione religiosa, direi addirittura della preghiera. Al posto di Dio il mare e quindi in suo nome procedere per fare in modo che il ritorno alle origini non sia un atto di remissione, ma una scoperta, una rinascita, un abbraccio che trova consonanze immediate nel liquido che va e viene e ha una voce antica e sa restare sempre uguale a se stesso mutando come il seme e il quotidiano ansare.
Grande, superba metafora che Cinzia Demi porge con il suo solito garbo, con la sua misura ormai acclarata di poeta che sa andare a fondo senza scompigliare, senza distruggere, ma ricomponendo e ricordando, servendosi perfino degli archetipi. E se il lettore non avesse voluto capirlo, lei lo dichiara e dichiara anche la scaturigine dell’opera con riferimento a Eugenio Montale nonostante che ella sia “donna che è nata sul mare”.
L’attività di Cinzia Demi è multiforme e direi anche frenetica. La sua natura esuberante le permette di muoversi senza sosta nelle varie direzioni e le permette di aderire con naturalezza alle sue scelte tematiche. In questo libro ne risaltano con evidenza due, anzi sono dichiarate, il mare e Ipazia, tutti e due argomenti trattati all’infinito, ma proprio per questo aperti al dialogo, a nuove interpretazioni, ad adesioni che esulano dalle solite e vanno a stagliarsi in un percorso inedito nel quale rifulge la parola di una poetessa che sa offrirsi e negarsi, obbediente al dettato del mare, ma ormai lontana, nella “viventia” di un quotidiano che si nutre di altre immagini.
E Ipazia? Il fascino del personaggio è straordinario ed è sempre stato una fonte d’ispirazione per i poeti, valga per tutti Mario Luzi col suo poemetto che ha avuto tanto successo. Ma l’Ipazia di Cinzia ha qualcosa di imprendibile, una modernità che è ansia e protesta, mai assuefazione e rinserramento nell’usuale e nel prestabilito.
La parola di Cinzia, sia sul mare e sia su Ipazia, è miracolosamente intatta e direi pudica. E’ come se fosse Cinzia stessa a creare quel mare che pure l’ha vista nascere, crescere e ardere d’inconsapevolezza, per dirla con Giuseppe Ungaretti, ed è come se Cinzia stessa avesse partorito Ipazia.
Facciamo degli esempi:
“sono viva in questa piazza che
non è più la mia e nell’ondeggio
delle barche in ormeggio al Porticciolo
di Marina trovano culla tutte le volte
dei mancati approdi dei luoghi dove
non sono stata dove la prua si è arenata”
In quale tempo siamo? In quale spazio? In quale sogno o avvertimento magico che erode la nostalgia e la rinfuoca, la crea e la nega?
Ha ragione Fabio Canessa, Cinzia sta bene attenta “a non cadere nella trappola del rimpianto della giovinezza finita” e può dunque aprirsi senza remore allo spettacolo che la investe di una ventata magica che però recupera “certi sapori, certi odori, certe immagini”.
Per Ipazia ecco l’esempio:
“nel sogno che ci fa
incontrare in cui sento
la colpa di non averti
protetta sorretta
nel sogno in cui vedo
anch’io come auspicio
di volo sciogliere il nodo
del tuo destino
ti abbraccio santa e ferita
rammendo la macchia
e la piaga la tua bellezza
ellena ti rendo in preghiera”
Da notare almeno due, come chiamarli? accorgimenti della poetessa che sia nel primo che nel secondo esempio lascia degli spazi ogni tanto tra una parola e l’altra. No, non sono dei refusi, ma le sue pause, il voler permettere al lettore di soffermarsi e meditare, di accertare una verità che sta vivendo smozzicata. Cinzia non vuole essere irriverente ed è per questo che rende in preghiera a Ipazia il suo stato di martire nel riscatto della bellezza, ed è per questo che assegna al mare la funzione demiurgica.
Sarebbe molto interessante comunque analizzare ogni verso, ogni sillaba di Cinzia, perché io sento scorrere dolcemente ma non impunemente tanto del suo sangue in questo libro che ha vibrazioni cosmiche. La poesia ha bisogno di passione, di calore, di coinvolgimento, altrimenti resta semplice e magari elegante letteratura senza trasmettere brividi ed emozioni, senza squarciare una sola briciola di conoscenza.
DANTE MAFFIA
Breve nota biografica
Cinzia Demi è nata a Piombino (LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica.
Dirige le Collane di Poesia Sibilla per la Casa Editrice Pendragon (Bologna), Collana di Poesia Contemporanea per Il Foglio (Piombino), e insieme a Giancarlo Pontiggia l’appena nata Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per il sito culturale francese Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Per l’Università di Bologna collabora con il Centro di Poesia Contemporanea, la Festa della Storia.
È inserita nell’Atlante della poesia contemporanea online “Ossigeno nascente” curata dall’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna e da Giancarlo Pontiggia, Alberto Bertoni, Marco Marangoni e Gian Mario Anselmi.
Ha pubblicato: “Incontriamoci all’Inferno” Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); “Il tratto che ci unisce” (Prova d’Autore, 2009); “Al di là dello specchio fatato. Fiabe in poesia” (Albatros, 2010); “Caterina Sforza. Una forza della natura fra mito e poesia” (FARAEditore, 2010); “Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); “Ersilia Bronzini Majno. Immaginario biografico di un’italiana tra ruolo pubblico e privato” (Pendragon, 2013); “Ero Maddalena” (Puntoacapo, 2013); l’antologia da lei curata insieme a Patrizia Garofalo “Tra Livorno e Genova: il poeta delle due città” . Omaggio a Giorgio Caproni (Il Foglio, 2013); l’antologia di racconti da lei curata “Amori dAmare” (Minerva, 2014); “Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri” (Puntoacapo 2015). Suoi testi di poesia, narrativa e saggistica sono presenti in diverse antologie nazionali.
Realizza con i suoi lavori eventi di drammaturgia con letture interpretative, musica e arti varie. Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini.
E’ organizzatrice e curatrice di diversi eventi culturali.
E’ presidente dell’Associazione Culturale “Estroversi”.
DAVIDE CORTESE, DARKANA, LIETO COLLE.
Davide Cortese e la poesia di luce dettata dall’oscurità.
In “Lettere da Eldorado”, il penultimo libro di poesie di Davide Cortese , troviamo la chiave per comprendere “DARKANA”, il nuovo, pregevole libro del poeta di Lipari, in questi versi: “La poesia di luce / è dettata dall’oscurità”. Tutto il libro è un’architettura gotica che aspira alla luce e svetta verso l’alto. Il libro si apre con questi versi: “Io sono il solo gargoyle che puoi vedere / di tutta la mia invisibile cattedrale”. E apprenderemo presto che quella di Cortese è una “cattedrale del diavolo”. Il solo gargoyle di una cattedrale: “la punta di un iceberg sepolto dall’abisso”. L’abisso e l’oscurità sono maschere della poetica di Cortese, che è invece irrimediabilmente solare, sfavillante . “Io sono la maschera del sole”, scrive il poeta delle Eolie. Parafrasando il celebre aforisma di Oscar Wilde: “Datemi una maschera e vi dirò la verità”, la poesia di Davide Cortese ci confessa: “ Datemi una maschera di buio e vi dirò la luce”. “Il buio mi dona”, leggiamo in questa silloge colta e raffinata, e se siamo subito indotti a immaginare il poeta indossare la tenebra e dire che gli sta bene, giungiamo poi, verosimilmente, a comprendere che questo breve enunciato significa: il buio dona me, il buio mi esprime, mi porta alla luce. Il titolo di questa singolare silloge poetica, “DARKANA”, è dunque una maschera: questo libro è in realtà portatore di luce, proprio come il diavolo che spesso affiora tra le pagine di Cortese: siamo davanti a un libro lucifero, (Lux fero)portatore di luce, appunto. Nei versi di Davide Cortese il diavolo simboleggia l’umanità capace del male, capace di infliggere ed infliggersi dolore, è l’umanità impotente di fronte al proprio potenziale di sofferenza. A questo povero diavolo chiamato uomo, Cortese guarda con clemenza e grande partecipazione emotiva, vi si riconosce quanto vi si riconosce il lettore. “Sono potente quando sbaglio”, scrive Davide Cortese, compiacendosi e commiserandosi a un tempo. Tutta la lettura di “DARKANA” si traduce nell’ “affondare il viso / nel petto nudo del dolore. / E sentirsene abbracciati”. E’ una lettura a volte straniante, dalla quale riemergiamo come dall’abbraccio di un altro tempo e -a libro chiuso - ciò su cui andremo a posare lo sguardo, avrà ai nostri occhi una nuova misteriosa consistenza, e in questo vi è innegabilmente il potere della poesia autentica. Giulio Assanti
Davide Cortese, Sette Poesie tratte da “Darkana” ( LietoColle, Como, 2017 )
Prefazione di Manuel Cohen
*
Navighi nel mio buio
tacendo la canzone antica.
Remi nel mio sogno di te.
Fendi il mio mare segreto
nell’alba tragica dei miei occhi.
Tracci il periplo del mio volto
e indugi sulla mia bocca.
Ti sento tra le labbra
bruciare come nome proibito,
come una parola celata
che tutto avvelena del suo mistero.
*
A volte la pettino
questa tristezza fiera.
Porto al guinzaglio
un silenzio feroce.
Sorry mama.
Ogni mio sogno ha la criniera.
“Hic sunt leones”
mi tatuo sul cuore.
Il fuoco trema, io no.
Sorry mama.
Parlo la lingua del buio.
Lingua viva è l’oscurità.
Io sono il demone, temo.
Sono il fuoco, ma non tremo.
Sorry mama.
Sono potente quando sbaglio.
Io sono un bambino cattivo.
The devil.
Le diable.
Il vivo.
*
Le mie mani, secoli or sono
furono tatuate sul petto
di un giovane marinaio di Lisbona.
(Stringevano l’elsa di una spada.)
E’ già accaduto
nella canzone di un vecchio di Baghdad
il bacio che io e te ci siamo appena dati
dicendoci: “tu sei il mio demone”,
“il mio demone sei tu”.
Qualcuno mi ha già conosciuto
a un ballo in maschera a Dresda
nel 1723.
*
Nella lucente burrasca
apro l’ombrello nero.
Sfodero un sorriso macabro
e inizia il mio grande numero.
Si muta in giostra
il mio ombrello cangiante.
Ruota nella burrasca di luce.
Cavalco i demoni della giostra nera
nell’epica marcia dei fulmini.
La pioggia mi sferza il volto,
bagna il mio turgido sorriso.
Ruota l’ombrello,
come vortice oscuro.
Mi trascina con sé in paradiso.
Perforando nubi d’oro
squarcia un candido sipario.
Imbratto le nuvole
con piogge d’inchiostri amari.
Incendio le ali
di arcangeli nudi.
Vedo il loro volo
dare fuoco al cielo.
Una mia sola lacrima
avvelena il fiume sacro dell’Eden.
Prima che smetta di piovere
mi inchinerò alla mia ira,
ne sentirò il poderoso applauso,
mentre sugli alberi i bei frutti
marciranno lesti ad uno ad uno.
Cadrà un’ultima goccia di pioggia.
Chiuderò l’ombrello
e calerà il sipario.
Perché non giunga l’arcobaleno
ruberò ogni colore.
Al mondo non rimarrà
che il nero del mio ombrello.
Quello che adesso
mi farà da bastone.
*
Al buio non le vedo, le mie dita.
Non c’è nulla che io veda più.
E il buio, al buio, non mi vede.
C’è solo nero qui.
Nient’altro che del nero cui badare.
Ma lontano scorgo una briciola di luce.
Piano affiora nel buio
un’arcana figura di cavaliere.
Incede lento come un dio del silenzio,
cavalcando un bianco unicorno.
Si fa vicino.
Ne vedo il volto, infine.
Sono io.
“Hidalgo”, dico.
E scacciando una lacrima
sorrido.
*
Non è solo una rosa di maggio
il fiore che ti dono adesso.
Nasconde tra i petali di velluto
paesi incantati che ho abitato,
grandi un granello di sole.
Parla i profumi del mio arcano popolo
che ti dice “ti amo” da troppo lontano
perché tu lo possa sentire.
Parla il profumo di un silenzio
che è solo il lungo viaggio di una voce.
Nasconde tra petali di tenerezza
l’innocenza di paesi sospesi sul pericolo:
sullo stelo della mia rosa
guizzano mille pinne di squalo.
Davide Cortese, Poesie tratte da “Darkana” ( LietoColle, Como, 2017 )
Prefazione di Manuel Cohen
Davide Cortese
è nato nell' isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all'Università degli Studi di Messina con una tesi sulle "Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane". Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata "ES", alla quale sono seguite le sillogi: "Babylon Guest House", "Storie del bimbo ciliegia", “ANUDA”, “OSSARIO”, “MADREPERLA”, e “Lettere da Eldorado”.
I suoi versi sono inclusi in numerose antologie e riviste cartacee e on-line, tra cui “Poeti e Poesia” e “I fiori del male”. Le poesie di Davide Cortese nel 2004 sono state protagoniste del "Poetry Arcade" di Post Alley, a Seattle. Il poeta eoliano, che nel 2015 ha ricevuto in Campidoglio il Premio Internazionale “Don Luigi Di Liegro” per la Poesia, è anche autore di due raccolte di racconti: "Ikebana degli attimi" e “NUOVA OZ”, del romanzo “Tattoo Motel” e di un cortometraggio: “Mahara”, che è stato premiato dal Maestro Ettore Scola alla prima edizione di EOLIE IN VIDEO e all’EscaMontage Film Festival.
Immaginate cosa hanno in testa
le matrici dei maestri, le decodifiche del mondo,
circuiti smisurati di sinapsi e corde appese al collo
immaginate il silenzio che si appiana appena,
che si divora le budella e strizza gli ossi
dopo piogge giovanili, che chiodi affondano,
che troppe cene hanno imbastito e logorato insieme
immaginate pure, immaginate ora cosa tiene
a galla noi, in questo mare nullo di vuoti segni
e conti sempre in pari, e giudizi invani,
immaginate un vecchio assente mangia anime
che succhia lassi e età senza riassunti
né cominciamenti, belli o brutti, senza firme
né dimore né cervelli né coaguli di tempo;
i codici si perdono si dileguano a metà
sconfinano nel nulla della stupidità di tale
e tale e quell’altro pure, e le matrici crescono,
ma crescono da sole, crescono con altri
crescono a dismisura oltralpe oltreoceano
oltreconfine, crescono come il numero dei libri
dei morti di fame dei morti impiccati
scappano come bisce, le hai perse senza pena
finché non te ne accorgi finché non sopravvivi.
Pasqua
Sei morto più di tutti
sangue perso più di tutti
sorte in terra più di tutti
inghiotti il tempo e le paure tutte
in gola senza tempo
senz’aria, o troppa aria
intanto parlano di parrucchieri
evitando acqua e arruffamenti
i cristiani da macello.
Preghiamo insieme e diciamo:
l’ateismo è un’innocenza troppo grave.
Si diventa orribili
in attesa di una guerra
davanti a uno schermo.
Una notizia orribile la mattina e tutta la mattina
il pomeriggio e la sera in attesa davanti all’orrore
– di sicuro altro orrore arriva –
la stasi prima della guerra cui non siamo avvezzi
l’esistere di quel tempo dilatato
ammazzato con morti altrui
davanti a uno schermo dell’orrore
con l’orrore che aspetta sulle punte delle dita
dei giornalisti ormai trepidi
nelle mani di politici perdenti in partenza
di guerriglieri che giocano a lanciarsi sassi con le armi accanto
seduti nei corridoi con vetri – ho detto vetri – rotti
da qualche parte laggiù
oltre lo schermo
oltre pure la telecamera e le televisioni
e aggrapparsi agli oggetti sul tavolo
– un anello, un pezzo di giornale, un orologio regalo di una zia ormai triste –
mentre guardi la guerra in tv
e la colpa di quello sguardo sviato
di quella felicità nel guardare l’anello, il pezzo di carta di giornale
(dentro, cose inutilmente adorabili)
l’orologio della zia vecchia
sentirsi vermi oltreborghesi
la vergogna di non essere sporchi di sangue e polvere
il nostro pezzo di Vangelo.
In Ancora storia
il verso di Di Gennaro sembra saperlo, nella sua civile tensione allegorica, nel suo darsi come franta partitura di un presente in cui dilagano conflitti di ogni genere, in cui il circolo denaro-potere-denaro è sempre più follemente autoreferenziale, che erano sbagliati quel pensiero, quella filosofia che qualche tempo fa annunciavano leggerezza, fine delle contraddizioni, epoca dell’uomo finalmente umano. Per questa mediata, sofferta rifrazione (non rispecchiamento) della realtà la poeta ha dovuto sacrificare, così mi sembra, il bisogno di più associazioni di pensieri, di più immagini. Il suo potenziale “stream of conscioussness” si è fatto carsico, sperdendo l’occhio del lettore in frequenti silenzi di bianco tipografico. Ma i segmenti di scrittura che emergono sanno comunque di fenomeno di piena, di vortici, strani risucchi. Acque veloci che portano con sé, tra l’altro, i materiali di una fitta intertestualità, in cui ogni citazione vuole farsi benjaminiana vendetta dell’oblio.
dalla postfazione di Mariano Bàino.
Grazia Procino, Scatola di nuvole, edizioni Scatole Parlanti, 2017
dalla Prefazione di Vincenza Fava
Soffi di nuvole è l’esordio in versi di Grazia Procino, una sorprendente commistione di ideale e reale, una prova poetica densa di riferimenti colti e letterari, un viaggio acronico nell’interiorità del sentire umano, scevro di ogni sentimentalismo o ripiegamento interiore. La narrazione in versi è finalizzata alla ricerca di una verità che appartiene a tutti e che ci pone di fronte a ciò che appare, alle maschere quotidiane, al rischio contemporaneo della non-vita, reale e incombente nel momento in cui la parola perde il suo più intimo
significato.
[...]
intorno alle parole
costruisco istanti di verità, intorno alla verità
costruisco squarci sghembi di vita.
Ecco quindi lo svelamento di un’anima “ellenica”, nell’efficace e vigoroso tentativo poetico di ricreare un Eden culturale in cui la democrazia, il teatro e la poesia siano le colonne portanti di una civiltà modello come quella della Grecia antica, madre di miti, radici e simboli destinati all’eternità. Non a caso è la poesia Anche oggi, la Grecia che apre l’intera silloge, un toccante invito a ritrovare la bellezza e ad affidarsi a quel “mare color del vino” dell’Odissea omerica, annullando i numerosi secoli che si frappongono tra noi e l’indimenticabile aedo. I versi di Grazia Procino sono una finestra aperta sulla sua esistenza, inciampano in panorami mozzafiato, indugiano sul mare (“Solo il mare mi viene incontro / senza maschera- re la sua natura, / nella sua glabra essenzialità, magni co, / da togliere il respiro”), s’impreziosiscono di ricordi in uno stile delicato e al tempo stesso incisivo; la poesia Apulia, per esempio, può essere considerata come una grande dichiarazione d’amore alla sua terra ricca di arte, di storia e, al tempo stesso, di tormenti:
Astuzie ataviche costruiscono trulli, devozioni popolari elevano cattedrali, domini
regali insediano castelli.
È terra di ondivaghi approdi.
È la mia terra rossa di afa e di tormenti (...).
Anche oggi, la Grecia
È nel vivere dentro le passioni
che i Greci emettevano luce.
È nel popolare le città,
abitarle nella civiltà democratica
che i Greci sono stati primi.
È il teatro
il loro monumento
più nobile,
il simbolo della loro
qualità di vita.
È la rinuncia all’osceno spettacolo
della violenza gratuita
il loro dono più salutare.
Noi,
i Greci dell’Occidente
guardiamo verso la terra greca,
ancora curiosi,
volgiamo lo sguardo pieno di desiderio
agli scenari sempre in allestimento,
ai colori d’oro e blu cobalto,
carichi di orizzonti sagaci,
al mare color del vino
capace di ubriacarti
di conoscenza.
Per prepararsi alla bellezza
occorre passare attraverso la Grecia.
Per procurarci linfa per il domani
occorre riandare alle spiagge assolate
di una Grecia inondata
dal sole brillante del mito.
Anche oggi.
Il mare greco
Incontro ad ogni istante
uomini e donne forti
di maschere sul volto,
come attori delle tragedie greche.
Solo il mare mi viene incontro
senza mascherare la sua natura,
nella sua glabra essenzialità, magnifico,
da togliere il respiro.
Davanti al mare si polverizzano,
gettano le armi
le ipocrisie indigeste
senza intelligenza dell’oggi.
Noi che non sappiamo
il suono delle parole del greco antico
ci arrampichiamo su scalate astruse
negli spiriti aspri.
Il mare arriva a sferzare, corrusco,
terre che riecheggiano ancora
gli accenti dei dialetti greci
che furono.
La militanza tenace dell’eternità.
Grazia Procino
è nata a Gioia del Colle (BA). Laureata in Lettere classiche, insegna al Liceo Classico della sua cittadina, che ha frequentato da studentessa. Appassionata di lettura da sempre, recensisce libri di narrativa italiana e cura una rubrica di letteratura classica dal titolo Allois ophtalmois sul blog letterario “Diario di pensieri persi”. Nel febbraio del 2016 sono stati pubblicati tre suoi haiku nel volume Haiku tra meridiani e paralleli III stagione edito da Fusibilialibri. Soffi di nuvole è la sua prima raccolta di poesie.
bacio di nuvola sui tuoi capelli
e crani di petalo in fondo ai tuoi occhi
nell’ora in cui appare
tra le mura del cuore
il tuo antico profilo che sa di Provenza...
sento il tuo volto venire adagio
lungo le piume del tempo
portare il colore
del pavone nell’alba
ed anche
le vere distanze
-due anime arcaiche
ancorasincontrano
nelle tiepide acque della laguna-
è bello:
c’è un uomo che abbraccia
la pelle degli alberi
e un’ onda cocai
che permea il mio cielo...
categorema
acefala sfinge dai seni di sasso
lancia lo sguardo di marmo sul mare
(e oltre di questo)...
dimmi il passaggio di arieti celesti
sul letto carnaio del sacro olocausto...
rosa fragmenta di pelle di pizia
lasciami bere il futuro dell’uomo
e le voci infinite
di altre esistenze...
sfiora le pieghe di forme scolpite
su corpi lucenti di apolli di marmo...
dimmi gli enigmi apparsi alla mente
guardando nel volto lo specchio che cambia...
ora che un muto eczema mi assale:
nulla mai passa, nulla rimane______
da
Nota dell’autore
Cavo, còncavo, incavo, è ciò che ha la superficie curva e rientrante. Cavo è il grembo che ci ha custodito dal concepimento alla nascita. Cava la culla che lo ha sostituito nei primi mesi di vita.
Cava è la mano che stringo in segno di relazione, cava la mano che accarezza, che accoglie l’acqua che disseta e ci sostiene, cavo il pozzo da cui attingere l’acqua, il secchio che la raccoglie, il mestolo la coppa il bicchiere che imitano la mano, cavo il vaso che contiene gli alimenti.
Cavo è il riparo che ospita l’uomo, dalla grotta- caverna alla casa certificata, cavo il riparo degli dei, l’antro della Sibilla, il luogo delle profezie, gli ipogei, le necropoli (unite negli etruschi dalle “vie cave” o”cavoni”).
Cavo è l’organismo che ospita i nostri organi vitali, cava la via che conduce i cibi di cui ci nutriamo ad essere assorbiti ed espulsi, cava la via orale della loro assunzione e la via anale della loro espulsione, cava la via dalla quale percepiamo i suoni del mondo, i suoi odori, i suoi gusti, cava la via dell’amore e del piacere.
Cavità nasali, orbitarie, cavità cranica, addominale, toracica, ascellare, pelvica, peritoneale... Cavità anatomiche, cavità geologiche. Cava la buca che ci accoglie nella terra, la bara che ci contiene, l’urna cineraria, il sarcofago, le piramidi, la tomba a tumulo, la fossa comune. Eppoi cantine, nicchie, pozzi, cunicoli, cisterne...
Cava la terra che accoglie il seme e contiene le radici della pianta, cava la buca dove si nasconde il tesoro, l’oggetto prezioso.
Cavo il tronco d’albero che il picchio ha svuotato lasciando una corteccia nubile,
cavo il pallone dello sport più amato che inchioda miliardi di uomini davanti al televisore, cavo l’etcetera che contiene un elenco di nomi di forme cave possibili (...).
Massimo Parolini
è nato a Castelfranco Veneto (Tv) il 7aprile 1967.
Laureato in Filosofia presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, è stato addetto stampa del Centro Universitario Teatrale (C.U.T.) di Venezia (1993-1995). Per il C.U.T. (fondato su iniziativa di Giorgio Gaber) ha scritto e rappresentato le commedie “Il medico della peste” e “Svevo e Joyce”. In questo periodo ha concorso alla realizzazione di due convegni nazionali su Carlo Emilio Gadda (1994) e Alberto Savinio (1995).
Presso la Casa Editrice "Editoria Universitaria" ha pubblicato un libro di poesie sulla guerra nella ex-Jugoslavia (Non più martire in assenza d'ali) che ha vinto un Premio Speciale al Premio Internazionale di Poesia "San Marco-Città di Venezia".
Come giornalista ha collaborato dal 1997 alle pagine culturali dei quotidiani “Alto Adige”, “Adige”, “Corriere del Trentino” e “L’Adigetto”.
Dal 1997 è insegnante di italiano.
Rugìle
Storie di amore, storie di sesso senza tabù e di passione, storie raccontate alla fine di una vita con la lucidità di chi non ha più nulla da perdere.
Storie di una malattia, della guarigione e di ciò che rimane, dei segni sul corpo e nello spirito.
Storie di vita fra Firenze, Detroit e Vilnius. Storie di donne italiane, giapponesi, americane e lituane.
Ma soprattutto domande. Domande per capire il senso di esistere che non è mai quello che appare in superficie perché ve n’è uno più profondo che non si vede ma prepara e organizza la realtà di questi personaggi ai limiti del normale, che vivono di sole passioni e istinti e di basso ventre.
L’istinto è il vero protagonista di questo romanzo. L’istinto che di primo acchito non è spiegabile, non si riduce a nulla di razionale, tuttavia ha una sua spiegazione che va oltre il mondo in cui viviamo, che fa parte di più universi e si origina dall’infinitamente piccolo.
E’ un libro esistenzialista che impone domande e messaggi da comunicare come erano una volta i romanzi e gli scritti degli esistenzialisti quali Camus, Sarte, Kierkegaard, Jaspers, o i film dei maestri del cinema come Bergman, Godard, Antonioni…
E’ un libro controcorrente che mette in primo piano i contenuti e che spiega l’esistenzialismo e la tragicità del vivere umano non più con l’assurdo ma con la fisica quantistica.
Fabrizio Ulivieri, Rugìle, L' Erudita, 2016.
Un brano tratto dal libro
Rientrò in casa quella notte, in cui tutto era accaduto e aveva perso la sua identità per acquistarne una più profonda.
Il giorno era stato caldo, poi mentre camminavamo per la Katedros aikštė [1] il tempo era d’improvviso cambiato.
Un freddo autunnale era arrivato rabbioso dal nord come se qualcosa di terribile stesse per accadere.
Il sole era tramontato veloce e il cielo si era fatto rosso.
Raffiche di vento, alberi irrequieti. Temperatura in diminuzione. La piazza aveva acquistato un aspetto solenne come davanti ad un’imminente tragedia.
Poi era cominciato a piovere ma in modo calmo e uniforme come da noi in novembre e non impetuoso come mi sarei aspettato.
Il vento si era calmato. E gli alberi avevano ripreso la loro staticità.
Ci eravamo rifugiati al centro commerciale Gedemino 9, che avevamo raggiunto correndo.
Chiamammo un taxi, ma sembrava che tutti quel giorno volessero un taxi e dovemmo aspettare un buon quarto d’ora prima che arrivasse.
Ci facemmo portare a casa sotto quella pioggia senza soluzione di continuità.
- Stanotte voglio fare la puttana – mi disse non appena fummo rientrati in casa. Fu così che cominciò quella serata dettata da un impulso il cui fondamento ho cercato di spiegare sopra.
Quella frase suonava per me irresistibile perché aveva la forza dell’entanglement, una forza connettiva che agisce da profonda distanza. Io avrei voluto dolcezza quella sera ma quando diveniva così provocativa tutto in me si metteva in moto. Il sangue ribolliva, la pelle traspirava meglio, i muscoli entravano in tensione, le ossa si facevano pesanti, il pene aveva un’erezione come pietra.
Non riuscivo più a dirle di no.
Era troppo forte quella forza.
E quella era la mia ultima notte a Vilnius. L’indomani sarei ripartito.
Rugíle voleva collassare a modo suo. Voleva farmi sentire quella forza che in lei era incontenibile. Voleva trasmettermela.
Fabrizio Ulivieri
Biografia
Scrittore fiorentino per elezione, Fabrizio predilige un tipo di scrittura riflessiva, provocante, urtante talora, ma ritmica, scorrevole e che prende il
lettore e lo obbliga a seguire il suo stile composito. Si ostina a sorprendere con i contenuti anziché con le trame vuote.
Ha pubblicato "L'eterno ritorno" (Akkuaria), "Storia di Pelo il ragazzo che vinse la Milano- Sanremo" in Dizionario del ciclismo italiano (Bradipolibri), "Albert Richter un'aquila fra le
svastiche - Il ciclismo tedesco tra nazismo ed esoterismo (1919 – 1939)" (Bradipolibri), "Il culo e la riduzione fenomenologica" (Montag Edizioni), "Il Ritorno che non volevo"
(Amazon), "Il sorriso della meretrice" (David e Matthaus).
Ha pubblicato alcuni articoli di linguistica e grammatica sul prestigioso Studi di grammatica Italiana edito dall’Accademia della Crusca e sulla rivista tedesca Zeitschrift für
italienische Sprache und Literatur. E’stato inoltre apprezzato collaboratore de ilciclismo.it, per cui ha scritto racconti, cronache, storie, pezzi satirici.
Durante gli anni 2011-2013 anche seguìto critico cinematografico per ilpolitico.it
Partita (Penelope)
di Simone di Biasio, monologo in versi (Fusibilia, 2015, con dipinti di Stefania Romagna e traduzione in greco di Evangelia Polymou)
Dalla nota dell’autore nel libro:
Ripartiamo da Partita; ma sì, in fondo non è mica solo un match calcistico, è anche il participio passato di “partire”. Però è al femminile, la partita è una donna. Penelope. Penelope? Che ci facciamo con la pappetta pronta della donna/nonna (sarà pure invecchiata in vent’anni…) che fa la tela a forma di calza e addirittura fa e disfa, il giorno e la notte. Pazza. E partita. Penelope “partita”. Penelope è mai partita? Nel mio caso sì. E non vuole nemmeno tornare, o almeno così scrive a Ulisse. (...) Penelope vuole soltanto partire, mica abbandonarlo. Come la differenza tra dimenticare e scordare, dove quest’ultimo deriva dal latino “cuore”: “lontano dagli occhi, lontano dal cuore…”. Pure Ulisse voleva soltanto conoscere, mica abbandonarla. Tant’è vero che torna. Certo, ci mette un pochino di più del previsto, ma torna. Penelope gli prepara una cenetta? No, Penelope prepara una scenetta. Lo accoglie, come tradizione c’insegna, le si sciolgono le ginocchia. Alt: emozionatissima? Certo, ma mi suggeriscono che in greco quel verbo significa anche “uccidere il guerriero in battaglia”.
4 movimenti estratti dal libro.
Voce (Penelope)
Lascio la terra dell’ulivo,/ la grande casa che accolse le mie pene/ lo spazio che mi fu uomo, compagno e destino:/ ho combattuto anch’io la mia guerra/ e senza inganni ho trionfato sul campo/ che fa più schiavi della morte/ ed è più nero delle notti in cui mi lasciasti sola – sola./ Mi riprendo il mare e il tempo,/ la vastità m’attende oltre la gabbia.
*
a quale fine ti condannano?
quale spettacolo indegno di nota
per cui inventare ancora una tessitura?
almeno in questo intervallo minimo
sàlvati da tanta ignominia
sugli spalti del grande stadio del mondo
dove gli ultimi avanzi dei Proci
stanno formando una squadra imbattibile
e tu, tu... a fare e disfare la rete
nella infinita partita del tempo
nella infinita partita del tuo eroe...
*
il viaggio indicasti a me lanciando ogni giorno
un grido un filo la voce come tela
io tuo burattino aprivo golfi come le tue cosce
ammaravo nelle insenature del tuo petto
col ventre a favore approdavo dentro le case
ho sfondato porte che credevo tue
entravo sempre in parti annunciate da acque rotte
non sapevo quali figli stessi mettendo al mondo
*
al ritorno ti mostrai i talismani potenti
la pozione che mi fece porzione d’uomo
e i miei compagni tutti perduti
tu ascoltasti in silenzio inginocchiata
questa foltissima storia dell’assenza
ad una ad una le donne che mi porsero un giaciglio
i re e le terre che mi resero il favore del viaggio
e io che non avevo più inganni da dire
restavo attonito, ospite assente:
ogni calice che cingevo era la vita tua
l’ampiezza del nettare era la tua vita
tutta cinta di lacci e di spilli insidiosi
la strinsi e si sciolsero le ginocchia
sciolsi la vita e mi si strinsero le ginocchia
così non ho più gambe per andare
sono albero solo io, adesso, storto
eppure ho scelto ancora la tua terra
Penelope è partita il giorno dopo aver rincontrato quell'Ulisse che attendeva ad Itaca. E' lei a lasciarlo solo e io ho voluto dare voce ad un eroe che non è più omerico, ma è semplicemente debole e disperato - forse più umano.
Simone di Biasio
AURORA COPPOLA
ALLA PANCHINA –UNA STORIA D’AMICIZIA
Aletti editore, 2016
Tempi moderni, tempi moderni. Quelli che sembrano non risparmiare nessun promettente personaggio, età e ceto sociale azzerati in un faticoso destino condiviso. Aurora Coppola racconta i tempi moderni nelle loro emarginazioni e riscatti semplicemente umani nel romanzo Alla panchina, cadute e riprese che cesellano il quotidiano. Vale per Andrea, adolescente in balia delle sue ansie e delle incapacità di chi lo circonda nel nome di scuola e famiglia. Vale per Vincenzo, barbone per scelta dopo il fallimento di una brillante carriera di avvocato. Turbamenti e ricordi dei due si incontrano per caso sulla panchina di giardini metropolitani. Sarà questo il palcoscenico d’elezione per le conversazioni fra il ragazzo e l’uomo, sarà questa la stazione di scambio delle vicende che condividono. La saggezza offuscata e tossica di Vincenzo incontra le inquietudini declinate al suicidio di Andrea, e proprio su questi fili si tesse la loro amicizia senza filtri ne’ etichette. Il loro continuo cercarsi e venirsi in aiuto corrisponde alla ricerca di una identità da mettere a fuoco, tanto più difficile per le vicende da cui entrambi provengono. Sono due outsider di differente estrazione, ma accomunati dal segno di un fallimento che altro non è se non il primo passo per prendere coraggio e proseguire a rotta di collo. Fra incidenti e atti folli si snoda un dialogo popolato di annotazioni, rimandi, sogni , apparizioni. Aurora Coppola ha scritto un romanzo di formazione e di approdo al tempo stesso, lasciandoci indelebile il senso compiuto di un incontro umano anzi umanissimo. Così esemplare in questi tempi moderni.
Elisabetta Beneforti
FERNANDO LENA
LA QUIETE DEI RESPIRI
FONDATI
siete il nulla
sotto il sole apatico
di questa trincea
Lungo i movimenti di questo poemetto,in parte edito in parte ancora inedito, Fernando Lena ci offre il documento di un’esperienza umana prima ancora che letteraria. I mesi da lui passati nel manicomio criminale di Aversa – in un padiglione concesso per la riabilitazione dalle tossicodipendenze – vengono ripercorsi più che raccontati con le istantanee di volti, di nomi, di oggetti. La parola poetica si aggira fra celle e corridoi, attraverso circostanze sia personali che impersonali. Perché in questi luoghi il tempo si è fermato, le ore equivalgono ad anni così come i minuti si allargano in vite intere. Ne La quiete dei respiri fondati non c’è bisogno di alludere o di rincorrere simbologie. Ogni metafora della statica poesia “di scuola” è subito allontanata per far posto a un’elegiaca consapevolezza di sbandamenti e di allucinazioni, che non mendica compassione ma si consegna all’affrancamento, al rispetto. Si segue allora l’urgenza del dettato, le parole che ci dicono di un’umanità appiattita e sfumata tuttavia ancora umana nei suoi sentimenti o in quello che ne resta. Quella di Lena è poesia lirica perché manifestazione dell’io narrante, e al contempo poesia civile in quanto espressione e testimonianza di un sociale lasciato ai margini. Un’autenticità che ci ricorda l’esperienza poetica di Eros Alesi, per il quale Antonio Porta scrisse “…la poesia ha interagito con la nostra storia, senza diaframmi. Va detto che un tributo necessario al fare poesia lo paga sempre anche il corpo di chi scrive.”
Fernando Lena, LA QUIETE DEI RESPIRI FONDATI,
I quaderni dell'Ussero, 2014
E. Beneforti
I
siete il nulla
sotto il sole apatico
di questa trincea.
Chiusi come bestie
ogni giorno
ascoltate i passi
per capire dov’è
l’inizio dell’abisso…
a volte è una certezza
essere domati dalla follia
o solo un incubo
che vi abbraccia
con camice interdette
stritolandovi di silenzio.
VII
Milena fissa il sole
come se lo stesse invocando
per una scottatura esilarante
vuole essere cenere
sperando che il vento
la soffi fuori..
superata la cinta
pensa… che ci sia
un mondo emozionato ad attenderla
fuggire vorrebbe
o vivere volando
come un’affascinante strega
risucchiata da una vertigine
di diossina…
ma quel diritto di sognare
la opprime già
nei minuti in cui si dà
come una ninfa…funebre
nell’apice di ogni orgasmo.
VI
La notte scrive vite disordinate.
Tra gli incubi delle pareti
qualcuno cerca la parola per il disgusto,
c’è chi l’attende dal viaggio
melmoso di uno scarafaggio
o chi fissando la didascalia di un ragno:
lei però rimane
soffocata dalle bestemmie
non va oltre la sacralità
di un paesaggio picchiato.
XI
Un paradiso indecente
lo immagino adesso
questo cuore di cinta
con le emozioni
alte a gridare
mura che non ci fanno
vedere altrove la morte
conquistata ogni giorno:
qui tra di voi e la mente
spinta alla sonnolenza
la logica dei potenti
numera i corpi in terapie
e questi escrementi
sono l’ambizione certa
dell’orrore che da sempre
abitate sanguinando.
XII
(scatta foto Eusebio
con una macchina senza rullino
lo fa per essere quello che è stato
moltissimi anni fa,quasi un ottimo fotografo
che a forza di guardare la realtà
è inciampato sui confini del caos.
Ora sorridente immortala
un lago in una chiazza di piscio,
poi offre giovinezza
con un primo piano di rughe
dimostrandoci un nuovo punto d’estasi.
Per lui ci mettiamo in posa
confusi di tanta immortalità)
Fernando Lena è nato a Comiso in Sicilia nel 1969. Diplomato all'Istituto d'arte, vive e lavora nella stessa città. Ha pubblicato diversi libri di poesia, tra i quali il più importante è l'ultimo dal titolo Nel rigore di una memoria infetta (Edizioni Archi Libri, Comiso). Quest'opera arriva dopo un silenzio editoriale di quasi dieci anni.
Annamaria Ferramosca, Trittici, il segno e la parola, Dot. com Press.
Trittici
di
Annamaria Ferramosca
A volte, all’improvviso, sulla linea pura dell’orizzonte si aprono fenditure. Il poeta si avvicina: il respiro si allarga, le palpebre si stringono nella percezione di un precipizio ancora inesplorato. È un viaggio senza garanzie. Biglietto di sola andata. Al ritorno, se ciò avverrà, si sarà diventati altro.
Annamaria Ferramosca, ciclicamente, riparte.
Lei lo capisce quando il tempo dell’attesa è compiuto, il tempo che è stato necessario per ricomporre le novità dell’ultima faticosa conquista in un sistema di senso sottilmente rinnovato, intimamente arricchito. Nulla di codificato o determinato dalle mode letterarie. Annamaria sa che la sofferenza dell’impresa si giustifica solo se la vita è in pericolo.
Allora il suo viaggio ricomincia, lì dove il focus della visione si appanna ed è necessario cercare nuovi punti di osservazione. Le approssimazioni si susseguono nell’ipotesi di quel punto dove la solitudine della ricerca si coniuga miracolosamente con l’incontro.
Non è stato facile, nella babele delle immagini che rende la nostra cultura un folle labirinto, non è stato facile distinguere il richiamo di quell’opera d’arte figurativa- quel segno, quindi – che, pur profondamente compiuto, ancora offra spazio a nuove relazioni. Annamaria Ferramosca si accende alla suggestione di figure antiche e nuove per dialogare con esse, attraverso di esse. Un gioco già giocato, si può osservare. Certamente è lunga la tradizione della scrittura legata all’opera figurativa e viceversa. Ma è appunto questa la sfida: esporre il proprio io al contagio di un altro io perché scaturisca un noi senza precedenti, una pluralità umana solo transitoriamente oggettivata nella figura creata dagli artisti.
Nella cornice i volti attraversano il tempo, indifferenti. La loro vita è legata allo sguardo di chi passando si lascia catturare. I rapporti falliscono … perché abbiamo smesso di immaginare dice James Hillman (in La forza del carattere). E Annamaria non smette di immaginare, rilancia sulla relazione e fa rivivere il segreto dei volti dipinti, lo coglie nella vibrazione silenziosa che si propaga da quei corpi e precipita nella sua esperienza di donna e di artista. I percorsi si sovrappongono, si confondono. L’arbitrio regna sovrano. Ma non c’è ricostruzione biografica o filologica che possa creare quella verità di cui solo la parola poetica si fa portatrice.
Con Trittici l’incontro tra le due arti genera un terzo vertice, una tridimensionalità nata necessaria da quel bisogno di circolarità, contiguità tra le forme del dire, del fare, dell’essere. La ricerca delle co-incidenze, tanto cara ad Annamaria, la natura visionaria dell’impasto verbo visivo si esprimono nel dono e nel rischio di quel testo poetico che espande le primitive istanze in una dimensione imprevista. Il terzo vertice è saldo appoggio a un nuovo possibile piano mitopoietico.
Le donne di Cristina Bove, Antonio Laglia, Amedeo Modigliani, gli autoritratti di Frida Kahlo sopravvivono al loro autore. L’intenzionalità dell’artista è quasi sempre ipotesi remota, ma la loro vitalità si riaccende nelle storie di nuove donne, nuovi esseri umani che con loro si relazionano in un rapporto di complicità quasi animale, come fa Annamaria Ferramosca.
Il tradimento è rivelazione.
La dislocazione è rischio necessario per non appassire sui territori friabili che la critica di mestiere o la poesia d’occasione hanno già troppo a lungo dissodato.
Le donne in cornice, per bocca di Annamaria parlano e raccontano ciò che le donne reali forse non hanno detto mai: pudore, vergogna, desideri, rassegnazione, forse solo per impossibilità di dire, o incapacità di capire.
O forse sono solo fantasie, vere anche se irreali, come sono veri i romanzi che danno un nome alle cose della vita.
E poi nulla è più come prima.
È un biglietto di sola andata.
Maria Teresa Ciammaruconi
FRIDA KAHLO
capitano son capitano
in bianca livrea una dea
e la ciurma è
ipnotizzata invaghita
mi assorbe mi brancica
occhi carbone all’unisono persi
sul mio profilo irriducibile
non si replica un visoabisso
labbra serrate sul non detto
nell’umore di foresta nel
fogliame largo che mi sfolgora
la bella carne e l’effimero
che tormenta vela
di lontananza le pupille
negra corona sul capo intrecciata
in forma d’infinito schiavo amore
negro tetto di ciglia sovrappensiero
occhiuragano impenetrabili
* probabilmente le scimmie simboleggiano i suoi allievi
minuscola ma ferocemente centrale
una donna
in cammino sul pianeta sfigurato
- quiete dopo l’apocalisse -
la terra le sta chiedendo una rinascita
ora che la luce è tornata a splendere
lei risponde come fa una madre
che cerca un riparo per il parto
ripete la sua marcia preistorica
dal cerchio di Stonehenge verso
il fulgido che squarcia gli orizzonti
lei cammina verso un futuro antico
- intorno le voci risuonano nuove
il cuore sempre uguale -
lei dimentica
ogni colpa ogni miseria
ho ancora semi da salvare
bestiame da ricoverare
ricomincerò con le sorgenti con i boschi
e il lago ai suoi piedi gorgoglia vita
racconta di come acqua e terra si amano
disegnando anse lungo i fiumi
lei sente l’erba che nel bere trema
sapendo che al rigoglio seguirà la fine
eppure sorride dell’effimero
so di vivere solo per rinascere
filo d’erba o forse gazzella o tortora
fino a che s’alterneranno giorno e notte
lei continua a lasciar traccia dei rifugi
ponti passaggi tagli
testimone testarda di albe nuove possibili
© Annamaria Ferramosca, ® vietata ogni riproduzione e/o uso del testo
se non previa autorizzazione dell’autoreANNAMARIA FERRAMOSCA
L U C A A R I A N O
ERO
ALTROVE
I luoghi sono vivissimi, se ne sentono gli odori di benzina e caffè come i rumori quotidiani appena percettibili. Campagne e colline hanno la presenza di un momento di vita e bellezza, poi si dileguano in altri paesaggi in altre parole. Con il suo ultimo lavoro Luca Ariano ci consegna ben più di una raccolta come semplice insieme di poesie datate entro un certo periodo. Ero altrove racchiude persone e personaggi nel corso delle loro storie, che sono storie reali e presenti. Anna e Teresa come l’Emilio e l’Enrico, Fiulin e altri volti che senza nome si affacciano nei dintorni. Non si raccontano dei fatti in versi, quanto si illuminano dei momenti colti in tutta la loro gioia o in frammenti più dolorosi. Saranno forse questi tasselli a ricomporre delle vicende, ma non sembra essere l’elemento che maggiormente colpisce noi lettori. Ha più rilevanza la sospensione poetica del narrato, quei vuoti che restano fra un testo e il successivo. Ariano accosta certi gesti e certi sguardi per presentare un mondo senza nostalgie, senza sbavature. Documenta le voci come fossero registrate - esplicite o mormorate fra le righe – cui aggiunge alcuni “fermo immagine” che valgono un’intera narrazione. Prima ancora che poesia civile, questa è poesia dell’uomo che racconta di cadute e riprese, di smacchi inevitabili e destini assuefatti, di scommesse e di sogni. Un’affabulazione documentaria che si fa canto e che a lettura conclusa ci fa ripartire di nuovo dalla prima pagina.
E.B.
Passeggi sul lungomare
con sguardo forestiero
ma da lì viene il tuo sangue:
c’è ancora l’addore’e mare,
di cordami nell’acqua
dove si sedimentano civiltà,
tracce di epoche sfumate.
Tuo padre volto di fame
da dopoguerra e un sorriso
ragazzino mangiando frutti di mare;
li vedi ora contaminati gettati
sulla panchina con malagrazia
tra munnezza e navi in partenza.
Dici che lui rinnega la sua terra
ma anche l’Andrea vorrebbe un figlio
con stipendi da sottoproletario…
non ci fossero mamma e papà…
Anche Teresa non lo crescerebbe qui
senza lo stesso sapore di salso,
di macchia mediterranea,
mentre spedisci cartoline
come un gesto antico.
Da una collina, accanto al cimitero,
un poeta osservava il mare…
case di pescatori e scriveva…
scriveva… scriveva.
Ora quelle case sono una selva
di paraboliche,
un xiringuito vicino a bianche mura;
chi abiterà palazzi su palazzi
sfitti in una calda estate?
Teresa e Fiulin di treno in treno
Tra dimore un tempo splendenti:
ora odore di soffritto e rumore di stoviglie.
Di notte urla ubriache in bar disoccupati:
dello sguardo del poeta rimangono
solo impressioni… parole…versi.
El lent record dels dies
Que son passats per sempre.*
*Il lento ricordo dei giorni/che sono passati per sempre (Salvator Espriu)
Un giorno di papaveri nei campi,
di pappi nell’aria di neve
e Anna – nome da partigiana Rosa –
non voleva essere una donna
della famiglia fascista:
balzando tra i castagni ha visto
montagne abbandonate e boschi
dimenticati anche dai funghi.
Non più cascine, solo agriturismi…
Buffalo Grill e Road House:
periferie come Togliattigrad
e puttane alle stazioni di servizio.
Fiulin s’è sporcato le scarpe di fango
Senza un passo che consume le suole
In un’epoca da Basso Evo
-senza esser stato Impero-
Teresa come in Georgia
e la nostalgia dei capelli:
l’odore delle margherite la domenica
si confonde tra crema e aroma.
LUCA ARIANO, ERO ALTROVE, Dot.com Press, 2015
Paola Ballerini
Nell'arcipelago cresce l'isola
Raffaelli Editore, 2009
Questa prima raccolta di Paola Ballerini ( vincitrice del premio ClanDestino opera prima) è scandita da epifanie e sospensioni del tempo, incanti silenziosi di paesaggi . Il corpo gioca un ruolo importante sia nella sua forza che nelle sue debolezze e la natura lo accompagna fedele come una carezza. Un bel percorso di 'fermo immagine' lirico per decifrare gli oggetti come le parole.
Sono io l'ospite
di queste sotterranee dimore,
di questo tempo
opaco,sconosciuto,
che arriva nebbioso
a confondere le carte.
Dopo l'esitazione che mi accorcia
il respiro mi risveglio
sprovvista di pronostici.
Nelle direzioni
cardinali e secondarie però
la vita continua a soffiare
le sue raffiche
di noncurante bellezza.
é un esercizio così elementare
stare bene.
Lo sanno fare gli animali,
anche i più piccoli
e inarticolati organismi.
Mentre noi soffriamo
la mancata presenza,
senza cogliere l'abbondanza
elargita adesso.
Alimentiamo l'impulso
a respingere con dolore
il dolore,
come fosse l'ultima parola,
moltiplicando
la pena di essere vivi,
dissipando
la trasparenza del presente,
istante che non replica.
Il corpo refrattario,
messo al bando
non si dipana più
matassa viva.
Da troppo tempo
non giunge l'onda
a lambire la carne,
disseminata ora
di invisibili interstizi di assenza
e ineluttabile caparbietà.
Il corpo cede solo
all'avanzare del tempo,
altrimenti resiste
muro del pianto,
stele in memoria dei caduti,
casa evacuata,
inutile recinto
dopo la fuga
dell'animale più mite.
Dentro l'iride radici
CoazinzolaPress,2014
La lirica pura a asciutta di Paola Ballerini riavvia il suo percorso dove si era fermato in Nell'arcipelago cresce l'isola. L'epigrafe di Paul Celan è più che un'indicazione per procedere, vera suggestione per la versificazione. Si guarda alla natura per cercare e conservare le radici, accudirle nella vita e nella parola. Il corpo compie un passo oltre per arrivare ad altre voci che si mescolano composte. é una ricerca di arcani in divenire con rimandi alla Bibbia nella prima parte della raccolta, rimandi più simbolici della condizione umana che afflati religiosi.
GIOVANNA FRENE
TECNICHE DI SOPRAVVIVENZA PER L’OCCIDENTE CHE AFFONDA
Con sei immagini di Orlando Myxx
Arcipelago Itaca,2015
L’occhio guarda dritto in faccia il passato, sa che il futuro lo attende alle spalle. Non c’è modo che l’osservazione sia chiusa in se stessa perché è polarizzata sulla lettura di ciò che è stato, di quanto è avvenuto. Noi e i nostri giorni siamo assolutamente determinati da questo e se non sfuggiamo almeno possiamo cercare di capire. Giovanna Frene esplora tracce di eventi di uno ieri più o meno lontano per dare avvio a un percorso tutto quotidiano, necessariamente in fieri e continuo. C’è conoscenza, c’è ricerca, c’è desiderio di comprendere e agire. Tecniche di sopravvivenza per l’occidente che affonda è una raccolta poetica singolare composta da poesie e sestine che delineano il primo corpus di un lavoro più completo a venire. Ma già qui si possono vedere ben delineate le coordinate del suo personale dialogo con la Storia. A farlo scaturire è la figura del nonno soldato nella Prima Guerra Mondiale, idea poi dilatata al secondo conflitto dove protagonisti sono stati i suoi genitori. Allora la Storia si fa allegoria della storia individuale della Frene e la scrittura diviene il mezzo ineludibile per aprire cartelle di immagini e per reperire riflessioni utili. Tutto questo vale per raccogliere testimonianze, ora frammentarie ora centrate e messe a fuoco. Allora la Storia “è il luogo dove si esprime la massima presenza del nulla che ci assedia” e la poesia stessa prende la forma di rappresentazione storica. Se l’orientamento nel presente è difficile, tanto ricordare e decifrare il passato accompagna i giorni. La poesia civile si contamina con andamenti lirici e evocativi, ma rimane asciutta e ferma. La sostanza è dentro l’occhio / ma l’occhio è di vetro.
E. B.
I.
si sovrappongono, sembrano a tratti coincidere, si proiettano
a poco a poco, in tutta la perfezione si curvano
mattoni di fumo, o colpe riversate
per non essere proprie, crollate
perché alte e gonfie. piove nero, ad arco.
ma non è così.
IV.
perché nemico germogli a nemico, di notte si sostituisce
si condensa in alto, appare come scuro cavaliere che cavalca
se stesso: fabbrica bene chi fabbrica per ultimo, approfittando
del cambio di azione, lo scopo non cambia mai, se piove
se dio vuole, invece non piove, no, ma la terra
non è salvata, la carta, sfigurata.
VI.
:che si solleva da sola, per la testa e
che è un arrovellarsi di cerchi, con scarsi
risultati, che è una impotenza tolta
e rimessa per sempre, come un peccato, che è
infinita sete, che è pioggia che non piove
piovuta una volta per tutte
in odio
STENDITI A TERRA – SESTINA DI CRIMEA
tutto ciò che si sapeva
rimarrà come eredità
……come spesso gli uomini singolarmente intelligenti, aveva un numero limitato di idee
un numero limitato di supposizioni,per ogni singolo soldato steso a terra:
rifare il campo di battaglia,se non si può proprio tutta la guerra,girare
al largo da queste vere carogne repellenti,ricreare da vicino se non il morbo
del vero il vaccino del veritiero:fare la carogna per intero,in sostanza,
dare la notizia non della mattanza,ma della “bellavista”:
vedi che il braccio non sia fuori linea retta con la testa rotta,assesta
il colpo definitivo al cavallo centrale,centra la vera carne
malata,prima che infetta:una degenerazione veramente battagliera
di una schiera di inermi frantumati,a sfondo perduto,una quinta di fondamento
per una storia fotografica del genere umano davvero alla mano:
quello che raccolto ora,sanguina,dal bordo della scena
[su come nell’Ottocento si ricreavano a posteriori i campi di battaglia per fotografarli]
Francesco Randazzo
Tu non sai da dove vengo
Meridiano Zero editore – collana MZlab
“Devo andare a casa in via Canfora,91.Mi ci porta?”. Da qui ha inizio lo scontro-incontro fra un anziano fortemente confuso e il giovane che gli dà un passaggio. Nel suggestivo arco temporale che va dal pomeriggio all’alba si snoda questo particolare on the road in una Catania dai contorni vivissimi e surreali insieme. Tu non sai da dove vengo è un romanzo che vale come un atto unico teatrale, in cui storia pubblica e storie private si incrociano continuamente. Luci-ombre nel gioco intrigante fra dialoghi e monologhi dei due protagonisti, l’anziano in fuga verso la morte il giovane inaspettatamente catapultato in una ricerca di identità. Francesco Randazzo intreccia le loro vicende parallele in alcuni luoghi deputati che da soli valgono un’intera narrazione – la tangenziale,il cimitero,il mare, l’Etna… tutti variamente interpuntati da testi di canzoni e poesie. Un intero immaginario collettivo che vale tanto come una sorta di colonna sonora ai fatti raccontati quanto maggiore coinvolgimento del lettore. Immancabili riferimenti eccellenti ,insomma, per una storia sospesa nel tempo e nei luoghi che sembra non trovare una conclusione nemmeno all’ultima riga. Anzi, oniricamente è pronta a riavviarsi. Una lingua quotidiana al limite del gergo e del dialetto, insieme alla scansione piana dello stile, ci accompagnano in questo viaggio realistico e sognante. La vera vita è altrove?
© 2015 Meridiano Zero di Odoya srl Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-8237-347-4
Copertina: Mauro Cremonini
Meridiano Zero
via Benedetto Marcello 7 40141 – Bologna www.meridianozero.it
GUGLIELMO APRILE
Alcune pagine del libro
Guglielmo Aprile vede nella poesia un grido profetico, un
gesto di ribellione, un manifesto per una paligenesi spirituale.(...)
L'uomo (...) è un figlio dell'universo, di un universo visto nel suo misterioso essere in perenne movimento e mutamento, come lo vide Williamson Blake, con una mano remota che comanda alla vita di schiudersi e perpetuarsi.
(...) Questa è una poesia epica. Di un visionario che sogna un mondo diverso, che capisce che soltanto una utopia sconvolgente e ancora inconoscibile sarà la salvezza della Madre Terra e di una umanità discesa verso l'inferno del non senso, del nichilismo, del distacco dalla natura, dal mistero, dalla sacralità, dalla bellezza.(...)
Giuseppe Conte
Dalla prefazione a Nessun mattino sarà mai l'ultimo.