"siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e
la nostra piccola vita è circondata
dal sonno"
W. Shakespeare
Qualche notazione in margine,
leggete i sogni in bianco e nero, solo le scene del racconto
sono a colori.
la voce fuori campo è solo una voce e se vi confondete
fa niente: anche di segni equivoci sono costruiti i nostri dintorni.
Così ho detto un sacco di bugie a tutti per finire di raccontare
questa storia.
( il romanzo si legge dal basso in alto)
IX
O c’è amore o c’è morte. Entrambi occupano vicendevolmente certi spazi, certe cavità interiori. Quando non c’è l’uno c’è l’altro. I periodi sono sempre andati di conseguenza : una danza alternata di colori primari e colori composti. Tutto dipende dai fatti e dall’affetto. Arancio, blu, fuxia, viola, verde acqua, terra bruciata, indaco, verde limone, turchese, rosso ciliegia. Non ti sbagliare. La cronologia di Picasso non c’entra niente.
La memoria comincia a tre anni. Spiegano che quanto avviene prima non lo ricorderemo mai. Mai in prima persona, chiaro che ce lo possono raccontare gli altri che hanno visto. Noi ne restiamo assolutamente inconsapevoli, ma fino a quando? Da qualche parte i fatti ritornano, anche se con facce differenti. Tutti i momenti che abbiamo vissuto da punti separati. Forse ce li sogniamo o li abbiamo sognati molto tempo fa e riteniamo così di ricordarli. Per l’effetto della lontananza funziona lo stesso. Passi di qualcuno che cammina e si fa sempre più vicino. Sono quelli del nonno che entra in cucina e mi scopre a sgraffignare i dolcetti che la nonna sta preparando. Questi nonni abitano all’ultimo piano di una palazzina del centro storico. Lavorano come cuochi nella pasticceria dabbasso, la più vecchia e rinomata della città. Pasticcini, torte, salatini. Me ne sto sotto il tavolo e mi sposto carponi avanti e indietro. Poi mi alzo fino all’orlo del tavolone di marmo e prendo un dolcetto tutte le volte che la nonna si gira dall’altra parte. Molto divertente. Fino a quando il nonno appare sulla porta e vede a cosa sto giocando. Ma ancora non so dire se l’ho vissuto o l’ho solo sognato o sognandolo c’ero davvero. Rimane la stessa distorsione temporale.
Mostra a un bambino di due anni il cielo stellato in pieno inverno. Inutile chiedersi come ritornerà a questo momento molti anni dopo.
Sentivo ancora molta nostalgia per le persone che avevo incontrato e poi per un motivo o l’altro avevo smesso di frequentare. Qualcuno di loro aveva trovato nuove storie oppure era partito prima di me dai posti dove abitavo. Qualcuno anche mi era diventato improvvisamente antipatico o io a lui. In ogni caso si erano prese strade diverse non più tangenti, non più comunicanti. Adesso quando ricordavo le persone che avevo incontrato mi arrivavano delle fitte di nostalgia. Mi chiedevo se Matt si sarebbe aggiunto alla lista presto o tardi.
Cominciai il lavoretto all’Accademia sotto mentite spoglie. Non aveva importanza chi fossi veramente. Già dal primo giorno realizzai che avevo bisogno di trovare qualcosa per occupare la mente mentre me ne stavo lì nuda accomodata su un treppiede o distesa su un divano o nella posizione che veniva in mente al professore. Imparai subito l’immobilità come la mia dote principale, veramente anche il respiro doveva essere impercettibile e sincopato in scansioni limitate alla mia sopravvivenza. Era necessario che mi annullassi nel mio corpo in bella mostra. Mi annullassi del tutto. Non si doveva percepire altro di me persona. Ma dopo i primi dieci minuti rischiavo di annoiarmi a morte. Allora presi a concentrarmi nella dilatazione dei miei pensieri. In ogni seduta scorrevo il più possibile i ricordi che possedevo o credevo di possedere. Li intercalavo con ritornelli di canzoni, approdavo a considerazioni banalissime o pertinenti. Dovevo avere un’espressione incantata, un po’ imbambolata, davvero assente. Talvolta non potevo fare a meno di sorridere brevemente o inclinare di pochi gradi la testa. Con il tempo mi abituai a stare solo dentro quello che mi passava per la testa. Vista da fuori ero niente più che una forma.
Chissà Matt quanto sarebbe rimasto, per quanto avrebbe continuato a essere presente nei miei territori o io nei suoi. Forse ero pazza a pensarci, ma già sentivo nostalgia per questo. Sempre al risveglio la mattina o in posa ripassando i film più belli dell’anno e le frasi che potevo dire.
Posso dirlo ma non posso spiegarlo.
Per tutta un’infanzia d’estate al mare nella colonia marina “Regina M.”, dopo la merenda i ghiaccioli artigianali a scelta limone amarena menta arancio. Abbiamo provato a scappare ma ci hanno subito ripescato fra il corridoio del piano e la pinetina delle altalene. Quando pioveva ci portavano in passeggiata vestiti tutti bellini con la divisa delle occasioni ufficiali. Poi la volta successiva, altro luogo altro millennio. Quella volta che al campeggio estivo hanno dato un bel giro di vite dopo aver elargito in lungo e in largo tempi e spazi come benedizione e noi li avevamo riempiti di sante bevute e faccine spavalde insofferenti legalizzate di tutto insomma poi hanno dato un bel giro di vite finite le uscite libere ma allora come prima e prima ancora nessuna proposta per tirarci fuori chi di noi era totalmente disinteressato forse aveva solo bisogno di ritrovarsi davanti a porte aperte da attraversare invece niente niente ancora solo un deciso taglio un inequivocabile giro di vite mi ricordo la prima sera chi di noi in punizione e chi gli faceva compagnia a girare per le vuote stanze comuni a prendersi una bibita e delle patatine sconsolati di spalle per chi ci vedeva tragicamente a braccetto niente altro che gli amici importanti andati via solo il sabato precedente non sapevano cosa avrebbe lasciato noi invece imparammo come funzionano certe cose anche politiche una bella lezione davvero sugli avvicendamenti che sempre comunque si fanno prendere la mano imparammo che comunque vadano le cose dobbiamo solo usare le nostre bellissime teste eccola là la vecchia mensa riconvertita a spazio riservatissimo dove fare solo il nostro eccola là sedie rosse di formica e tavoli sempre di formica neri o gialli divanetti in simil-pelle fogli dappertutto mazzi di carte scatole di giochi un registratore il calcetto nel mezzo i finestroni sul pratino tutto questo e quanto resta e presto non ci sarà più neanche questo spazio reale e ideale eccolo là
Ci voleva ancora il deserto, questa era davvero la nostalgia più grande. Un posto assente di tutto in cui puoi avere un’illuminazione o due.
VIII.
Matt fu molto divertito della mia uscita e mi chiese una lista di informazioni a cui non potevo ancora rispondere. Finché non gli venne in mente di presentarsi anche lui, un giorno o l’altro. Potevamo sempre proporre una composizione di corpi amalgamabile con colori forti, tipo un rosso cardinale o un blu Cina. Potevamo offrire agli allievi un’intuizione da sviluppare nel figurativo, magari. Insieme ad altri elementi naturali. Potevamo spogliarci davanti all’intera classe e recitare brani ritagliati dai nostri libri preferiti come sottofondo e stacchi per le loro esercitazioni. Matt mi chiese perché non ci aveva pensato prima. Sarebbe stato molto più interessante che raccogliere spazzatura nel finesettimana.
Allora dovevamo provare subito, vedere cosa si poteva fare. La caraffa era piena di vodka e vermut e mandarino. Possibile perdere il controllo e seguire una bellissima idea. Matt era irrefrenabile, non aveva paura di perdere ne’ di confondere i tracciati. Io stavo a questo gioco, ne seguivo le minime regole che via via inventava. Prima stendemmo dei teli bianchi sul pavimento, poi cominciammo a spogliarci e a provare dei colori che Matt aveva raccolto in casa. Tinte da muro, acquarelli, tubetti di tempera. Dopo un primo passaggio con i colori puri, li mescolammo fra loro per vedere cosa veniva fuori. Dovevamo vedere, ci dicevamo, non era ancora finito lì. i lenzuoli bianchi avevano il puro compito di mettere in risalto i nostri corpi dipinti, anche se alla fine erano completamente macchiati. Combinazioni pasticciate da manuale di body art. Fotogrammi da catalogo di biennale in qualche parte del globo, solo ripetizione del già visto cronologico. Insomma tutto quello che altri hanno inventato prima di noi. I colori si confusero o noi confondemmo i colori. Eravamo già d’accordo che era solo una scusa. Si sa sempre prima la gestualità ultima. Matt aveva una pelle fatta apposta per allungarsi sopra e stropicciarsi in più maniere. Per amore non per amore. Nell’amalgama di celeste striato, rosso indaco, giallo verdastro. Soltanto per i poveri di spirito sarebbe stato un pastrocchio inutile.
La mia istantanea della notte, l’ultima prima di scivolare via, rappresentava un gruppo di persone molto colorate mentre sorridevano all’obbiettivo. Sentivo che presto le avremmo viste passare per strada, con la schiena ben dritta e sguardi accesi di verità. A vederci potremmo anche sembrare uguali a voi, ma non lasciatevi ingannare.
Eppure qualche volta c’è bisogno di buio. Buio e silenzio. Azzeramento di ogni particella di movimento, scomparsa di situazioni. Quanto può essere attuabile.
Mi avevano insegnato che per rimandare il più possibile la morte occorre dormire abbracciati a qualcuno. Vale per tutti senza distinzione alcuna e se lo abbiamo imparato non lo dimentichiamo più. Nei sogni è sempre meglio entrare accompagnati, come nel caso di certi viaggi. Sebbene alcune rotte si prestino all’avventura solitaria.
Tutto è diventato stranamente macchinale. I treni puzzano di treno. Niente da dire, è un classico che ritorna all’olfatto viaggio dopo viaggio. I treni puzzano e dondolano. Matt ed io lanciamo occhiate ai compagni di viaggio che vanno e vengono,vanno e vengono. Mi ricordo benissimo molti dei miei lugubri viaggi da un posto all’altro. Avevo vissuto per dieci anni in una strada fiancheggiata da splendide palme nella parte nord della località balneare e la casa era piena di cose cigolanti. Ricordo la pacchia di vivere con i nonni, nonostante non passassi mai a casa un minuto più di quel che dovessi. Ogni sentimento del tempo si perde nella monotonia dell’attesa della speranza, del desiderio : prendere e partire! Prendere e partire! O forse è solo un ingenuo rimedio per sentire meno dolore. Riesco ancora a ricordare qualche lugubro viaggio. No, non me l’aspettavo nemmeno io. Mai nessuno che abbia detto se hai bisogno che qualcuno ti accompagni, ti porto io. Il treno in arrivo per la direzione opposta è particolarmente affollato, consigliamo di prendere il prossimo. I treni puzzano e fanno tutte proprio tutte le fermate quando i passeggeri si aspettano solo fermate alle stazioni più importanti. Chiedo consiglio a Matt riguardo a una storia che regga bene. Ho terminato le storie da raccontare a mia nonna per telefono in notti come questa, quando devo avvertirla dei miei ritardi incolmabili. Sono tutte storie miserrime. Prendere e partire! Prendere e partire! Non importava niente altro e non c’erano passaggi intermedi da compiere. Solo i giovani hanno di questi momenti. È il privilegio della prima gioventù di vivere in anticipo sui propri giorni.
Lei inizia a canticchiare un motivetto. Lui interrompe con i suoi discorsi dal tono saccente, dà un’occhiata fuori dal finestrino. I treni puzzano e sono gelidi o soffocanti, forni o frigoriferi. Dai, aspira. Aspira e tieni la bocca chiusa. Ecco, così, brava. Devi chiudere bene la bocca, respirare con il naso e buttare giù il fumo. Vedi che ci riesci. Adesso non scherziamo troppo, se viene il controllore ci butta fuori. Dammela che la finisco nel bagno. Ma come fai a legarti le scarpe così? Ragazza mia, ora ti faccio vedere come si fa che non ti si sciolgano. Hai tu i biglietti? Non capisco perché non vuoi venire, pazienza ci vado da solo. Risatine di lei.
Il treno continua a perforare il paesaggio e penso che dirò a mia nonna che hanno abolito i treni straordinari e gli altri puzzano troppo. Così salto anche la mia parte dell’inventario nel negozio di antiquariato, quel negozio che i nonni gestiscono sul viale nord. Non sarò a casa prima di domani pomeriggio e mi metto il cuore in pace. Abbraccio Matt e cominciamo a baciarci. Dirò alla nonna che ho perso il treno.
Sulla porta incontrai lo straniero di poco prima. Con la scusa che non ci conoscevamo si presentò cordialmente. Poi cominciò con una delle storie dei cortili. La cacca dei piccioni si sedimentava sul terreno, giorno dopo giorno e settimana dopo settimana. Sarebbe stato necessario pulire il selciato abbastanza spesso da impedirne l’accumulo. Acqua bollente e varechina pura. Invece l’intera faccenda veniva trascurata e la cacca sedimentata dei piccioni puzzava. Il puzzo finiva per entrare attraverso le finestre nelle case altrui inesorabile e incontrastato. La cacca dei piccioni puzza come i pannolini dei neonati. Ma non accennò minimamente alla faccenda dei topi. Di lì a poco ne avrebbero di nuovo visto uno alle undici di sera, nero e macchiato. Ed io avrei attraversato di corsa i cortili per sfuggire a qualsiasi incontro. Nella mia immaginazione erano sempre vivi e vegeti da qualche parte a occuparsi dei loro affari minimi.
Rosenthal e Blumm passarono accanto alla mia conversazione con lo straniero. Spingevano una carrozzina con due creaturine sorridenti e silenziose, non avranno avuto più di un anno e mezzo. Pensai per l’ennesima volta che programmiamo i bambini secondo le nostre abitudini e le nostre costumanze. Per quanto riguarda noi, alcuni sono volati via e non sono più tornati. Altri volteggiano ancora e qualche volta si fermano, giù da queste parti o altrove non fa differenza. Tutto questo amore non basta e non avanza.
I veri ritorni esistono raramente. Si tratta sempre di imbattersi nei soliti posti e solite facce. I ritorni veri sono quelli che indicano un cambiamento, la scansione differente per i soliti posti e solite facce. Quanto a me, cominciavo a capire che non potevo tornare più indietro. Come ha scritto un poeta che i veri viaggi sono senza ritorno. Dovevo solo andare avanti cercando di aggiungere gesti appropriati per la direzione presa. Chissà Mir dove sarebbe andata a finire stavolta. Per ora a trovarsi una parvenza di lavoro, questa era la constatazione più concreta cui potessi arrivare. Al bar avevo sentito qualcuno parlare di un lavoretto giù all’Accademia. Per questo mi misi in cammino il giorno stesso. Me ne andavo pensando che i veri ritorni esistono raramente e che un poeta aveva scritto i veri viaggi sono senza ritorno.
Da un ponte all’altro la città sembrava proprio una cartolina dipinta, sembrava che qualcuno avesse fermato la seconda parte del pomeriggio per rendere perfetto il quadro. Stucchevole, decisamente stucchevole. Molto meglio uno di quei quartieri antichi, forse abbandonato a se stesso ma meno scontato. Conclusi che erano tutti concetti relativi.
All’Accademia gli alberi del porticato erano spogli e secchi da fare pena. L’erbetta sul selciato faceva il verso alla sua lontana parente nella Tundra. Lungo le pareti del corridoio al primo piano erano in mostra le prove finali dell’anno precedente. All’inizio rischiai di perdermi andando a curiosare qua e là da un’aula all’altra e da un padiglione all’altro. Nessuna notazione di stile o di immagine. I bagni erano ovviamente vecchi e sporchi. Due signore delle pulizie con sciarpona e berretto discutevano sul vetro rotto di un finestrone centrale. Alcune porte più in là intravidi un gruppetto di personaggi che non erano certo lì per caso. Stavano appunto selezionando le modelle per il corso di pittura dal vero. Molte ragazze erano troppo magre per consentire agli allievi di tracciare una forma. Peggio per loro. Un uomo alto sui cinquanta anni cominciò a leggere i nomi dalla lista sul foglio. Al quarto non rispose nessuno, tutt’al più io e le altre ci guardammo intorno o distrattamente le une con le altre. Poi mi feci avanti e presi il posto dell’assente. Così non sarei stata io davvero neanche in quella situazione, ma non era importante. Iniziavo la settimana seguente per le lezioni pomeridiane nel padiglione nove. Non ricordavo di aver fatto niente di simile prima di allora.
Il buio non esiste nemmeno quando chiudiamo gli occhi. Rimangono sempre delle linee luminose e altri scarabocchi in rosso scuro scuro o viola pesante. Il nero finisce per uniformarsi, ma non arriva all’assoluto. Mai.
Provavo e riprovavo questo sul traghetto che mi riportava a casa.
Anche i suoni e le voci azzerano il buio. Anche loro producono le forme di graffiti e bassorilievi. Apri e chiudi gli occhi. Apri e chiudi gli occhi.
VI.
Veramente non sapevo cosa avrebbe portato il domani. Intanto in quella tarda mattinata stavo bevendo tazze di caffè forte con gli amici di Matt. Magari senza parlare o quasi. Magari senza aspettarmi alcunché. Tutto quel caffè che buttavo giù dalla mattina alla sera. Caffeina in grado di riempire il corpo, di scivolare in ogni sua parte. Soffice e indisturbata. Ma anche brulichio sottile, eccitazione sopratono, nervi e pelle tesa. Per calare è sempre occorso alcol in ogni forma che fosse. Vino, birra, altro e altro. Solo questo smussava la tensione e riequilibrava l’assetto. Anche in quel periodo alternavo bevande alcoliche a caffè caldo e scuro. C’erano ore per le une e ore per l’altro. Ce n’erano sempre state.
Fu a quell’ora che lo straniero fece piangere Marta. Nessuno mi aveva parlato di loro. Dalla porta finestra del cortile arrivavano i suoi singhiozzi e parole allungate come filamenti. Lo straniero cercava di calmarla con voce sostenuta e con voce comprensiva, ma lei non si dava pace. Poi il pianto fu risucchiato in una bobina che completava il suo avvolgimento. Marta venne alla porta finestra. Capelli lunghi grigi sciolti e gambaletti beige scuro dentro zoccoli ortopedici. La testa appoggiata al cancelletto bianco, buona in silenzio. Capii subito che non era la prima ne’ sarebbe stata l’ultima volta che Marta piangeva. Se era stato davvero l’uomo a farla piangere. Nessuno si era preso la briga di raccontarmi le indicazioni. Non potevo ancora immettermi nella storia.
Alla luce del giorno constatai il numero impressionante di appartamenti nel labirinto di scale e corridoi. Persone e persone che mangiavano e dormivano e parlavano una accanto all’altra. Finestre confinanti con davanzali sguarniti. Voci che scappavano via da quelle finestre per riempire lo spazio. Una cassa di risonanza dei tanti discorsi appallottolati. Se non capisci che tutto è in movimento sei fottuto. Ariel la bambina meridionale non abita più qui. la polizia se l’è presa una mattina insieme a suo padre e a sua madre. La bellezza delle conversazioni invisibili. I luoghi contigui parlano basse frequenze o in rimasugli di parole. televisioni e tutto il resto. Il silenzio si infila quando le persone vengono spente. Io che negli ultimi tempi mi sento musicalmente sereno. Lui non vede più il bene da nessuna parte. Risatine. I ficcanaso maldestri bisogna farli incuriosire e poi chiudere le persiane.
Andiamo avanti con questo concerto. La famiglia e i parenti in visita, la festa dei bambini che naturalmente strillano, un gran vociare di comari, una sega elettrica e un trapano, film storico di guerra, stereo con Frank Sinatra e il suo meglio, pentole che cadono, aspirapolvere, sbattere di imposte. Tutto questo in loop casuali, anche noise allo stato puro. Ciò che contano sono i rumori frullati, uno per scena. Se provi a vedere non trovi che spazi immobili e stantii. Ancora poetica del balletto e contrappunto di spari, l’aspirapolvere entra in scena per uscire subito, la colonna sonora del film è sormontata da sedie spostate e bambini che corrono e posate sul tavolo, una voce di bambina che gioca da sola e tutto questo genera sospetti e congetture, sigla di chiusura del cartone animato. Telefono che squilla e seguente voce conversante. Campane che a un certo punto non mancano mai. Sonorità disturbate e disturbanti, ma anche interni e esterni sovraesposti nella mia personale documentazione fotografica.
Quella casa non era un condominio, era una città.
Alla fine gli scrissi proprio questo e proprio la mattina stessa. Dopo aver bevuto il caffè.
Caro P., ho continuato a sognarti per molte notti. Tu parli e ci sei, oppure non ci sei ed io registro la tua assenza cercandoti nei vari luoghi dintorno. Ma sei presente anche in questo modo, perché il sogno sei tu. Tutto questo dice che mi manchi e non poco, senza dubbio sei quello che mi manca di più. C’è un film francese dove lei dice a lui che lo sogna ogni notte e che quando si sogna qualcuno la mattina seguente bisognerebbe telefonare e dirglielo e dirgli stanotte ti ho sognato. Così le cose sarebbero più facili. Ma spesso si ama l’incompiuto. Una volta eravamo al cinema entrambi e ci siamo incontrati in platea. Un’altra volta facevamo un viaggio insieme in macchina, tu studiavi le cartine ed io cambiavo la musica. Ho continuato fino al mio arrivo qui, guarda come vanno le cose. Ti manderò delle foto per vedere con i tuoi occhi che posto da riprese in 21mm sia questo. Un magma di porte e cortiletti abitato da un catalogo impensabile di persone. Ci sta un mondo e non avanza niente. Questa casa è proprio una città, non è un normale condominio. Adesso abito qui e spero a lungo. Continuo a sognarti. I miei baci a te.
Mir
Scrissi ognuna di queste parole di getto, ascoltando solo quello che mi dicevano gli occhi. Era solo un tema della lontananza, un tema della nostalgia. Allora era meglio andare via. Fuori.
V.
Più volte facevo così. Avrei continuato a farlo in seguito chissà per quante occasioni. Andavo a cercare brani musicali e canzoni dei periodi precedenti. Li riascoltavo seguendo le situazioni. Li riascoltavo chiudendo in segmenti una conversazione o il puro niente. Scorrimento veloce del vissuto, ma niente di sentimentale. Nessun struggimento. Aveva funzionato quanto tempo prima non sapevo calcolarlo. Aveva funzionato fino a un punto indietro. Da un po’ di tempo a quella parte non sortiva nessun effetto. Mi rimanevano dei frammenti isolati ma non il quadro completo. Giocavo a un puzzle senza la figurina di riferimento. Non venivo a capo di niente. Se gli incastri rimangono duri stecchetti svogliati, mi dicevo, occorre allora ammucchiarli a lato sul tavolo e prendere una nuova immagine. Insomma equipaggiarsi di una nuova provvista di brani e musiche che partivano da quel periodo.
Azzerare e ripopolare.
Lo stesso rompicapo con le fotografie. Passavo in rassegna quelle scattate nella città di Matt e mi sembrava di riconoscervi altri luoghi. Ce n’era una da cui non riuscivo a staccare gli occhi. Mille e altre città.
Si vedeva la vetrina di una pasticceria con i dolcetti colorati in mostra ben allineati su vassoi in due piani più qualche cartellino dei pezzi o di descrizione della varietà in questione ma trattandosi di vetrina e dunque di un lato fatto di vetro dunque si poteva immaginare un effetto speculare e così come in uno specchio si riflettevano anche il palazzo a mattoncini giallo arancio a lato della piazza e pure una sezione obliqua dell’entrata del metrò stile liberty per non parlare di una fetta di cielo assolutamente turchese da primo pomeriggio di giorno assolato nonché un albero spoglio di tutte le sue foglie e tutto questo effetto come in uno specchio se ne stava nella parte alta della foto mentre nella parte bassa rimanevano immobili i pasticcini di panna di cioccolato di fragole quel po’ di verde sono sicuramente decorazioni al pistacchio insomma questa fotografia rappresentava tutto il visibile della pasticceria e paraggi.
Così l’immagine raccontava molte cose e al tempo stesso poteva non dire niente per la sovrapposizione dei suoi elementi. Ma io la trovavo bellissima. Forse perché mi ricordava qualcosa, perché secondo me apparteneva anche a un altro luogo. O tutte le città sono una, unica. Oppure ne avevo viste troppe senza ricordarmele bene. O non riuscivo a far collimare i segmenti isolati.
Chi sa cosa può portare il domani.
Poi c’erano altre foto da altri posti. Negli archivi qualche volta i viaggi rimangono mischiati fra loro.
La cittadella è proprio una piccola città dentro la città sul confine orientale. Dal cancello la strada sale intorno a una collinetta e i vari padiglioni spuntano fuori dal bosco. Dopo la salita si arriva a una piazza con vasca e fiori tutto intorno. Si può intuire che gli edifici lì siano quelli principali dell’amministrazione, mentre i reparti continuano lungo due strade che vanno oltre. Oltre si trova anche un bar con tavolini all’aperto e un grosso capannone a vetrate con ciminiera. Le bovinde sono le stesse che puoi vedere sugli edifici nel centro della città che contiene la cittadella. Forse è così che si mantiene la continuità di vita fra città e sanatorio neurologico. Ma qui i muri sono a colori e parlano e dicono in francese CASERME=ASILE=PRISON=FAMILLE. LE FEU PARTOUT. Più in là sono in mostra due statue di legno, un cavallo marrone e un cavallo celeste. Lampioncini allineati in molte stradine. Si ritorna al cancello di entrata scendendo lunghissime scalette fiancheggiate da panchine e laghetti con anatre. Non si dimenticano i volantini sui muri con antiche foto dei degenti. Giù al porto il cielo è tagliato dalle travi rosse delle gru di imbarco. La foto successiva racconta di una ragazza cinese vestita di nero a un mercatino dell’usato. Strada secondaria a Soho. Lungo il marciapiede sono allineati banchi con gli oggetti più disparati, riciclati o seminuovi. Il banchetto gestito dalla ragazza cinese raccoglie solo parrucche ben disposte su tre ripiani. Hanno quasi tutte il medesimo taglio e la medesima pettinatura. Per il resto coprono più gradazioni di colore : incredibile verde smeraldo e verde prato blu cobalto rosa confetto un po’ viola un po’ turchese rosso fuoco bianco latte grigio lunare e via discorrendo. La ragazza osserva la sua merce in bella mostra. Ha appena finito di sistemare le testoline impettite. Di lì a poco chiederà se sei interessato a qualcosa.
e via discorrendo.
IV.
Al primo piano abitano due ragazze, non sono grandi amiche ma ottime conviventi. Solo qualche volta sono contemporaneamente a casa e per questo non si vengono mai a noia. Sono così complementari che anche i loro ritmi sono all’opposto.
Judith dai capelli nero corvino è arrivata fin qui da una provincia lontana e riempie le sue giornate di mille faccende. Di corsa racconta all’altra qualche novità vista o sentita. I bigliettini con i messaggi telefonici si accumulano sul tavolo di cucina.
Ada dai capelli rossicci e gli occhi piccoli ha due lavori. Ogni metà mese argomenta di lasciarne uno che tanto i soldi non le mancano. Temporeggia vivendo alla sua maniera. Dorme molto, mangia cibi precotti, conversa lungamente al telefono. Spesso la sera fa le pulizie e un paio di lavatrici. Ada cerca di non dare mai troppa confidenza a nessuno per non trovarsi coinvolta in situazioni complicate. Sembra in pace con il mondo, così in pace da viverci dentro ma standosene in verità da un’altra parte, la sua. Ogni quindici giorni vengono a trovarla le sorelle, quella maggiore e quella minore con i capelli biondi chiaramente tinti. Vanno al cinema e poi a casa si mettono a chiacchierare. Patatine e tisane alla frutta. Si pettinano i capelli a vicenda o provano i vestiti nell’armadio. Questo accade ogni quindici giorni circa, per il resto Ada dorme molto, mangia cibi precotti e non è possibile vederla nervosa. Verde è il colore dei tipi come lei, il guizzo degli occhi inganna la mente, l’invidia è il legame tra chi spera e chi è dannato.
Ada e Judith si incrociano nel corridoio e qualche sera bevono vodka e fragola.
Rodriguez abita al terzo piano e si gode un ottimo panorama. Trova spesso l’occasione per un caffè e quattro chiacchiere, sempre che non abbia la luna storta e scansi chiunque gli si avvicini. Abbandonato a se stesso chi è spaesato rimane ancora più spaesato.
Un’unica cosa si è saputa di Rodriguez. Poco prima di arrivare nel bilocale all’ultimo piano, aveva preso alloggio su un camper di proprietà altrui. Pare non avesse altra scelta, dal momento che chi non ha una casa si arrangia a trovare il modo per averla. Un camper parcheggiato in un capanno di lamiera alla fine di una strada senza uscita. Dalle parti dell’aerodromo. Pare fosse un camper di media grandezza, completamente accessoriato, con stoviglie e tendine in tinta, con una tappezzeria davvero decorativa. Rodriguez l’aveva trovato per caso, girovagando da quelle parti appunto alla ricerca di un rifugio. Infatti il capanno gli era sembrato subito un buon tetto e mensa e tutto il resto. Davvero perfetto. Il camper dentro il capanno : un guscio dentro un altro guscio come un gioco di scatole cinesi. Allora gli sembrava di aver trovato una dimensione terrena, reale. Nel periodo del camper non si sentiva più caduto dal cielo, spuntato dal nulla, apparso sulla faccia della terra senza un contorno attendibile, senza dati dimostrabili. Il camper era il suo punto di riferimento, tana insostituibile.
Il quieto vivere sarebbe finito nel giro di poche settimane, quando i veri proprietari se lo sono ripreso. Stavolta loro sono spuntati dal nulla e si sono insinuati nel capanno, in assenza di Rodriguez. Hanno svuotato e disinfettato il camper, se solo avessero saputo che lui non è contagioso si sarebbero certo risparmiati questa fatica.
Così Rodriguez ha ripreso a fare l’apparso dal nulla alla ricerca di riferimenti e il fatto che non li abbia ancora trovati non lo mette di cattivo umore. Anzi. Si sente bene solo per il fatto di avere un ampio spettro di possibilità davanti a se e che sono tutte da sondare. Il resto non ha la stessa importanza.
Adesso Rodriguez abita al terzo piano e si è fatto crescere baffi e basette. Nelle ore in cui rimane a casa cambia incessantemente la disposizione dei mobili. È molto lontano dall’arredamento esemplare. Le persone che abitano nell’appartamento sottostante sono sempre informate di questi spostamenti sia di giorno che di notte. Porta armadi e poltrone e vetrinetta trascinandole sul pavimento.
Rosenthal e Blumm possono ascoltare tutti questi movimenti dal piano inferiore. Non invitano mai nessuno a bere un bicchiere. Trascorrono le ore a conversare fra loro. Rosenthal e Blumm sono un mistero per tutti, un campo di ipotesi e fantasticherie.
La finestra della loro camera dà sul vicolo di lato e non chiudono mai le imposte. Passando lì sotto si possono intravedere due sagome a letto che parlano e gesticolano.
Non so perché io, Mir, sognai che discutessero questioni di guerra e di pace.
Arriviamo a coagularci in microcosmi. Sono zone protette di cui conosciamo perfettamente il terreno e il perimetro. Al loro interno ci muoviamo come se giocassimo ai quattro cantoni. Qualche volta ci colleghiamo ai microcosmi confinanti, ma più spesso facciamo ritorno al nostro per sentirci rassicurati. Le nenie ci cullano e tutto si tiene insieme.
Caddi in un sonno profondo quando anche Matt e gli amici suoi si addormentarono alle prime luci del giorno. Dal finestrone centrale alcuni raggi si mescolavano al fumo densissimo della stanza. rimani, di colore blu mezzanotte avvolta nella nebbia, di colore blu mezzanotte, oro infuocato, una luna gialla troneggia fredda.
La parte peggiore fu il risveglio, quando una serie di istantanee affiorarono. Momenti isolati. D’istinto cercai di capire cosa avevo lasciato indietro, avevo la precisa sensazione di dimenticare qualcosa. Il passato era sempre stato per me una coltre calda in cui rifugiarmi e non riservava sorprese nelle parole e nei gesti. Istantanee nel dormiveglia, non riuscivo a trovare il bandolo della matassa, un avvenimento di cui compiacermi o da commiserare. Queste istantanee del passato non erano più una coltre calda. Per distrarmi cominciai a compilare a memoria un nastro con un mucchio di canzoni: mi sembrava di ricordare le mie preferite. In quanto al resto, le istantanee affiorate restavano confuse,ammassate,indecifrabili.
Vicino a me Matt continuava a dormire. Così bello guardarti dormire. Potrei guardarti tutta notte tutte le notti. Uno dei suoi amici era in cucina a preparare un bricco di caffè forte ed aveva i capelli bagnati per la doccia appena fatta. Nico era uno dei visitatori della casa di Matt, uno dei tanti uno di un giro differente dagli altri. I visitatori di Matt erano così che ognuno arrivava da un giro e poi tutti insieme diventavano lo stesso unico giro. Sarebbero stati questi personaggi a farmi capire dove stavo andando. Oppure semplicemente sarebbero state comparse e apparizioni nella storia generale. Andava così.
Mi alzai e accesi la radio. Stavano dicendo che il prossimo appuntamento era per le tre e che mandavano un bellissimo brano musicale, restate in sintonia con noi.
III.
Ai primi di settembre si stava aprendo per me un nuovo periodo, di pari passo con il tempo e le stagioni. Entrambe le svolte rimettevano in pista molti fatti e molte disposizioni d’animo. Già, i cambiamenti. Dipende da che parte vengono e come vengono. In quel caso stavano arrivando in modo fortuito, come se affiorassero progressivamente dal nulla. Nessuno era andato a cercarseli.
Insomma andavo incontro a una pausa, a stare ferma di fronte a un mutamento ulteriore. Per Matt era differente, forse pensava di aggiungere mobilità nel perimetro dei suoi luoghi e orari.
Quando varcai la soglia del seminterrato in cui viveva, mi sembrò di entrare in un posto sacro. Ne’ ordine ne’ disordine. Niente se ne stava lì per caso, si poteva intuire. Un rifugio post-qualcosa per lasciare davvero il mondo fuori. Niente di simile mai nei miei luoghi di passaggio. Allora questa stava diventando la mia avventura. Non più partire da un porto ma approdare al primo molo all’orizzonte anche se non previsto dalle carte. Decisi di rimanere, di adottare quella casa come mio campo base. Matt mi aveva convinta con le sue teorie da romantico, da idealista. Se le mie fughe avevano avuto buone ragioni, al momento sentivo che dovevo fermarmi per comprenderle. Forse dovevo venire a capo di qualcosa accaduto molto tempo prima, fatto che mi aveva portato a vivere come ragazza con la valigia. Questo era uno dei motivi più importanti che mi fece trasferire a casa di Matt la notte stessa.
Andammo di corsa al posto dove alloggiavo e Matt mi aiutò a sistemare i vestiti e il resto in due borsoni più tre sacchetti di carta. I proprietari erano un po’ disorientati da questa partenza repentina. Matt non mancò di intrattenerli su alcune questioni cittadine. Quel tipo di complicità che mi accingevo a condividere. Stavo per essere di nuovo una residente in un posto preciso.
Sempre di corsa Matt ed io tornammo a casa attraverso viuzze e ponti abitati soltanto da un vento prepotente. Una pioggia debole e gelata sui canali d’acqua. Si comincia. Procedere a rotta di collo. Accorciare le distanze con il punto di arrivo.
Al ritorno trovammo un paio di amici che lo aspettavano rincantucciati nel portone principale. Fino alla mattina successiva bevemmo e sonnecchiammo con il sottofondo della voce di Matt che raccontava degli inquilini di quella parte del palazzo. I personaggi del racconto si confondevano con i contorni dei brevi sogni che stavo facendo. Alcuni di loro forse me li sono proprio sognata, non lo ricordo bene anche se li ricordo bene tutti.
Mi sembrava di essere al cinematografo.
All’inizio c’è una stanza in penombra, poi la luce della finestra si diffonde in crescendo. Questa finestra è il vero punto focale della stanza. Sul lato destro si trova un uomo al pianoforte è lui che suona la musica di scena. Vedo un tipo di spalle affacciato al davanzale che forse dice qualcosa forse no. Sì può capire che è molto occupato con la finestra (le sue scarpe sul davanzale : se le è tolte prima ma quando?) Il pianista continua a suonare, alternando passaggi di note a piccoli brani compiuti. Il tipo alla finestra è sempre più assorto, finisce per sporgersi ancora di più. Poi si mette a sedere sul davanzale con le gambe sospese fuori.
C’è una tensione lenta e dolcissima nell’aria. Tutta la scena è solo un preludio, lo capisco in una frazione di secondo. Lucidità e determinazione. Sta tutto nel silenzio del tipo.
Non voglio assistere al momento finale della scena, al salto definitivo.
Esco dalla stanza, dalla sua finestra.
II.
In quella foto avevo i capelli scomposti, vagamente ondulati giù fino a metà schiena. Sorridevo con gli occhi socchiusi. Ricordo benissimo che c’era un riflesso quasi accecante, la luce gialla del sole da un cielo interamente grigio. Sulla terra le strade bagnate a dovere offrivano riflessi vari e nessuna ombra. Matt insistette e non poco per scattarmi quella foto documentaria di me sospesa allegramente fra una pioggia e l’altra. Ricordo che tutti quanti ce ne stavamo sospesi aspettando i rovesci a venire. Intanto ci dicevamo : bisogna acquistare leggerezza, sono le situazioni a chiedercelo. Tenevo le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni e nella posa si erano slacciati tre bottoni della camicetta a intarsi optical. Poi sopra una giacca di velluto a coste. Era o non era una riproduzione fedele? Solo questione dell’inganno fotografico o dello sguardo di Matt. Mi piaceva pensare che allora ero proprio così, come gli specchi mi raccontavano. Quella foto si fermava prima delle caviglie, tagliava fuori i miei immancabili stivali blu. Sorridevo a un Matt che in quei giorni portava un’improbabile giacca da ammiraglio e annunciava a tutti che presto o tardi si sarebbe trasferito sul peschereccio di suo nonno che però non ci abitava più da un pezzo. Lui e suo nonno avevano lo stesso taglio di occhi e le stesse mani, anche se questo non è mai stato documentato con nessun tipo di immagine. Non come me che avevo i capelli scomposti e le mani in tasca durante lo scatto. Nella foto i contrasti erano fortissimi.
Il buio non esiste. Il buio è solo la mancanza dei colori. Non c’è colore senza luce. Il buio vero non esiste. L’assenza di luce, questa sì esiste.
Mi chiedo ancora chi ha visto me un’ultima volta o quella precedente. Capite, sentirsi così invisibile o solo a tratti visibile.
C’è tanta nebbia da queste parti.
Matt sosteneva che la casa era sacra, luogo di riappropriazione individuale degli spazi. La casa come luogo di culto come spazio da difendere. Parlava bene lui che non si era mai mosso da quella città, lui che per tutta la vita aveva girovagato e stazionato nello stesso posto. La casa era diventata per lui la cellula prima di un teatro privatissimo, la sua porzione d’aria custodita da tutto e da tutti. Diceva che quello rappresentava lo spazio base in cui stare da solo o dove riunire gli amici e cominciare una rivoluzione. Storie da romantico, storie da idealista. Mi spiegava questo con precisione, lo spiegava a me che ero da poco arrivata da quelle parti e ci vivevo da turista. Ero a tutti gli effetti una di passaggio che abitava in una pensioncina a conduzione familiare. Non sapevo ancora se mi sarei fermata definitivamente o se sarei ripartita il giorno dopo. Seguivo la mia rotta personale fra chiese e palazzi e masse claustrofobiche. Prendevo delle pause nei caffè durante le ore più calde e sostavo spesso ai tavolini all’aperto, piacevole punto di osservazione sul mondo. Al mio arrivo in quella città niente lasciava ancora presagire l’irrigidimento straordinario del clima. I telegiornali avrebbero accolto l’evento con dovizia di dati sensazionali, quasi non aspettassero altro. Nel frattempo mi fermavo ancora ai tavolini all’aperto e sorseggiavo l’ottimo vino locale. Fu in una di quelle occasioni che conobbi Matt. Cameriere e spazzino erano i suoi lavori fissi, poi per arrotondare si ingegnava di volta in volta con le trovate più svariate. Era un tipo che parlava con tutti. Qualchevolta non si capiva proprio cosa gli passasse per la testa.
Quel giorno Matt aveva appena finito il suo turno al bar trattoria nei dintorni della stazione. Mi fermavo spesso ai tavolini di maiolica rossa. Scambiammo due parole. prima si mise a scarabocchiare sul blocchetto delle ordinazioni, cercando di convincermi a prendere lezioni di disegno da lui per un modico prezzo. Poi cominciò a spiegarmi la sua idea di casa, quello spazio liberato da quanto aveva deciso di lasciare fuori. Un colpo di spugna ed ecco la metratura ideale. Io che da molto tempo approdavo nei luoghi come semplice viandante, mi incuriosivo ad ascoltare spiegazioni sulla permanenza, su un campo base sempre più stabile. Dove il movimento continuo. Dove il cambiamento di stato. Cominciai a guardare Matt senza il mondo fuori.
Il tempo mi ha detto
Non chiedere qualcosa di più
Un giorno il nostro oceano
Troverà la sua spiaggia
Allora abbandonerò i cammini che mi fanno essere ciò che realmente non voglio essere
Abbandonerò i percorsi che mi fanno amare ciò che realmente non voglio amare
Il buio totale non c’è mai : da qualche piccola parte entra un filo di luce che restituisce agli oggetti il loro contorno. Un velo azzurrino serpeggia qua e là. È difficile ottenere il buio totale.
I.
Credo che questa storia si sia svolta in un periodo più freddo dell’attuale, se non sbaglio cinque anni fa. Il cambiamento di temperatura era stato così improvviso che non me ne resi subito conto e per qualche giorno continuai a indossare abiti leggeri, cui sovrapponevo di volta in volta indumenti più pesanti. Non si può giocare con l’escursione termica tanto impunemente e infatti presi una bronchite che ancora mi porto dentro con me stretta.
Il mio nome è Mir e non è affatto uno scherzo. Mir come Mirandolina, forse, o Mir come qualcos’altro non ha una grande importanza. Credete che non è degno di nota, almeno per me. Da tanto tempo ho perso le origini del mio nome, dunque adesso sono Mir e basta. I nomi sono un balletto che conta relativamente : uno può presentarsi con nomi diversi ed essere la stessa persona, oppure girare per il mondo con lo stesso nome e essere persone differenti. In qualche modo mi sono convinta di appartenere al secondo gruppo, ma per quanto riguarda i vari dati di riferimento ho sempre preferito non indagare più di tanto. Non sono i fatti che talvolta parlano da soli, sebbene i collegamenti fra fatto e fatto siano assolutamente opinabili e individuali?
Tutta questa storia potrebbe allora cominciare così.
Eravamo al cospetto di un periodo freddissimo.
Dovevamo prepararci alla meglio.
( una pausa eventuale fra le due frasi dà maggior rilievo al concetto, la ripetizione lo amplifica)
Eravamo al cospetto di un periodo freddissimo. Dovevamo prepararci alla meglio. Rinforzare porte e finestre, sistemare dei salsicciotti di lana per contrastare tutti i possibili spifferi.
In altre parole occorreva isolare le dimore e in un certo senso anche se stessi e il proprio corpo. Uscire e camminare solo durante le ore centrali del giorno. Quelle fatidiche ore di mezzo da molti punti di vista. Diventava necessario prevedere e calibrare gli spostamenti in quell’unico tempo. Il freddo sarebbe arrivato all’improvviso e non avrebbe lasciato scampo agli impreparati. La temperatura aveva cominciato a scendere progressivamente e nessuno poteva dire se e quando si sarebbe fermata, magari bassa a stabile. Bisognava prepararsi alla meglio : rinforzare gli argini e ingegnarsi sui rimedi da prendere se le vie d’acqua si fossero ghiacciate. Poteva accadere davvero o erano soltanto fantasticherie? A scongiurarne il pericolo eravamo in molti.
Il vento soffiava con raffiche violentissime. Forse la temperatura era effettivamente così bassa, forse era il vento a disturbare il nostro habitat interno e esterno.
Ecco come succede. Proprio così. Vivi in mezzo agli altri e ad un certo punto ti sembra di non esserci. Non sei capace di trovare le frequenze giuste per sintonizzarti con il resto delle comparse. Ci sei, sei esattamente lì ma è come se non ci fossi. Allora ti viene il dubbio di non esserci mai stato ( o esserci sato prima con differenti spoglie?). Succede che le persone non ti vedano e ti urtino di continuo per strada o al supermercato o in fila per qualche documento.
Forse ci sono troppi veleni. I veleni possono interrompere la comunicazione. Pause interferenze pause interferenze.
La città dove abitavo in quel periodo è davvero molto particolare, così caratteristica che altre città nel mondo vengono appellate con il suo stesso nome seguito dalla loro effettiva indicazione geografica. Un ossequio che la rende più unica che rara, oggetto del desiderio dei viaggiatori in massa. Questo accadeva in quel periodo, adesso non saprei dire. Da tempo manco da là.
Non sarà cambiata la sua struttura labirintica, fatta di vie d’acqua e ponti, di strade e piazzette che sembrano tutte uguali ma non lo sono, di passaggi nascosti e camminamenti d’emergenza. Il gioco consisteva in un continuo scomparire e riapparire, come se ci fossero gli specchi a riprodurre le immagini e poi a cancellarle. Avevo sempre l’impressione di essere seguita e contemporaneamente di essere io l’inseguitrice di qualcuno. In entrambi i casi l’angolo successivo o quello da poco superato sembravano nascondere il personaggio dell’altro ruolo. La città si ripeteva all’infinito durante le mie passeggiate, almeno fino a quando la temperatura lo permise. Almeno fino a quando girovagare e perdersi non diventò un lusso a proprio rischio e pericolo. Allora il vento accompagnava il viandante, lo trascinava e lo ostacolava. Soffiava frontalmente, dietro, ai lati. Dopo il tramonto aumentava la velocità, impazziva nella traiettoria. Nottetempo le raffiche trasformavano il paesaggio. La gente per strada affrettava il passo per riscaldare gli arti. Io riponevo al sicuro le mani nei guanti e stringevo ancora di più la sciarpa, ma non era mai abbastanza. Le imbarcazioni scivolavano via e producevano altro vento.
Nonostante tutto la città manteneva inalterato il suo volto usuale. L’effetto era quello di illustri anticaglie adattate a parco dei divertimenti. Ogni elemento era pronto per farsi ammirare, per meravigliare, per scioccare. Poi da un vicolo all’altro avveniva lo svuotamento e niente più masse, luci, negozi, richiami di vario tipo. Così il mio gioco immaginario con la città cominciava di nuovo, da sola o con Matt. Appunto fino a quando bruscamente la scena dagli esterni agli interni.
Mi hanno chiuso dentro, non mi hanno chiuso fuori.