Paolo Pagli
Haiku interiori
Nota dell’autore
Premessa
Sono ben note le caratteristiche formali dell’haiku, le diciassette more sillabiche, il kigo, il kireji… Forse per il loro rigore (le infrazioni vengono notate e segnalate, quasi caso per caso) la composizione apparentemente non ha una vera storia semantica. Scorrendo una antologia di haiku, colpisce trovare di seguito autori di secoli diversi, senza che si avvertano contrasti di tono, collisioni nella visione del mondo. La vicenda dell’haiku sembra risolversi in una successione di personalità poetiche che caratterizzano con diversità soggettive uno stesso scenario. Gioca un ruolo la stabilità politica, la fissità di ideali della società Tokugawa? Di fatto incombe il costante rischio della “maniera”, l’esaurirsi di una vera ispirazione, riemerso più volte negli oltre due secoli da Bashō (1644-1694) a Shiki (1867-1902.
Ma in realtà c’è una storia dell’haiku, sottile e non sufficientemente segnalata. La questione è profonda anche per orientarsi nelle vicende dell’haiku “moderno”, cioè successivo a Shiki e di quello, se lo si vuole considerare, “occidentale”. Ricordo un solo punto, fondamentale e per qualche aspetto inquietante.
In occasione del bicentenario della morte di Bashō, nel 1894, ci furono, nel Giappone da poco aperto all’Occidente, solenni celebrazioni. Masaoka Shiki allora ventisettenne, scrisse, su quotidiani, una serie di interventi, poi raccolti in volume, decisamente contro corrente rispetto alla retorica di apprezzamenti incondizionati del Maestro[1] Le apparenti osservazioni critiche sono spesso più contro la tendenza agiografica del momento che contro Bashō. Ma è indubbia, qui e altrove, la predilezione di Shiki per Yosa Buson (1716-1784), più “completo”:
Lo haiku di Bashō tocca solo ciò che è attorno a lui. In altre parole, o consiste in un’emozione percepita soggettivamente da lui stesso oppure è oggettivamente limitato a paesaggi, persone e fatti che lui può vedere e sentire direttamente. In questo c’è senz’altro qualcosa di ammirevole, ma scartare completamente quegli scenari ideali che vanno al di là della portata dell’occhio e ignorare fatti e persone al di fuori della propria esperienza senza mai considerarli come materiale poetico, rende lo sguardo di Bashō molto più ristretto (i poeti più antichi sono tutti così). Tuttavia Bashō è stato un grande viaggiatore, e ha potuto cogliere un’infinità di splendidi temi poetici a
partire dalla sua diretta esperienza. I maestri di haikai venuti dopo di lui non solo si sono sempre accontentati di ciò che avevano già attorno, ma non hanno nemmeno composto poesia al di là della loro esperienza concreta. Si sono cioè appoggiati solo al bastone degli insegnamenti lasciati da Bashō. Per delle rane che vivono in un pozzo il cielo è largo un metro. Viene proprio da ridere.
A ricavare materiale poetico dalla propria fantasia – una fantasia di volta in volta originale, fluida ed elegante, maestosa – e comporre haiku partendo da essa facendo sfigurare tutti gli altri è stato solamente Buson, cento anni più tardi.[2]
La puntualizzazione è corretta. Lo stesso Shiki però, non utilizza particolarmente questo possibile ampliamento dello scenario, se non sul piano lessicale. Ma il cambiamento di ottica è decisivo e solleva anche qualche dubbio: questo intervento della “fantasia” non rischia di offuscare il lampo di verità che ciascun haiku formula e incarna?
Il testo di Buson:
Nella mia stanza pesto
il pettine che fu di mia moglie
nella mia carne un morso
viene citato di solito solo per l’elaborato kigo del terzo verso: il morso è quello del vento di autunno, un richiamo già attestato nella poesia giapponese prima dell’haiku, e usato anche da Bashō. Ma il fatto che all’epoca la moglie fosse vivente non è significativo? Haiku e verità nel reale si sono separati: esiste una realità poetica nella quale l’adeguamento si ricompone?
L’ho trovato segnalato come “curiosità”. In ogni caso indica che qualcosa può ormai essere diverso nel vissuto creativo degli haiku.
***
Perché haiku interiori? Al mondo esterno ho intrecciato l’interiorità materializzata in vesti naturali. Cosi compaiono lo scorrere del fiume, la luce e i suoi cicli astronomici, rocce, ombre alla luce... Non metafore, simboli ma riflessioni/emozioni reificate. E qualche volta le parole indicano davvero gli oggetti nominati: ad esempio quando si parla di alberi indicati col loro nome: la magnolia, il cipresso.
Nell sinopia dell’haiku qualcosa di diverso, con un nome diverso, quindi.
[1] Masaoka Shiki, Bashō Zōdan, 1894 (trad. it. Bashō in frammenti, La Vita Felice, Milano, 2017).
[2] Shiki, Bashō in frammenti, p. 124.
Sono in automobile nei dintorni della piccola città dove abito. L’antica strada svolta tra le colline di un paesaggio sempre infinitamente suggestivo. Poco più di un decennio prima le gelate di un inverno rimasto tristemente famoso avevano disseccato tanti ulivi: negli anni successivi al loro posto si erano fatte crescere piante di girasoli, ora in fiore nell’estate appena iniziata. Rallento per guardare: all’improvviso penso con rimpianto agli haiku che potrebbero ispirare a Matsuo Bashō. Certo, se fosse qui: tre secoli di tempo, migliaia di chilometri di distanza potrebbero venire valicati per il tramite dell’intensità di un paesaggio, la gloria dei girasoli, il mio richiamo/rimpianto di una testimonianza poetica assoluta? In effetti poco dopo lo vedo, Basho, sul bordo della strada. Ignaro delle auto e del pericolo, guarda i girasoli. Sono sicuro che è lui, anche se diverso da tutti i ritratti a stampa che ho visto, d’altronde con fisionomie sempre differenti. Accosto e lo invito a salire: il problema delle lingue diverse è impossibile a risolversi quindi basta non porlo. Avrei tante cose da chiedergli, ma prima di tutto gli indico con riverenza la scena e accenno timidamente l’occasione di un hokku… Ma appare sgomento. “Come posso vedere qualcosa mentre fugge così? Corriamo più veloci di un cavallo veloce: gli occhi non fissano nulla…” Gli ricordo il mare in tempesta, l’isola di Sado, il fiume di stelle, scene rapide, vertiginose… [1]* “Io ero fermo, sulla barca, mossa dalle onde e dal vento… Tutto era naturale, umano… In questo mondo invece, in questo modo, come possono esistere hokku?”
Cerco una risposta, penso a qualche mio haiku suggerito proprio dal paesaggio inquadrato nella rapidità della automobile. Ma posso usare questo nome? Avrei mai il coraggio di offrirli a Bashō? Mi volto, ma accanto a me non c’è nessuno. Sono solo sull’antica via nella gloria dei girasoli della collina.
[1] Matsuo Bashō: «Mare in tempesta/ Sopra l’isola di Sado/ il Fiume di Stelle».
Da Nel mondo
Il vento freddo
sembrate più intense
stelle lontane
Mosse dal vento
– partono cerchi d’onde –
canne del lago
Vecchio giardino:
sempre tante le foglie
della magnolia
Vecchi cipressi
nella luce del sole
screziati d’oro
Avvolti d’ombra
diventate fantasmi
scuri cipressi
Lungo tramonto
Le persone intorno
gloria di luce
Traccia del tempo
un tappeto di foglie
sotto le stelle
Vecchio giardino
tu solo ti rinnovi
colmo di vita
Nitidi, chiari
l’orizzonte, il molo:
non c’è nessuno
La realtà
un vortice di foglie
spinte dal vento
Polvere lieve
sugli anni, le cose
nuove le foglie
Brillano gemme
nel fiume di memoria
sotto la luna
Lo schermo spento[1]
la casa silenziosa
l’ombra sferruzza
Da Fluitazione
Lo stesso vetro
ancora ci riflette
volti diversi
Pozza di tempo
la fanciulla si tuffa
suono d’eventi
Da La via, le vie
Cammino verso
l’orizzonte lontano
alberi, pietre
Stretto sentiero
incrocia solitario
strade battute
Lungo cammino
La meta è la via
sopra, le stelle[2]
[1] È scomparsa l’ultima persona della casa.
[2] 22 aprile 2022: 80 anni
Paolo Pagli è nato a Firenze nel 1942. Dopo il liceo classico si è laureato in matematica nel 1966.
Dopo aver insegnato geometria, logica, matematica, analisi, è diventato docente di ruolo di Fondamenti della matematica fino al ritiro per età.
Gli interessi di ricerca sono stati nel settore della logica matematica compresi gli aspetti storici: ha pubblicato, da solo o in collaborazione, oltre a vari articoli i volumi La verità trasmessa (Sansoni, 1993); Consequentia mirabilis (Olschki, 1996); Una mente algebrica (Quattroventi, 2000); Mente matematica (ETS, 2010). Ha tradotto e curato la Logica demonstrativa di Girolamo Saccheri (Bompiani 2011).
L’incontro con gli haiku è avvenuto presto, al ginnasio, attraverso il piccolo libro: Bashō, Poesie (La meridiana, 1944), e non si è più interrotto. Anni dopo ha pubblicato La rana di Bashō. (ETS, 2006), eco di questa frequentazione.
Insieme all’immenso poema collettivo, totalmente connesso che forgia e racconta un universo alieno (la matematica), esistono gli haiku, pulviscolo di brevissimi enunciati, irrelati, ciascuno intensa sineddoche del nostro universo.