DANIELA GENTILE
Poesie
da Nulla sanno le parole
(Pietre Vive Editore, 2017)
Poco, niente, concede
a noi il tempo, nelle vite degli altri.
Se la parola è un evento
e se solo le azioni, le virtù fanno di noi
qualcosa di simile al ricordo
allora basti scrivere in poesia
le viltà del nostro amore
le gesta eroiche del gatto, in soggiorno
tra le orchidee ancora al sole
il pudore delle comete
la notte in cui ci siamo allontanati.
Le ore in un museo, soltanto,
non sembrano avere avverso destino
e toccare la fine della luce
del tempo con te.
REALIA
Il cielo è sempre violento con noi.
Ci illude che le cose possano passare come passano i
colori dall’azzurro al rosso cupo.
Abbiamo resistito a lungo nel non dirci della malinconia
delle domeniche pomeriggio: ci affezioniamo a colori di
copertine, tazze sbeccate, scontrini stropicciati, qualche
matita.
Miopi verso la cura degli argini e dei confini fragili della
comunicazione, speriamo che i bordi del cuore sfumino
in un magenta delle sei, dopo il temporale.
Ma di aria siamo quasi e si fa esperienza, per caso, la
finestra che chiude le nuvole più in là, prima della sera.
Hai paura del buio, tu?
NEUTRO PLURALE
Parlavamo poco, lo so, dei colori che avremmo poi scelto
per il pavimento, per il ripostiglio dietro la cucina.
E rimandiamo ancora le finestre, gli spifferi di sempre
coperti dai libri – Proust, mi dici, non ci perdonerà –. Ma
neanche io ormai ti perdono e neanche tu.
La Lamarque mi insegna a restare a un passo dalle cose,
Montale a inseguirle, Seneca a non temerle: te lo scrivo sul frigo,
dove mi capita.
SERVABO
Lo stoicismo ha chiesto a noi armi troppo potenti contro
il buio: la neve s’è portata via il freddo, la calma e le tue
sciarpe (mettere ordine in casa, appendere i quadri, gettar
via cartacce esige rassegnata ostinazione) e tu chissà
dove sei. Bugie con gli inchiostri, inganni, inadempienze.
Come quando abbiamo abbandonato il corteo perché gli
scioperi pesavano così tanto sulle nostre mancanze e tu
mi hai comprato dei fiori, ricordi?
L’abbiamo persa la nostra rivoluzione, la fiducia che si
possa cambiare, nella vita, qualcosa: ho almeno lasciato
una traccia, io, nel tuo cuore?
LACRIMAE RERUM
Lo specchio rivela ogni giorno, nel dettaglio, il
trascorrere del tempo. I capelli crescono e tu non scrivi
più ormai.
Ci muoviamo tra gli oroscopi da anni senza che la luna
percepisca i nostri salti, le nostre ambiguità: potrò
guardarti negli occhi quando la luce avanzerà nel suo
giro? Nous vivons dans l’oubli de nos métamorphoses,
diceva, mentre il tè implorava il miele e io imploravo te
di essere forte, di non aver pietà.
Alcune cose, più di altre, fanno male alla memoria:
i n e d i t i
Fabula
Ci pensi mai alla gravità dell’autunno che cade nelle
foglie, all’edera che cresce sui muri o alle finestre, come
tempo che ci chiede spazio?
Le stanze dov’è la nostra vita, in tutto somiglianti a chi
siamo diventati, dicono cronache con poca storia:
potranno mai contare nelle tasche, in fondo ai cassetti, le
assenze in un cinema, quel concerto, una sera sul rapido
per Firenze?
Irrinunciabili miti quotidiani sono gli scarti, gli accumuli
immortali al trasloco. Qualcosa che si oppone al vento e
a tutto questo secco rosso sotto i nostri passi;
qualcosa di tuo, nella vita che vedi.
Fotosensibili
Le lezioni dei tronchi d'ulivo vicini al mare sanno ancora
dirci tanto sullo scorrere del tempo, sui segni che
lasciano i venti, il sale, gli improvvisi freddi.
Se solo fossimo pellicole, in una camera oscura, ancora
in tempo per rendere visibili le rughe e il curvarsi su se
stessi, come prove della resistenza al suolo anche povero,
potremmo forse crescere, contare gli anni senza una
sterile verticalità.
E imparare dai rami, oranti al cielo, a chiedere infinito
aiuto, a farsi bastare l'aria, la luce, gli orizzonti del cuore.
Nome astratto
I cinque sensi ci ingannano sul significato della
conoscenza: non trovano definizione i capitoli chiusi nei
libri, i sorrisi distratti dentro una fotografia, il cesto di
frutta che si fa presenza di noi in una casa.
Il pensiero non diventa storia, non riesce a diventare
neppure biografia nelle occasioni che sprechiamo
prevedendo altre sere in cui guardarci negli occhi.
E se a poco servono le parole di fronte alle concrete
esistenze che incontriamo, abbiamo veramente ricevuto
qualcosa di cui essere responsabili?
Avere riguardo per le piogge, lasciare che un passo possa
ancora indovinarci nel buio: solo questo possiamo.
Daniela Gentile
Laureata in Lettere Classiche presso l’Università degli Studi di Siena con una tesi sul poeta e traduttore Enzo Mazza dal titolo: Dalle carte di un poeta. L’Appendix Vergiliana tradotta da Enzo Mazza: edizione e note. Suo è anche il contributo L’Eneide di Enzo Mazza: la traduzione di un poeta, in «Annali di Studi Umanistici», Università di Siena, 3, 2015, pp. 9-84. La rivista Pioggia obliqua ha ospitato un intervento a cura di Daniela Gentile e Alessandro Fo per il primo anniversario della morte di Enzo Mazza, il 7 febbraio 2018.
Nulla sanno le parole, Pietrevive editore, 2017 è la sua opera prima.
Link al libro:
https://www.pietreviveeditore.it/prodotto/nulla-sanno-le-parole/
Claudio Pasi
Epicedi e altre poesie
Dittico per Marcella
I.
Quando ho detto a mio figlio che eri morta,
ha pianto e poi mi ha domandato: «E adesso
da chi posso imparare a disegnare?»
Così è la vita che finisce.
Sregolando per sempre l’equilibrio
tra dare e avere, dietro di sé lascia
una lista di impegni cancellati,
insolvenze d’affetto, inadempiute
promesse, come insegnare a un bambino
a sfumare un tratteggio di matita,
cenare con le amiche, un capodanno
in Provenza, il cambio degli armadi,
la lezione su Ilaria del Carretto.
Lui – mio figlio – conserva in uno scrigno
di cartone le tue “cose preziose”:
piccoli doni, souvenir di viaggio,
un astuccio di cuoio, una conchiglia,
un galletto di vetro colorato,
la serie di monete fuori corso.
Noi teniamo sul tavolo da pranzo,
ripiegata, una tua stoffa a frange
blu cobalto che hai preso in Guatemala
e una foto scattata a Ponte Vecchio.
Stai sorridendo. È marzo. Splende il sole.
II.
L’altro ieri ho creduto di vederti
lungo la strada che conduce a scuola,
il basco di sghimbescio, la cartella
grigia sul portapacchi della bici…
È che ci viene ancora naturale
controllare se hai chiuso le finestre
o se hai dimenticato in qualche posto
le chiavi o il cellulare, e di mattina
presto a volte magari ci aspettiamo
che ti affacci al balcone, nella mano
la tazzina bollente del caffè.
Ci devi dare un altro po’ di tempo
perché riusciamo a fare l’abitudine
alla tua assenza, ad “accettare il fatto”,
come dicono. Almeno fino a quando
smonteranno i tuoi mobili, verranno
imballati i tuoi quadri, le riviste
e i libri messi negli scatoloni,
ed altri abiteranno la tua casa.
Intanto nel giardino la betulla
continua ad ingiallire. Un pettirosso
svola tra i rami e il davanzale. Il fiore
fiammeggiante e stellato dell’acmea
accenderà di nuovo il tuo terrazzo
per tutta la durata dell’autunno.
Tombeau
Qui, all’altezza della semicurva
dove la rampa d’accesso si immette
nella strada statale ed una traccia
nera segnala il punto di frenata,
scivolò via la vita di Lorenzo,
di diciassette anni, calciatore
e studente dell’istituto tecnico,
dopo l’urto sbalzato dallo scooter
nel campo rosseggiante di papaveri.
Tu, che transiti lungo il rettifilo,
rallenta e guarda il mazzo di gerbere
da qualcuno posato sul guard-rail
e la sua foto, che la pioggia ha stinto.
Natura morta con fruttiera
per Cinzia, ricordando suo padre
nel secondo anniversario della morte
Finché visse, tuo padre ci portava
ogni autunno la frutta del giardino –
grappoli d’uva bianca e nera come
pasta di vetro, gli acini macchiati
ancora dall’azzurro del solfato,
le pere Kaiser rugginose, quelle
Abate con la buccia ricoperta
da chiazze brune simili ad efelidi,
piccole mele, alcune ticchiolate,
e fichi sanguinanti e melagrane
dai semi che sembravano rubini –
che tu mettevi in ordine in un cesto
di vimini, al centro della tavola
o sul mobile lungo di cucina,
e che alla luce fioca che filtrava
dalle fessure delle tapparelle
erano semicerchi ellissi anelli,
forme senza colore, vuote lettere
di un alfabeto ignoto, senza suono.
Anniversario
Il 24 giugno, San Giovanni,
quando un tempo accendevano nei campi
fuochi pagani e il sole che iniziava
a declinare lentamente verso
l’autunno si fondeva con la luna
come una fiamma sciolta dentro l’acqua,
andavano nei boschi o nei frutteti
alla ricerca di erbe prodigiose,
iperico fiorito ed artemisia,
e bagnavano gli occhi di rugiada
raccolta a mani nude nella breve
notte di mezza estate, ultima notte
in vita di mio padre.
La porta
Si apre la porta dell’ambulatorio
veterinario. Uno trascina fuori
un carrello con sopra un sacco nero
di plastica legato con il nastro
adesivo, di forma oblunga, inerte,
che oscilla al movimento delle ruote
sul piancito sconnesso. Altri gli vanno
dietro come in corteo, fino al furgone
parcheggiato col bagagliaio aperto.
Afferrano le zampe. Ancora pende
dalla maniglia una museruola.
Un nido
Lassù, nel folto del fogliame della
betulla, all’improvviso si consuma
una tragedia ignota. Un fruscio d’ali.
Due gazze che si avventano tra i rami
e gracchiando divorano le uova
lasciate incustodite. Cade a terra
la coppa vuota del nido. Frantumi
di guscio sparsi sopra i sassi e l’erba,
come schegge di vetro. Un merlo vola
come folle tra l’albero e la gronda.
Non manda più il suo fischio modulato,
ma uno strido dolente, acuto, inane.
Casa di riposo
Gli studenti che tornano da scuola
e si avviano vociando alla fermata
dell’autobus – la soma degli zaini
sembra quasi leggera sulle spalle –
passano a frotte lungo il marciapiede
che costeggia la casa di riposo.
È questa l’ora in cui mettono i vecchi
tutti in fila davanti alle vetrate,
sulle sedie a rotelle o su poltrone
di vimini, a osservare dalla verde
penombra delle piante, come pesci
in un acquario, il traffico all’incrocio.
Stridono i freni, frusciano le scarpe
di gomma sulle strisce pedonali,
sbucano magri corpi dalle felpe
e dai pigiami azzurri. I loro sguardi
si incontrano distratti, gli uni e gli altri
ignari della vita e della morte.
Paesaggio lagunare
Mentre aspettiamo sull’imbarcadero
il vaporetto per la terraferma,
qualcuno indica un punto in mezzo al cielo
offuscato d’agosto, che si muove
basso sull’orizzonte e vola sulla
distesa di metallo incandescente
della laguna all’ora del tramonto.
Viene avanti sfiorando le barene
e i murazzi, le briccole forcute.
Non è un gabbiano né un airone, sembra…
più da vicino sembra quasi… sì,
è un pappagallo della specie ara
ararauna con le ali blu cobalto
e il piumaggio del petto giallo ocra.
Forse sarà fuggito da una gabbia
o da un’altana, rotta con il becco
la catena che lo legava al trespolo.
Si libra sopra noi lanciando un grido
rauco e beffardo, passa tra le cime
nere dei pini e la diga foranea
e poi scompare, verso il mare aperto.
Figure nella pioggia
Uno, nel nido tiepido dell’auto
parcheggiata, mentre ascolta la radio
o sta telefonando oppure parla
(se esiste) al passeggero, vede oltre
il parabrezza appannato qualcuno
che cammina schivando le pozzanghere,
senza ombrello, con un cappello floscio
gocciolante e una giacca impermeabile,
e tiene un cane al guinzaglio, dal manto
bianco avorio e castano, che si ferma
ad annusare gli alberi bagnati
e fruga tra le foglie e raspa in mezzo
alle aiuole autunnali, indifferenti
entrambi allo scrosciare della pioggia
sull’asfalto, obliqua contro i fari
anabbaglianti, e entrati poi nel buio
scompaiono ad un angolo di strada,
sconosciuti al suo sguardo, perché quello
che lui ha intravisto appena sono io.
In bicicletta
Ma forse sono io sono quello che vedi
dalla finestra oppure dalla parte
opposta della strada, che pedala
in sella ad una bici «Umberto Dei»,
nera, freni a bacchetta, di modello
antiquato, però tenuta bene,
le cromature del manubrio appena
arrugginite, e sterza per scansare
una buca o una scheggia di bottiglia
che brilla sull’asfalto, poi prosegue
fendendo con la prora della ruota
il mare crepitante delle foglie
dei bagolari, accumulate lungo
il marciapiede e infine, dove il viale
alberato va verso la stazione,
scomparirà alla vista, come un’ombra
non esisterà più, dopo la curva.
Casa di campagna
Il primo tratto è lungo la ciclabile
che corre sul tracciato della vecchia
ferrovia militare, pedalando
sotto la volta a botte dei sambuchi,
tra le mani protese delle felci,
tra le rose canine e le robinie,
con i rovi che graffiano le gambe,
ma dopo il tunnel d’ombra proseguire
per il percorso delle risorgive,
in un paesaggio di villette a schiera,
di serre e capannoni industriali,
fino a una casa con i muri esterni
macchiati di fuliggine e di pioggia,
il camino sporgente, le ringhiere
arrugginite e di fianco una targa
che a stento si può leggere – la casa
di campagna di Giovanni Comisso.
Villa vesuviana
Noi la vedemmo prima del restauro,
molti anni fa, la casa dove Giacomo
Leopardi scrisse La ginestra, quella
Villa Ferrigni poi denominata,
ad uso del turismo letterario,
delle Ginestre, appunto. Allora aveva
un aspetto negletto: sotto il portico
mucchi di laterizi sbriciolati,
sacchi di plastica e siringhe in mezzo
all’erba del giardino, carte sudice,
graffiti e scritte a spray sulle pareti.
Ma lì davanti il mare e all’altro lato
la mole del vulcano. In alto un ago
di meridiana e, a lettere sbiadite,
il breve motto Sine sole sileo.
Istantanea
Seduto qui in giardino. Fiori viola
pallido di lavanda, polverosi.
Piante appena annaffiate. Un merlo salta
da un ramo all’altro, con un filo d’erba
stretto nel becco. O con un insetto.
Scie di aerei si incrociano nel cielo
diradando. Le antenne sopra i tetti
come lische di pesce. Da lontano
il rombo di una moto. Ma anche questo
adesso è già passato, irripetibile.
I testi seguenti sono già stati pubblicati, alcuni con versione e titolo leggermente diversi:
- Lettera ritrovata, in La casa che brucia, Book Editore 1993;
- I mûrt, in «Frontiera», n. 6, ottobre 1997;
- La manifestazione aerea del 1° maggio 1968, Prefigurazione di un paesaggio, Passeggiate invernali, Nella fabbrica, Per A., apicoltore dal 1990, in «Caffè Michelangiolo», anno VIII, n. 3, settembre-dicembre 2003.
Le altre poesie sono inedite.
Di ragazzi e ragazze
Sopra una foto di sconosciuta
Chi è questa che viene qui ritratta
al centro dell’inquadratura, in mezzo
alle erbe alte di un giardino incolto,
pettinatura ad alveare, come
detta la moda del momento, e tiene
un fastello di rose bianche in grembo?
Dietro di lei un albero di acacia,
con il tronco gibboso ed una chioma
di infiorescenze pendule, fruscianti.
Oltre la recinzione, sullo sfondo,
si levano cataste di legname
(di quella segheria che poi andò a fuoco)
simili a torri. Odore di corteccia
nell’aria fresca della primavera,
mentre ogni cosa appare illuminata
dal suo chiaro sorriso di ragazza.
La manifestazione aerea del 1° maggio 1968
Dietro le nubi basse, oltre la linea
piatta dell’orizzonte è ormai scomparsa
la squadriglia acrobatica, lasciando
solo la sorda eco dei motori
a reazione e geometrie di fumo
che dissolvono piano. A un tratto s’apre
lo stuolo rosso dei paracadute,
emisferi di arance dentro il vaso
rovesciato del cielo. Qui, nel giorno
festivo, allentate le cravatte
sulle camicie bianche di bucato,
le notizie che arrivano, di guerre
asiatiche o da città in tumulto,
sono scene di cinema. I ragazzi,
con i calzoni corti, hanno rivolto
il naso verso l’alto, ignari ancora
della vita futura che li attende
e a cui non sfuggiranno. Con lo sguardo
intento indovinano le oblique
traiettorie degli uomini sospesi
a invisibili fili, là nel vuoto.
Intanto, sopra il campo d’aviazione
improvvisato in mezzo ai girasoli
e fra i cardi selvatici, in silenzio
come farfalle planano gli alianti.
Le vacanze estive del 1969
Insieme fino dal mattino, molti
undici-dodicenni del paese
passano quell’estate dello sbarco
dell’uomo sulla Luna alla piscina
comunale. Battendo con le gambe
ossute l’acqua, nuotano da sponda
a sponda alzando nuvole di gocciole
dorate. Poi si slanciano dai blocchi
di partenza, afferrano scalette,
corrono in equilibrio lungo i bordi
scivolosi, nel gioco a inseguimento
a cui hanno dato il nome di “storione”,
o a volte si contendono una camera
d’aria di camion che galleggia nera
e luccicante al centro della vasca.
Hanno gli occhi arrossati per il cloro
quando cotti dal sole, infine, e stanchi
srotolano sul ruvido cemento
grigio della terrazza una scacchiera
di asciugamani colorati e fanno
merenda con un pezzo di crescente.
Incuriositi ascoltano i ragazzi
più grandi che corteggiano ragazze
in bikini fiorati, sorridenti
alle inintelligibili parole.
Ma sanno già che verrà presto il tempo
per loro di cambiare e che saranno
anche loro persone separate,
e proveranno il senso amaro e dolce
di qualche cosa che finisce. Intanto
arrivano nel tardo pomeriggio,
quasi all’orario di chiusura, mentre
il juke-box suona la canzone Un angelo
blu, i tuffatori. Avanzano uno ad uno
spiccando il volo giù dai trampolini
flessibili o dalla piattaforma,
come uccelli che rapidi si staccano
da un ramo e si disperdono nel cielo.
Il più abile di tutti (a lui la sorte
riserverà una vita breve) tende
le braccia in alto, punta i piedi, inarca
la schiena, avvita il corpo su se stesso
e, in posizione di carpiato, resta
per un istante immobile nel vuoto
prima di entrare dentro al nulla azzurro.
Prefigurazione di un paesaggio
In fila indiana, curvi sui pedali,
svoltiamo per la strada secondaria
che assolata e diritta arriva allo
stabilimento idrovoro, tagliando
lungo le casse di colmata. Intorno
ondeggia la lanugine dei pioppi
e s’impiglia alle ruote e ai parafanghi,
mentre passiamo l’assito sconnesso
del ponte Bailey. Quindi procediamo
a piedi dentro la boscaglia, sotto
una cupola ombrosa di robinie
e di salici, in mezzo alle ceppaie
scavate dal lichene, fra un groviglio
di valvole di pompe arrugginite
e tronchi attorti e tubature come
radici emerse dalla terra, fino
allo spiazzo da dove una condotta
si snoda ad arco oltre il bacino vuoto
della chiusa.
Questo paesaggio immobile,
con meraviglia un giorno lo vedremo
rappresentato uguale in un dipinto
(di Paul Cézanne, Le pont de Maincy).
Fermata al chiosco dei cocomeri
Hanno lasciato i loro motorini
(Testi, Malanca) in un fossato asciutto
lungo la strada provinciale, e adesso
stanno seduti sotto la tettoia
di una baracca di assi di recupero
e lamiere ondulate. Dentro l’acqua
ghiacciata dei mastelli, come boe
galleggiano i cocomeri. Bagliori
di zanzare e falene che si incendiano
nelle trappole elettriche. I coltelli
scavano nella polpa fino al bianco.
Mezzelune di scorze, righe nere
di semi sparsi sopra le cerate.
Dopo la curva un autocarro accelera.
Il rombo sordo del generatore
a gasolio. Ancora un’altra estate
che declina. Ma oltre questo slargo
di ghiaia e polvere, oltre questo cono
di luci al neon, continua il buio. Passa
tra le pioppaie un fremito di vento.
Passeggiate invernali
Sabato pomeriggio, dalle case
isolate fra i campi dove oscillano
involucri di nidi in cima ai rami
spogli dei pioppi oppure dai quartieri
residenziali, arrivano nel centro
del paese gli adolescenti, avvolti
in berretti di lana e lunghe sciarpe,
allineando sulle rastrelliere
le biciclette. Tutti insieme vanno
verso i giardini pubblici, le voci
per pudore sommesse, ma le dita
s’intrecciano irruenti nelle tasche
dei cappotti di loden, suscitate
da un batticuore nuovo. Così tu,
che porti in questa nebbia di gennaio
immagini sognanti di savane
e di leopardi scesi dalle alture
africane, le tue febbri frequenti,
capelli biondo cenere e bottiglie
di whisky di tuo padre, adesso entri
dentro di me come un racconto vero,
con un tremito ancora senza nome.
Ragazza del 1975
Oggi è un giorno di vento e sole, quelli
che preferisci, quando in motorino
passi lungo le rogge e gli stradelli
della campagna centuriata, fino
al sedile di pietra di un giardino
tramutato in rifugio, ai bianchi ombrelli
dei sambuchi fioriti lì vicino.
Tenendo in equilibrio fra i capelli
e i pensieri gli occhiali scuri, le algebre
misteriose dei sogni e degli eventi,
il nastro color fucsia ed una nuova
luce che spande piano dalle palpebre,
trepidante prepari la tua prova
generale alla vita e ai sentimenti.
Capodanno 1976
Faceva così freddo a mezzanotte
sulla terrazza del Kurhaus… Ti misi
la mia giacca di lana sulle spalle.
Fiato fumante dalle nostre labbra
alle nostre parole. Gli arabeschi
dei fuochi d’artificio. Il tuo vestito,
di seta verde, fuori moda. Poi
la casa di tua nonna, di cognome
Wagner (era una vedova di guerra,
il marito caduto in Normandia).
«Gut, ganz gut» ripeteva. Nella stanza
il cesto delle mele, le candele
profumate, le coltri di piumino.
Poi tu lasci cadere la coperta.
Poi la strada in discesa, il giorno dopo.
Lastre di ghiaccio. Il campanile a bulbo
e le cupole d’oro della chiesa
ortodossa. L’odore della neve,
il bar della stazione.
Questo è quello
che mi ricordo. Come ormai è lontana
quella storia d’amore… Addio, addio.
Nella fabbrica
Ogni anno ritornano i ragazzi
d’estate a lavorare nella fabbrica
sfolgorante di luci, fra le nubi
tumide di vapore che sprigionano
da ciminiere erte come guglie
di cattedrali, galleggianti nella
mezz’aria della notte. Nel fragore
degli impianti meccanici, tra i grevi
effluvi delle polpe, da qui osservano
la radice terrosa della bietola
mutarsi in bianchi grani diventando,
a fasi successive, fluido ambrato,
glutine, magma incandescente e poi
cristallo. Sopra una rete d’amianto
sobbollono le capsule, miscelano
soluzioni e reagenti e sui flaconi
scritti a mano rivelano le formule
di deliri praghesi. E mentre guardano
i composti aggrumare lungo il vetro
ricurvo dei matracci, nelle beute
dove i fanghi decantano, il mercurio,
il blu di metilene, il fuoco, i liquidi
al punto di viraggio, anche le loro
vite stanno cambiando, trascinate
da una tenue vertigine, da un flusso
appena percettibile nel lento
oscuro decremento delle cose.
L’ondata di freddo del gennaio 1985
La mattina del 13 gennaio si toccò, in una frazione di Molinella,
in provincia di Bologna, quella che sarebbe stata la temperatura
più bassa registrata nella Pianura Padana durante l’inverno 1985: -28,8 °C.
(da un bollettino meteo)
Anche noi quella volta abbiamo avuto
un animo d’inverno, quando il bianco
della terra svaniva dentro il bianco
del cielo e l’orizzonte era segnato
dalla linea indistinta dei pioppeti
incrostati di ghiaccio. Nessun suono
arrivava dal gelo dei canali,
nessun male dal turbinio dei fiocchi
che vorticava sopra la pianura,
ma riflessi di brina, effetto albedo,
le fredde infiorescenze del cristallo.
Sulla via del ritorno, ormai scomparse
le nostre tracce impresse nella neve,
mentre, noi stessi nulla, guardavamo
il nulla che era, il nulla che non era.
(da Wallace Stevens, The Snow Man)
Lettera ritrovata
«Gennaio, i fili della memoria
e delle cose…» avevi scritto,
perché solo il presente non poteva
dire tutto l’incanto della neve,
ma il passato senza alcuna forma
o il futuro ancora senza forma
sono invece il tempo di un paesaggio
presunto, di un effetto di luna
divenuto astrazione. Io sarei stato
dove adesso tu eri. I lampioni
arcuati del viale attenderanno
il disgelo imminente, alberature
di navi sospese alla fonda.
I mûrt
a GP in memoriam
T’arcórdat, Pèval, l’û atac ai filèr
asvén a la ca vècia, al fói di clur
ròssi a la fén d’utòbar, ’l mèis ad znèr
con l’aqua tròvvda e zlè int i masadùr,
i fûgh impiè a la lunga dal frutèr,
al falésstar cmé ucc’ in mèz al bur
vgnir só dal cô di èrzan, nó a fumèr
lughè dri da la zèda o ad dòpp a un mur,
e pò l’udòur dla pióva in vètta al strè
e i dé dla galavérna quand la criv
al râm dal fiòpi e la pèr quèsi ’d vlud?
Pr i mûrt al tèimp e i quî a ién tótt vanzè
acsé cum’i éran. Par nuètar, i vîv,
incósa al se dscanzèla, al dvèinta vud.
I morti: «Ti ricordi, Paolo, l’uva appesa ai filari / vicino alla casa vecchia, le foglie dei nocciòli / rosse alla fine d’ottobre, il mese di gennaio / con l’acqua torbida e gelata dentro i maceri, // i fuochi accesi lungo il frutteto, / le faville come occhi in mezzo al buio / salire dal fondo degli argini, noi a fumare / nascosti dietro la siepe o addossati ad un muro, // e poi l’odore della pioggia sulle strade / e i giorni della brina quando copre / i rami dei pioppi e sembra quasi di velluto? // Per i morti il tempo e le cose sono rimaste tutte / così com’erano. Per noi, i vivi, / tutto si cancella, diventa vuoto.»
Per A., apicoltore dal 1990
...casus apibus quoque nostros
vita tulit...
(Virgilio, Georgiche, IV, 251-252)
Ti ringrazio di avermi regalato
questo vaso di miele, granuloso
e compatto, che le tue api hanno
distillato dal nettare dell’erba
medica e del tarassaco, vagando
sopra le biolche e i fossi di drenaggio,
e che poi tu hai staccato dalle arnie
inondate di fumo con la lenta
pazienza del dolore, perché dentro
è come se vi stessero racchiusi,
insieme ai fiori, anche tutti i volti
di coloro che apparvero e disparvero
qui, nella terra dove siamo nati.
Ultimi giorni di dicembre
A cosa stai pensando mentre guidi
adagio la tua macchina leggera
che brilla nel paesaggio orizzontale
di fine anno, inconsistente, astratto
per chi viene dalle città animate
dove rapidi sono i mutamenti
dello sguardo e disuguali e mobili
gli scorci? Questo manto luminoso
di brina sembra un nulla che continua
un altro nulla, e quando sbagli strada
e al telefono ti indico il percorso,
sento che sto spiegando la mia mappa
privata: un gruppo d’alberi sparuto,
un incrocio, la casa cantoniera,
il macero che appare oltre la curva.
Forse è un destino lento, che nessuno
può scegliere e che assegna le persone
ad un unico luogo, inconsapevoli.
Gli anni
Eheu fugaces… labuntur anni, è stato
scritto e io a questo penso quando incontro
in un casale di campagna certi
vecchi amici. Sotto le chiome delle
acacie insieme celebriamo il rito
agreste della carne sulle braci
ardenti, i frutti della terra, il pane,
il vino che fa rosse le tovaglie
e che tiene lontano le onde stigie.
Parliamo tra di noi come se fossimo
ancora quelli che eravamo, e intanto
fuggono scivolando i nostri anni
e andiamo insieme verso un fiume nero –
impiegati di banca, commercianti,
artigiani, operai, assicuratori.
La notte estiva scende dolcemente,
la ridda di zanzare si dilegua,
è più sommesso lo stridio dei grilli,
più flebili le voci, mentre guardo
in loro e in me la vita che va via.
(da Orazio, Odi, II, 14)
Claudio Pasi
Ha pubblicato la plaquette di versi In linea d’ombra (1982) e la raccolta La casa che brucia (1993). Altre poesie sono successivamente apparse su varie riviste cartacee e online tra cui, di recente, «Poeti e Poesia», «Soglie», «Pioggia obliqua», «Samgha». Ha collaborato a «Poesia», a «Testo a fronte» e ad altre riviste con traduzioni da poeti antichi e moderni. È da poco uscita una traduzione inglese di alcuni testi editi e inediti intitolata Observations / Osservazioni, a cura di Marco Sonzogni e Tim Smith, Wellington, Seraph Press, 2016.