ELEONORA PINZUTI
Poesie
da Con Figure, Editrice Zona, Genova, 2018
Topoi
(o le radici)
Se quercia fossi stato o alloro almeno,
Rose mirto viole le piante sacre
A Venere le avrei donato
(F. Buffoni)
Herstory
La ruota si mangia il fango stamattina,
fra serti di brina, sassi, un suono d’altalena.
La lena di chi s’affanna nella corsa.
Non è niente, questo andare.
Solo la vita che
gioca il suo mestiere,
fin dove non traspare:
una legge che tiene tutti
(non la ricorderemo). Poi scompare.
E mentre mi figuro in questa
tela, come tutto, sfumo. Ma in tanto
lo spago di Cloto lavora carne viva
co’ suoi lacci.
E incontro una signora che si lava
il viso alla fontana, si immerge nella piana
verde: forse attende.
Mentre si stringe le fasce (quasi bende)
sui polpacci.
Fu allora,
il Tempo – troppo. Perché intatto.
Minaccioso, ingombro,
gravido di peso,
di un infinito giorno esposto,
gonfio, appeso.
Dissiparlo era in fondo un gesto
che marcava indifferenza,
la pretesa d’essere senza norme o
passaporto.
Il non voler prender posto:
la protesta per l’assoluto
che disertava il giorno.
Volevo essere, è certo.
Ma qualcosa d’altro,
non ancora morto, non domo,
non liquefatto a contatto del marmo,
della strada, dell’asfalto.
Gorgoneion
(l’amore)
portavo il tuo nome come una bandiera
(M. G. Calandrone)
In n’y a pas là sublimation, comme le veut
une formule décidément malheureuse,
et insultante pur la chair elle-même,
mais perception obscure
que l’amour pour une personne donnée,
si poignant, n’est souvent qu’un bel
accident passager…
(M. Yourcenar)
Omen – Gorgoneion, 2003
Guardai il Partenone,
con Marco, la prima sera ai piedi
dell’Acropoli.
In mano il Motorola con la foto di lei, non sola
(scattata in fretta, fingendo una prova).
La sentivo, allora, nella brezza del Pireo,
fra le stelle della Grecia e il busto austero
di Adriano fisso proprio al centro dell’agorà.
Il mio capire, con preveggenza delfica,
che sarebbe passata
(atrocemente)
di là.
Màstaba
Chissà come o secondo quale trama
ti ho amata. Davvero.
Come ama un cavaliere, un dolce levriero,
un folle guerrigliero.
Ho creduto – per tratto – tu fossi clavis,
vocatio, schema di pensiero.
Che mappe si celassero fra le ciglia, sui nei,
nelle pieghe sottili
dei tuoi verbi,
dei tuoi monili.
Che vi fosse futuro (nostro, quotidiano)
oltre il perimetro di muro spesso.
Di te oggi non resta
che un calco rotto
(pompeiano)
di gesso.
Ti ripenso in tanto:
con le mani in tasca, lo zaino sulla spalla destra,
la risata da ragazza.
Il bene che ti ho voluto (vero)
ancora mi mantiene il segno
di ciò che fosti
a me – in quella primavera di pesco,
cara.
Di te vedo ancora – per sempre –
quel tuo passo marinaresco.
Grandmother
(la morte)
un’esistenza, una tenerezza, che sopravvivevano
in me come le avevo conosciute,
quali le avevo conosciute, cioè fatte per me.
(M. Proust)
«E la Lillona? Che dice la Lillona?»
Se esistesse uno spazio, un tempo rovesciato,
il ribaltarsi della strada
il selciato scuro del portone
tutto sarebbe intatto, non toccato:
i due squilli, le tue calze e le marie col tè la mattina
e la bimbona e la bimbina
e la tua testa che spunta dalla prima finestra
a sera, per controllare
se vedi la piccina venire dal mare...
se non fosse così meschina la materia
quanto rideremmo ancora, dei mie calzoni troppo larghi,
di qualche cretinata da filo d’aggento.
«Ecco, oh, ora sì» assentivi convinta
dopo un po’ di tempo. E, mentre
parlavi, sistemavi un pupazzetto
sul ripiano, dicendo, piano,
quel che ancora sento...
dio, nonna, come è straziante,
parlarti da così lontano.
Con figure
tra figure d’indugio e d’ansia siamo scesi…
(M. De Angelis)
Memorie dal sottosuolo
1.
Ho incontrato per caso, oggi,
Bruno Biagetti. Mi guarda da quell’otto settembre
dell’89 infisso nei caratteri del suo necrologio
letto in fretta dalla corriera pullman che mi portava
all’esame di riparazione.
E ora, mentre attraverso le tombe infisse in terra,
profonde come il niente che affetta
l’erba, i ciottoli, le scritte,
lo vedo quasi sorridente,
spuntare in foto a colori
dal cono del tempo,
con le sue orecchie diritte.
2.
Sento ovunque il ticchettio del bastone
sulla ghiaia, oggi. I vecchi, prossimi al salto, vengono
più spesso. Quasi a rendersi conto con i propri sensi
dei posti, a farsi il luogo familiare, così prossimi
ai congiunti.
Sembra forse meno nera l’ombra, meno freddi i tocchi
di ciò che si chiama morte,
se ci si prepara per tempo, se giunti ai punti,
al nero spesso,
ci si abitua prima
gli occhi.
Minucius Lorarius
Lo incontro,
questo giovane legionario
infisso in marmo di poco conto,
vestito di tutto punto:
la bella cotta di cuoio, le caligolae, l’oplon, il gladio.
Si chiama Minucius Lorarius,
è nato sotto Silla e
chissà se morto nelle guerre di Gallia,
o altrove, sul limes romano,
lontano dal tempio di Vesta, dai Rostri, dalla Via Sacra.
Con indosso una cerchia di capelli mossi,
la posa orgogliosa, i calcei e
lo sguardo fisso.
Sembra quasi che dica, da millenni
“Honesta Missio”,
quale che sia stata o fosse.
Sacrificato agli Dei familiari e all’Urbe,
intarsiato, con la gloria
dei suoi vent’anni,
in questo cippo.
Felicitas
La felicità, per essere vera,
deve avere un'aria distratta.
Essere lieve. Facile
come quando bevi l'acqua.
Poesie inedite
Le poesie d’un epoca sono in parte tutte uguali,
hanno in fondo la stessa aria di famiglia,
gli stessi versi pari,
l’accento di settima o la rima che
rintocca alla parossitona
della bocca.
Come allora, nelle foto di gruppo
fatte a scuola,
dove tutti si porta la stessa
marca di calzoni,
la scarpa solo di colore un po’ diverso,
l’identica etichetta che spunta chiara
dal bordo roso della maglietta.
(il guaio è forse questo:
non c’è mistero che dura,
in nessuna fioritura).
Venezia
Ho rivisto Venezia
-in un giorno d’inverno-
brulla d’acqua, senza sole,
quasi in tempesta:
nonna non c’era
da poco.
Eppure, sulle scale della Basilica, aggrappata alla quadriglia
che venne da Costantinopoli l’anno mille
mi sembrava di vederci ancora,
quando penzoloni sulla Piazza
ci si stringeva alle colonne.
Ferme e quasi in posa
(delle Grazie alunne)
come nei quadri
del Giorgione.
Oggi mi sveglio.
È marzo, dice il calendario.
E come il pesco tiepido che abbraccia
la finestra del suo ufficio,
anch’io me n’esco, mi porto a spasso.
Prendo la bicicletta e mi sorpasso
in questa pacatezza di domani.
Vedo ancora le sue mani. Le sogno a tratti. Con quelle unghie corte, mangiate mentre corregge bozze, il taglio sul gomito del braccio.
Lo so che invecchio (è certo):
lo vedo scritto nelle pieghe del corpo, nella pelle già più
lenta, nella grana dei denti. Ma so di avere adesso
indosso tutto, le varie incarnazioni, le mappe prese o perse
il senso certo delle proporzioni.
E, nella riserva
dei giorni, godo l’esserci
puro del sasso
trascinato in fondo allo spiazzo,
a respirare l'erba.
Eleonora Pinzuti è Dottore di Ricerca in Italianistica, saggista e poeta. Sul versante scientifico, ha pubblicato studi in miscellanee e riviste italiane e straniere, fra le quali «Filologia e Critica», «Cahiers d’études italiennes» e «narrativa» su autori come Bassani, Yourcenar, Proust, Tabucchi, Boccaccio, Scego, Dessì, Corti, Sontag, Bonagiunta Orbicciani e Cellini. A sua cura Bestiari di genere (Sef, 2008), Marguerite Yourcenar sulle tracce “des accidents passagers” (Bulzoni, 2007) e l’edizione critica La Baldassarra o la Comica del Cielo di Giulio Rospigliosi (in Melodrammi Sacri, Studio Editoriale Fiorentino, 1999). In preparazione la raccolta di saggi Finzioni di Genere. Poeta e scrittrice pubblica il libro di racconti Terra (Furetto Edizioni, 2001), e l’anno dopo esordisce come poeta con Tempi Eversi (Crocetti, 2002), partecipa alla XI Biennale degli Artisti dell’Europa e del Mediterraneo ed è presente in antologie e riviste quali Crocetti, Zona, "Semicerchio", ChainLinks, City Lights, Fara Editore. Suoi testi sono apparsi in riviste quali "Mosaici. St.Andrew Journal of Italian Poetry" e "Poesia. Rivista Internazionale di cultura poetica". Ha pubblicato Esodi (Poesia Contemporanea Undicesimo Quaderno Italiano, Marcos y Marcos, 2012) e Con Figure (Editrice Zona, 2018). E' tradotta in inglese e serbo.