SENZA PERMESSO
Smith edizioni, 2020
(disponibile su www.aroldomarinai.net )
senza permesso
sette secondi e poi otto
possano bastare a doppiare il capo
riusciremo, sta’ sicuro, in altro lato dei mondi
ad accarezzare le circonferenze imperfette
con un morbido tatto
scivola scivola come è dolce e buono questo sonno
dopo posizioniamo il mondo in un tappeto
tranquillo e sorridente come un bimbo
via via andiamo
adesso andiamo a attraversare
fa freddo qui
decolliamo e spaziamo
voliamo questo mondo e l’altro
quanto tempo che manca
che parla
come si fa che questi anni stanno
in rapida successione che non tieni il conto
noi eretici e zingari
noi cuore gonfio che scoppia
noi cuori canterini e soffici
noi scivolosi che proviamo sempre
noi la gioia le sconfitte
ho sempre raccontato il mio tempo
non smetto mai di farlo
il mio tempo è personale
il mio tempo è storico
lo specchio mattutino delle eleganze
quando gli ultimi fuochi
slittano in continuazione
rimandati avanti e indietro, a destra a manca
sulla strada sull'asfalto dove siamo
per ogni rito del giorno hanno petardi e coriandoli
o candele per cuori grandi
che si accendano pure a decine di angoli
le attese sono elettriche un milione di volte
la via è libera ma ho perso il nome dei giorni
i ragni mangiano le mosche
gli episodi in corso si macchiano
i tubi dell'acqua si intasano
i piatti si scheggiano
tutto lo squallido è in un circolo come una lavatrice
è così facile cadere, io cado sovente
per mancamenti e ritardi
senza permesso
un nome più nomi
quanti legami sono come viaggi
si parte si incontra
bellezza dolori tremori
poi era questa la soglia
per ritornare per salutare
gli andamenti e scuri di metà estate
come andromeda lassù
conversazioni amabili
ammiccamenti preoccupazioni
dentro voci spente voci appannate
abitiamo stanze elementari
mastichiamo tenere gioie nostre primizie
conserviamo idee su pellicola e fermo immagine
un cuore greve e va in corsivo
carezza e tentazione
morbidamente mettimi fuori
dodici sono un bel ciclo,
i nostri idilli sono amori sani
e quelli altri a bocconcini
quanto un lecca-lecca
quanto un pianoforte pieno di biglie
quanto manca a sole, tramonti, erbe
ancora vanno ruote che girano
e resta da chiedersi
dove i karma si avvicendano
si spengono sconsolati
queste terre che sono con noi
terre affollate di viaggio
viaggi affollati di terre
ora cominciamo a rincasare
a volgere in tenerezze e ridondandi castelli
e tanti musicisti,
una banda di angeli per me
mente eccentrica, cuore battente
tribali che siamo stati
a celebrare o seppellire i mali
siamo ancora in tempo
quando sgridiamo il fato
e chiediamo poche grazie
appaganti
le tregue allora non sono trappole,
ci sono tregue come lampioni lungo il viale
intervallano spazi e motivi e i tanti guai
un sorriso che dura
due o tre respiri profondi assolutamente
quanti momenti blu e pure occasioni
ci possono essere poi
altri bei giri di danza
vi abito vicino, epistolari andanti,
con la mia parte sinistra
e le sue eco costanti
con dolori e attenzioni
con tranelli minimali e acidi
con rondini in libertà
quando si divertono giù nella valle sottostante
se e quando inganniamo l’attesa
o l’attesa inganna noi
la fascinazione viene da
le cose belle che metti insieme
piccolissime e belle cose
ho guardato molto oggi
sono esausta e piena
me ne ricordo e ne lascio un po’
per domani per dopodomani per
quando che viene
che viene a mancare che va a tornare
sospirando che sale
folli educande ragazzine
storia e memoria
hanno un passo deciso
piedi aggraziati e lunghe camminate
tutto il nostro tempo e starci dentro
lunedì così si avvicina alla quinta notte
come si intrecciano le occasioni come si sciolgono
tutto il peggio di me di noi come massa
elementi assortiti stanno sotto una campana
divorano spesso schiena e gengive nel cuore
è scansione pura assoluta scansione
è femminile questa energia alternata
e le ombre non si cancellano facili
seguono amorevoli forse amiche seguono
mute per dolci dimenticanze e segreti
il punto che si incrinano i pensieri pacifici
quando arrivano racconti duri e tristi episodi
arrivano per caso e tutti insieme
come un gomitolo impazzito di fili
ci vogliono giorni per mettere a posto
oggetti e unità di tempo e simbiosi
poi fai cartella e un pisolino
fai scorrere le frasi sul nastro
sotto sotto le distorsioni soniche di Andrea
Parkins fra fisarmonica notebook e campanelle
alle prossime veglie forzate più o meno
e la raccolta delle acque nel lavandino gocciolante
Recensioni a Senza Permesso
Sara Comuzzo
su www.barbaricoyawp.com
Senza Permesso (Smith Edizioni, 2020), ultima impresa poetica di Elisabetta Beneforti, si apre con un’introduzione dell’autrice stessa che ne spiega l’origine, il concepimento. La silloge è infatti frutto dell’assenza di elettricità di una decina di giorni, accaduta un’estate di qualche anno fa; una mancata presenza che permette un “simposio di candele” (p. 9), “assolute capriole” e “una città blu senza caramelle e rose gratis” (p. 15). C’è molta quotidianità in queste righe; è quasi come assistere a una sfilata di piccole cose, le cui ombre e il cui peso impercettibile sconfinano in altre galassie. E così, tra i gomitoli ingarbugliati dell’ordinarietà, troviamo “bicchieri da riempire” (p. 16), mentre “i ragni mangiano le mosche”, “i tubi dell’acqua si intasano” e “i piatti si scheggiano” (p. 17).
Tra tutti questi frammenti di istanti e abitudini, la poetica della Beneforti riesce a creare magistralmente “uno spazio dove si è possibili/dove le parole hanno senso” (p. 16). È una scrittura con tratti postmoderni adeguatamente disposti, flussi di pensiero accuratamente arredati e associazioni di immagini pazzesche ed esplosive abilmente distillate in chiave beat tra “biciclette da ricucire, archivi di parole” (p. 18) e “quel poco che ci vuole per stare bene” (p. 22).
Nel complesso, colpisce la quasi assenza totale di punteggiatura, ridotta al minimo indispensabile. Anche le domande non hanno bisogno del loro apposito segno, non perché tutto è affermazione, ma perché tutto danza in armonia e domande e risposte si susseguono, tengono il tempo e, infondo, alla fine dei conti, sono la stessa cosa o sono facilmente riconoscibili. Come un fiore introverso, questa raccolta colleziona fragilità che timidamente sbocciano, si aprono e raccontano storie, scoppiano e lasciano cicatrici, nel mezzo di domande esistenziali non trascurabili per il genere umano: “cosa ne sarà un giorno/di tutto questo” (p. 28).
Non resta che perdersi allora tra “orge di colori” (p. 29) e “parole che colano” (p. 32), nella Big Sur di tele impressioniste navigate da “barche spaziali” (p. 30), dove trionfano “caramelle in assortimento” (p. 40) e “scintille radianti” (p. 41).
È una poesia che parla anche di confini, la linea d’ombra, il punto di incontro fra opposti: “la luna è tagliata in quarti/fra emozione e commozione/dove sta il confine” (p. 42). Il gioco di contrari, sempre e solo rivolto verso l’altro (qualcuno a cui raccontare le cose come stanno), continua in confessioni intimissime: “ti dico, la storia del continuo fare/e disfare valigie”; e sosta nella presa d’atto di dati di fatto: “le discese sono il contrario delle salite/e poco altro, ti dico”.
Ci sono immagini bellissime tra queste righe, gli accostamenti tra parole e le loro creazioni visive si dilagano dentro al lettore mentre sfoglia la pagina come una scheggia entra in un occhio, con la stessa delicatezza e la stessa violenza, la stessa sofferenza. E così, incontriamo “il disincanto dello spazzacamino” nei confronti di “colombe sbiancate” (p. 74), mentre noi ce ne stiamo idealmente sul pavimento a contare le bolle di sapone che fuoriescono dal tempo e siamo testimoni involontari ma assoluti della “raccolta delle acque nel lavandino sgocciolante” (p. 86).
Nella loro traversata dell’interspazio, queste poesie diventano carta di giornale indistruttibile, salpano per oceani inimmaginabili, improvvisamente diventano astronavi o mongolfiere e volano in aria sfuggendo alla pagina, nonostante siano ben incise su di essa. Il loro essere sfuggenti non è dato dall’assenza del desiderio di permanere, queste poesie rimarranno - ed è poco ma sicuro - ma necessitano nello stesso tempo di essere libere di fluttuare dove vogliono, senza permesso, in proprio spirito beat, fuorilegge tra qui e lì, adesso e dopo, vicino e lontano. Il duetto degli opposti ritorna, o meglio, non se n’è mai andato, e può allearsi con le parole dei Tame Impala, rock-band psichedelica australiana che nella loro Borderline cantano: “Siamo sulla linea di confine/presi tra le maree del dolore e del rapimento/Poi ho visto il tempo/l’ho guardato accelerare come un treno”.
Lo scorrere del tempo continua tra accelerazioni e frenate, vite vissute e altre solo fotografate, attraverso sliding doors che racchiudono potenzialità infinite e permettono al lettore di andare avanti e indietro nell’esperienza di queste pagine, in quello che sembra essere un imperativo invitante: “come un pendolo/entra e esci da una vita all’altra/senza permesso” (p. 69).
Inoltre, la poetessa ci prega di prendere nota di tutte queste immagini, racchiuderle dentro di noi e portarle lungo il viaggio verso orizzonti letterari e umani: “documentate all’osso per favore/documentate” (p. 84).
Nel trambusto e negli squarci di colori e parole, il finale è glorioso, positivo, delicato e l’ultima parola dell’intera raccolta luccica a perdita d’occhio: “pace”. Questa rivelazione conclusiva dona speranza al desiderio di poter vivere (e scrivere) senza permesso, rimanendo in bilico sulla linea di confine tra domande e risposte, fare e disfare, luce e oscurità, perché infondo si può brillare anche senza elettricità e queste poesie ne sono la prova. Ne sono la prova.
Sara Comuzzo
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Stefano Loria
su www.stanza251.com
Conoscendo il percorso della poesia di Elisabetta Beneforti da molti anni (a causa di una ormai antica amicizia) posso notare la sua fedeltà ad un modello adottato fin dagli inizi della propria scrittura. Faccio riferimento ad un movimento culturale – la cosiddetta Beat Generation – che nella seconda parte del secolo scorso esplose negli Stati Uniti, rivitalizzando in modo radicale letteratura, arte, musica. Molta della qualità dei versi di Elisabetta si è forgiata dentro la fascinazione per l'energia potentissima che quel movimento aveva saputo infondere ad ogni linguaggio espressivo adottato.
Leggendo le pagine di questo nuovissimo Senza permesso ritrovo le caratteristiche di uno stile consolidato nel tempo: un continuo ritmo di fondo assai incalzante che anima i versi e trascina il lettore in una danza rutilante; il sovrapporsi molto veloce di visioni cinematografiche, con dettagli e campi lunghi intrecciati, con profondità visive ma anche con rassegne rapide tutte giocate in superficie come in un volo inebriante. Sono gli “sguardi sognanti” a condurre dentro una specie di gioia istantanea del mondo. Questa velocità rappresenta un dato controcorrente rispetto a molta poesia lenta e meditativa che mi pare andare abbastanza di moda oggi in Italia. Non la pronuncia che ferma il mondo, ghiacciando un senso definitivo, interessa ad Elisabetta, ma quella rapidità prodigiosa che restituisce il sapore delle apparenze cangianti in una miscela calda e magmatica.
Una poesia molto inclusiva (“il mio tempo è personale/il mio tempo è storico”) in cui entrano tanti elementi diversi, semplici oggetti di uso quotidiano, complessi stati d'animo, libri, panchine, microfoni, un catalogo di presenze che tende a catturare non il passato (ormai alle nostre spalle, perduto) non il futuro (ovviamente inconoscibile, sempre dolorosamente differente dalle nostre ingenue previsioni), bensì l'assoluto presente, l'attimo in cui siamo adesso, con la sua sbalorditiva sorpresa di esistere.
C'è tanta musica (già ad apertura del libro, la dedica è musicale, ad un album di jazz leggendario (Septober Energy di Centipede) in una linea che si distende da Chopin a Steve Reich. C'è un io forte a tracciare il paesaggio, un punto di vista preciso, un occhio onnisciente, ma tutto (compresa l'autrice) in queste pagine risulta sempre immerso nel flusso delle cose e degli eventi, c'è un vento che soffia senza sosta in queste poesie e bisogna assecondare questa scrittura così dinamica, lasciarsi trascinare è importante.
Una raccolta di composizioni molto coerenti e ben collegate a formare un mosaico denso, con complessità nascoste dentro una struttura che all'inizio potrebbe apparire semplice, ma non lo è. Sono versi che contengono – a dispetto della rapidità del dettato – pesi e contrappesi, sofisticate regolazioni interne. Ho letto questo libro con calma, a piccole dosi. Personalmente consiglio una poesia al giorno.
Stefano Loria
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Giancarlo Baroni
su www.antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.com
È una raccolta che colpisce per la sua originalità, questa di Elisabetta Beneforti intitolata Senza permesso (Smith editore, 2020). Sono versi che non gradiscono inciampi,
blocchi, attriti, ostacoli, impedimenti, freni; a partire dalla punteggiatura che viene eliminata e sparisce dalle pagine, che viene messa da parte affinché il ritmo possa scorrere e fluire con
agio e liberamente, senza obblighi e condizionamenti, “senza permesso”.
Le poesie sono animate, mosse e agitate da una volontà trasgressiva che agisce come motore e stimolatore interno. Leggendole vengono alla mente le poesie della contestazione e
della rivolta del dopo Sessantotto, quando ci si spogliava dei vestiti della festa, delle regole stringenti, degli insegnamenti acquisiti, dei comportamenti conformi a un modello dominante, tutto
“senza permesso”.
L’intonazione dei versi della Beneforti è però meno trasgressiva, all’urlo della ribellione preferisce una voce più sottotono che aspira ad essere contemporaneamente lieve e
spericolata, armoniosa e spigolosa. Nelle “Note” chiarisce: “Sono davvero innamorata delle parole, delle loro sonorità quanto dei loro significati combinatori, perché qualcosa da dire si
abbraccia necessariamente e musiche e immagini”.
A colpire l’orecchio può essere una musica forte che esce “da una macchina in sosta”, il rumore battente di un lavandino sgocciolante, “piogge che cantano”, “musiche minimali,
accordi rari”, melodie, silenzi e stonature. Le musiche ci accompagnano e aderiscono alle nostre giornate come una seconda pelle.
L’occhio forse più dell’orecchio è l’organo di senso più stimolato, coinvolto e sollecitato, la vista più che l’udito. I colori accendono i versi creando una “scrittura
luminosa”: una “luce blu diffusa”, “il giallo pieno del mattino sul soffitto”; si moltiplicano prospettive e punti di vista: dentro e fuori, sopra e sotto, guardare “la terra da una mongolfiera”
o all’interno di un “gomitolo impazzito di fili”. È uno sguardo allenato e allo stesso tempo sognante, che sa cogliere dettagli e particolari, aspetti secondari e marginali; uno “sguardo
fotografico” in movimento tipico di chi sta passeggiando e intanto osserva e registra senza soffermarsi e indugiare troppo. L’autrice, fotografa oltre che poetessa, mette a fuoco i contrasti
dell’esistenza, carezze e graffi, “notizie buone e cattive”, desideri che attraggono e attese che respingono, stanchezza e divertimenti, “fuoco e grazia”, “memorie da sopire” e bicchieri per
brindare, “la gioia, le sconfitte”, cicatrici e “piccole contentezze”, la “bellezza del poco”, parole “senza permesso”.
Un flusso di pensieri, emozioni, passioni, umori, stati d’animo, suoni,sospinge e trascina in avanti le parole dipinte e musicali dell’autrice, la sua scrittura “che parla /
che guarda”.
Giancarlo Baroni
La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autrice a Pioggia Obliqua