PIOGGIA OBLIQUA presenta
E N Z O
M A Z Z A
RICORDO DI ENZO MAZZA
A cura di Daniela Gentile e Alessandro Fo
Lo scorso 2017, il 7 febbraio si è spento uno dei nostri più grandi (e meno conosciuti) poeti: Enzo Mazza. Aveva 93 anni. La drammatica vicenda della sua esistenza è ripercorsa nella breve nota biografica. Dal 1981 dedicava quasi tutte le proprie energie alla poesia, in particolare a una poesia proiettata a conservare la memoria (e inseguire la figura) del primogenito Fabio, morto quel settembre in un incidente d’auto. A me personalmente avvenne di conoscerlo per aver letto sulla rivista «Oggi e domani» una recensione alle sue 33 poesie per Fabio. Se ne riportavano alcune liriche, e mi colpirono al punto che desiderai rintracciarne l’autore. Ne nacque una lunga e profonda amicizia. Da dieci anni ormai l’estrema beffa dell’esistenza, con una lunga, invalidante malattia, lo aveva privato della memoria – del ricordo di Fabio, e di tutti gli altri suoi cari, vivi e defunti.
La grande sensibilità della rivista Pioggia obliqua offre l’occasione di celebrarlo nell’anniversario della morte. Daniela Gentile presenta qui di seguito alcuni suoi inediti. Con Daniela e con la Direzione della Rivista – Luigi Oldani e Elisabetta Beneforti – abbiamo poi pensato che non fosse inutile riproporre anche alcune delle sue poesie pubblicate in quelle splendide raccolte che però non conobbero mai circolazione, se non fra alcuni pochi amici maggiormente legati a Enzo e alla sua famiglia.
Ringrazio ulteriormente Pioggia obliqua per aver voluto accogliere qui in fondo anche una poesia con cui desideravo porgergli un piccolo omaggio, nel primo suo compleanno dopo la scomparsa, il 1° gennaio 2018: un tentativo di fermare in versi l’ultima occasione in cui, nonostante l’ormai dilagante malattia, tutti noi che eravamo presenti lo percepimmo dolorosamente in contatto con la sua passata e le nostre esistenze.
Chi gli ha voluto bene – e siamo in tanti – e ha amato e ama la sua intensa, composta, commossa poesia, lo pensa ora, finalmente esaudito, con Fabio (da Ultimi frammenti, n. 106):
se hai caro che ti venga accanto,
fammi posto (di un dito
mi basta lo spessore).
A questo fine sono dimagrito.
Alessandro Fo
* * *
Le date, con il loro ciclico ricorrere anno dopo anno, sanno puntellare il tempo di momenti di sosta obbligati per il pensiero: se il sette febbraio è per noi giorno di vedetta per il ricordo di Enzo Mazza, molte, moltissime altre date lo sono state per la sua poesia.
La memoria e le voci del passato mantengono salda la catena dei versi di Enzo Mazza in una poesia che mai ripiega su se stessa, ma piuttosto fa di questa riflessione ininterrotta una lente attraverso cui riuscire a guardare e vivere il presente, la quotidianità domestica. I tanti fascicoli inediti e dattiloscritti a Dolcianello, presso Chiusi, di cui qui si presentano cursoriamente pochi estratti in ordine cronologico, e non meno le sue poesie edite, qui ulteriormente divulgate grazie alla disponibilità di Pioggia obliqua, tracciano una soglia di resistenza del poeta alla gravità che lo avrebbe voluto abitante delle ombre e che invece lo ha reso tenace sentinella di un senso ultimo della vita.
Daniela Gentile
Poesie inedite
Da Nel groviglio, Dolcianello, gennaio 1986:
n. 7
Tu pensami
nel labirinto,
cadutomi di mano
il classico filo.
Tu fuori, sulla crosta
terrestre, alla luce,
io quaggiù, luogo
di sporgenze e rientranze
rocciose, di cunicoli
senza uscita. Non scegliere
il sacrificio, il rogo,
come Didone. Il buio
vale la luce, spenti
gli occhi. M’intendi?
Non piangere (cosa
di cui dubito), accedi
alla virtù del tradimento,
il minore dei mali, prendi
ciò che era mio, se non mi vedi e sai
che non tornerò più.
Da Altre inezie, Dolcianello, gennaio 1986:
n. 10
Mi baci, ma non hai
l’amore essenziale, l’alter
ego, la prova
che esisti, l’assioma
e la domanda a cui
si risponde. Salti
cupi anni e sai
di saltarli. Roma
ricordi appena, il buio
nella tua cameretta,
nella vostra. Vita nuova
non c’è – mi dico – e non so porre
riparo al crollo, opporre valida
difesa. Aspetta,
ti suggerisco, nel trascorrere
del tempo è la salvezza
contro i mali, l’incognito,
non nella mia tristezza.
n. 12
Di peso più leggero
d’un qualsiasi neonato
t’immaginavo dietro la vetrata
d’una clinica, sopra
una cascata di verde
verso Fiumicino. Tutto
ricordo. Ti vidi e mi sorprese
la tua leggerezza, l’infimo
peso. Saresti vissuto?
Chi era forte, morì,
e tu crescesti. Riversai
così me stesso sulla tua
vita. Dormiva l’altro figlio
e tu eri desto. Soffrivi
e gioivi, come non può
non accadere. Ecco, da allora,
la mia vita: pensarvi
insieme, dissociarvi.
Altra cosa è la morte
dalla vita. Ma eravate,
vi ho visto insieme,
da un letto all’altro potevate
toccarvi. Non può esservi
per me separazione. Lontanissimi,
vi riunirete, parlerete
sottovoce fra voi,
forse vorrete riabbracciarmi.
Da Tu sai molte cose, Dolcianello, marzo 1986:
n. 5
Quante piante, semi, concime
compra la mamma. Ti accorgi
che ha il pensiero alla terra?
Vuole che nasca, cresca
qualcosa, sempre, e ogni inverno
il gelo la delude: muore
ciò che ha piantato. Afferri
ciò che ti dico? Ma resta
vivo, nello sterminio,
più d’un seme, e fruttifica.
Ah, quante le vie
del dolore. Basta una rosa
che sbocci, il grappolo
acerbo d’una vite. Amore
o finzione? Continuo
a pensarci, ieri
oggi: troppo, per te,
ardui (respinti) pensieri.
Da Noi tre fuggiamo, Dolcianello, marzo 1986:
n. 9
Io credo che ricorrano
a suoni, a segni che non percepiamo,
anche ad aliti, a soffi. Presto
ne avrai una prova. Non amiamo
un’ombra che si manifesti
nel gemito d’un ramo,
in uno scricchiolio? Non giureremo
che è lei, per illuminazione,
fulmineo incontro di pensieri? È lei,
dirai, la riconosco. Torna
perché ci amammo, anzi ci amiamo.
Se poi a sfiorarti sarò io:
è lui, dirai, gentile
com’era a volte (ma, pensando
a un’ombra, anche per me
userai il femminile).
Da Una gelida Goccia, Dolcianello, marzo 1986:
n. 4
Ah, no, non saprei più muovermi
se tu non ti muovessi
come un lento ventaglio o l’indice
d’un grafico, un innocuo
terribile pennino, un girasole,
una foglia. Così vicino
mi sembra che tu sia,
che le briciole
sparse per i merli
mattutini hanno un senso
riposto: quegli stessi
merli nel giardinetto
saltellanti, avidi merli,
ospiti come le bianche
farfalle, ed altri insetti
e uccelli. Hanno bisogno
di cure gli alberi, l’erba
maligna, la cisterna.
E tu dimmi, nel sogno,
ciò che ti preme, eterna
la luce, l’alba
in cui rivivi. Metti
che mi manchi il respiro
d’un tratto ed entri
nel tuo giro…
Da Come tra cielo e terra, Dolcianello, marzo 1988:
n. 12
Tra lui e te, come tra cielo
e terra, non calcolo misure,
perché non mi fa velo
la morte, le paure
che suscita. Voi due
luce da buio non divide,
lozione, schiuma
da barba ed altra schiuma,
né pettine, tele-
comando, né le tue
agende che continuano
le sue, riposte. Nulla
s’insinua di crudele
tra di voi: solo un brivido:
forse, la lontananza
che amore o bacio non annulla
nel vuoto della stanza.
Da L’ultima sorpresa, Dolcianello, febbraio 1989:
n. 12
Come avessimo bevuto
un intruglio mortale,
dobbiamo separarci, ma svolgendo
tra noi in segreto un lungo
gomitolo, così da esorcizzare
l’opaco oceano dell’attesa.
Salterò i mesi: marzo maggio luglio
settembre; danzeranno
davanti alle pupille il verde l’oro
il rosso, fino alla più dolce
sorpresa. Veramente ignoro
cosa sarà. Non polvere d’ossario,
non cupe voci o tuoni. Fosse
un luogo trasparente, immaginario,
a due anime l’ultima sorpresa.
Da Su un’orma indecifrata, Dolcianello, novembre 1994:
n. 10
Almeno qualche anno tu m’hai dato
di gioia non commisurata allora
all’attimo fuggente.
Vagamente
ricordo alcune notti,
la fiaba d’un gattino, i pini
di Fregene, te grande oltre l’età,
noi soli sull’Aurelia in viaggio
per le vacanze. Già una volta
fingesti di sparire; poi,
penne ti dette a tradimento
il torvo cielo
perché ti dileguassi.
E noi? La nostra orbita fingi
di ignorare? Non è
– dimmi – soltanto umana la finzione?
Da L’amicizia, Dolcianello, settembre 1998:
n. 6
Spaventa anche, del resto,
il buio siderale
e che in questo o in quell’altro
emisfero qualcuno,
credendosi scaltro,
abbia in un nascondiglio
salvifiche scale,
inesorabilmente sordo
all’eterno consiglio.
Da In un solingo bosco, novembre 1998:
n. 26
L’uomo è cieco. Non vede pur vedendo,
prevede nebulosamente
qualcosa che lo turba. Non dovrebbe
conoscere lui solo in un solingo
bosco l’antro della Sibilla,
averne accesso, non potendo
più vivere ignorando
l’imprevedibile?
Da Avvicinandomi, Dolcianello, novembre 1998:
n. 12
a G.
Sai, sono vicino, so
di esserlo senza turbamenti o crisi
d’una malinconia fasciata d’ombra.
E, avvicinandomi, combatto
la mia congenita indolenza, scrivo
lettere anche spiritose a chi
sento fraternamente amico e posso
confidargli un segreto, ammettere
di essere in debito di ossigeno,
aggiungendo che ho vinto la paura.
Da Quante volte, Dolcianello, dicembre 2000:
Oggi è l’otto Dicembre, grigio
il cielo, ma
si è allontanato il rischio della nebbia.
Sarà, così, meno isolata
la mia cattività. Non che non debba,
antico vizio, dubitarne, qui
dove la quotidiana agenda
riporta tutto ciò che non accade
e il nulla – vorrei dire –
di cui, pentito, faccio ammenda.
Poesie edite
[prima dell’incidente]
da Otia, 1977:
1.
Guardo da una fessura
i figli che dormono, te
mentre l’acqua alle labbra
ti porti inquieta, sull’orlo
di qualche tua paura.
Guardo, ripenso agli anni
così rapidi a volgere
il cuore al tramonto, gli anni
e le cose ammucchiate, gli studi
in cui non so se ho bruciato
più verità che finzioni.
Guardo, mi chiedo che cosa
sanno i figli di me, se solo
attraverso le loro immagini
ho amato ciò che restava.
Chiedo a te come reggono
i tristi umori, le dure
parole, quanto lontano
mi vedono, se il peso
reggerò del loro giudizio.
29.
O rara levità
che agli albori sul mare
disperde il sonno, e già
leva il bimbo la testa
dal lettino, si gonfia
il latte sulla fiamma,
penetra il primo verde.
32.
Non so riprendere i remi,
rianimare la barca
dal limo in cui giace,
né staccarmi da tanti
voli impietriti dalla pietà
congiunta delle cose.
Dal mio bunker di carta
non vedo che tremiti
d’acque, una luce
irreale tra i letti
disfatti e le tracce
di polvere, la testa
bionda del figlio più piccolo
che tieni in braccio.
Da L’acqua e il vento, 1967:
16.
Mentre sotterro
vecchi versi, mappe
d’isole inventate,
tua madre stacca il ferro
da stiro, rammenda lo strappo
d’un abito, si finge meno stanca
parlando dell’estate
di là da venire. La vedo
nella luce bianca
sciogliersi i capelli, finire
la sua giornata.
Da Per i sedici anni di Gianluca, 1990:
4.
Il dire per immagini, il tacere
che è muto eloquio, la sommessa voce
come ramificata acqua alla foce
dove un inestimabile sapere
avvìa le sue postille, e il non avere
nulla da opporre al segno della croce,
il pensiero del lampo più veloce,
lacrima ch’io non possa trattenere:
questo, figlio, tramando a un intelletto
che prende forma in un estraneo stampo
su cui vigilo e studio, circospetto.
L’occaso è una carezza al cuore, al petto,
e d’inespresso amore solo avvampo
in un sogno che a te mi veda stretto.
7.
Quale grande può esservi distanza
tra due che vanno uno dell’altro a fianco
e in uno splenda giovinezza e stanco
e grigio, senza un moto d’esultanza,
appaia l’altro, che sul lato manco
spesso giacendo, le ore non gli avanzano
che per pensare te in un’altra stanza,
chino col lapis sul tuo foglio bianco.
A me non riuscirebbe alcun disegno
geometrico, né chiuso potrei stare
nella camera oscura. Altro è il mio segno
zodiacale, l’intento che accompagna
i miei ultimi giorni e lo sperare
per il tuo esercitarti altra lavagna.
Da L’acqua e il vento, 1967:
29.
L’amore è la radice
dentro la terra, il frutto
in cima alla pianta.
È la traccia di sangue,
tutto il sangue che scorre
e non si perde. Tendigli
le braccia, raggiungilo
nel profondo, lassù.
[dopo l’incidente]
da Poesie per Fabio, 1987:
Ultimi versi, V
Quante volte lo vedesti
piegare l’erba, allungarsi
a respingere il cuoio del pallone
a mani aperte o con la punta
del piede, a rilanciarlo
altissimo seguendone con l’occhio
la traiettoria, e quante
volte l’hai visto ripiegato,
stanco, sul letto, ma per poco,
e poi di nuovo
flettere il busto nella corsa,
piegarsi quasi a una fettuccia
irraggiungibile. Amo
piegarmi su di lui piegato
sullo scrittoio a leggere
di Cassandra, di Enea, di eroi
che non so come immaginava
rilucenti nei versi che più tardi
scandire avrebbe saputo.
Lui stesso aveva in sé
i corrucci, l’orgoglio
che spengono gli dèi con un cenno,
gelosi forse che gli eroi respirino
oltre la giovinezza.
Ne aveva il tratto inalienabile
e il sorriso, l’incauta
fiducia. E quante volte
mi ha piegato il dolermene
senza conforto di carezza,
su di lui ripiegato
come un foglietto in cui tutto
del suo destino era scritto.
da L’albero del niente, ottobre 1987
n. 75
Si capovolgeranno anche le stelle
nei tuoi occhi, gli aspetti della vita
umana, quell’inferno che le dita
tese in avanti attira verso quelle
voragini, quei pozzi, e l’infinita
stiva, l'immenso ventre, le fiammelle
che consumano le ossa del ribelle
superbo e come polvere le tritano.
Devi, in un lampo, aver toccato il male,
subito consolato, e risalito
rocce scoscese a un mondo vegetale
senza età, né paurosi mutamenti.
Che di là, per condanna, sia partito
il primo uomo? Tacito, acconsenti.
Da Nella calante oscurità, luglio 1988:
n. 16
Affonda adagio
il mio scafo nel buio
crescente. Ogni pagina
si articola nel nulla, di cui
non verrai mai a capo.
n. 69
Ti vedo ripiegato sulla mamma
senza toccarla, o fiore virgiliano
su cui passò il gran carro,
lacrime fisse come perle in cielo,
o fiore che non sogna,
dolendosene, lei, te ripiegato
sul ciglio d’ogni strada,
addormentato, forse,
in una luce che non regge acume.
n. 76
Non sono bravo a far versi,
anche se afferma l’opposto
un amico pietoso, perché
non fanno essi i pioli
della fragile scala: non avrei
l’agilità d’un indigeno
per toccarne la cima. Non oso
quasi più far versi: i soli
che intenerivano, un tempo,
le mie sere, le effigi
a cui mi piegavano. Tu
volgevi in prosa Virgilio,
a intendere cominciavi
gli dèi, le loro
finzioni, gli eroi
pugnaci, irrequieti,
sovrastati dal fato, l’alloro
che cingeva i poeti.
n. 80
Non muoverti, ma fammi
un ilare segnale
come uno schiocco di dita,
non potendo altro suono
emettere, o muovendoti pianissimo
muovimi intorno l’aria
notturna, in modo che una pagina
da sé si volti e n’abbia
io dolce meraviglia.
da In fondo al corridoio, luglio 1988:
n. 49
Molti, subdolamente, mi consigliano
di non pensare ai morti. Mi vorrebbero
come un tempo, di nuovo, a un tavolo
verde, con le mie carte da giocare.
Ed io li guardo in un trasalimento
che non reprimo, stupefatto. Non
pensare ai morti, non
a te che sento vivo, non
tra i morti cancellati, polvere
che non il giallo d’una vecchia
fotografia rivendica. Io
non pensarti, né piangere nell’angolo
dove dormivi, non accarezzare
il tuo cuscino, il plaid,
ciò che è rimasto, il cuoio
della cartella, i libri, l’angelo
sul letto? Molti non conoscono
alcun dolore. – Io muoio,
potrei dir loro ed essi,
io morto, non mi penserebbero.
n. 61
Dalle ore antelucane, svegliandomi
sempre più presto, sembra
ch’io vada verso il cuore della notte.
Così mesi, anni risalissi
fino a ritrovarti addormentato
e una spalla, una volta sola,
ti toccassi per dirti
che è l’ora di lavarsi, di vestirsi,
di raggiungere in autobus la scuola.
n. 65
Muoio ancora con te
quasi ogni sera, persuaso
a sentire la morte
come sorella che da lungi
sorrida, a te rapidamente
per vie occulte avvicinandomi.
E se agli altri scompaio,
gli altri, i pochi, non più,
sapendomi con te, mi piangeranno.
da Gemito e tremore, settembre 1990:
n. 43
Addio, mi viene spesso
alle labbra, ave atque vale,
e il cenere muto e quella
gentil voce di pianto.
Parole d’altri e mie,
brevi consunte nuove,
che mi velano gli occhi e non consolano
chi m’era accanto.
n. 65
La grazia è vita ancora pur nel chiuso
della memoria, e avermi indotto
a crederla perenne, avermi illuso
fin che ti ho avuto accanto, non le fa
ombra. Il rifugio dov’è segregata,
in cui discendo a rianimarla, sa
chi è stato, ma ne tace il nome,
vedendomi velato di rimpianto.
n. 76
Mi alzo da tavola anzitempo,
perché, tanto, la tavola d'un tempo
è sparecchiata, e opprime il tempo
a tavola, non come in altro tempo.
n. 85
Nel fango, nel fradicio, nel forse
premesso a una frase, e nei fondachi
a fior d'acqua, simili a quelli
veneziani, nei forni
e nelle forme di pane
che vi infiliamo, c’è la nostra
vita, come nel taglio delle forbici,
nel tovagliolo con cui ti forbisci
le labbra unte: la nostra
vita intinta nell'inchiostro,
e le fobie, la forza di ripetere
freneticamente, anche, noi stessi
ogni giorno, e le favole, i misfatti.
da 33 poesie per Fabio, settembre 1991:
n. 5
La tua testa appoggiata sulla mia
debole spalla: un quadro che vorrei
dipinto, e come sei
guardarti a lungo, con malinconia.
n. 10
Dieci anni, il tempo che marciscano
tonnellate di frutta e che si ammalino
due magnolie – le nostre – e intristisca
l’amore che ripiega le sue ali.
da L’ombra di un sorriso, ottobre 1992:
n. 28
Sai, d’un sorriso appena
accennato, si dice impercettibile,
o vago, ed anche l'ombra d’un sorriso,
che è misteriosa immagine
contraddittoria, dissipando l’ombra
un sorriso anche debole. Ma è vero
che è bellissimo dire, appunto, l’ombra
d'un sorriso, a sorridere
fossero i vivi divenuti ombre
di là dal fiume, inclini adesso più
che a sorridere all’ombra di un sorriso.
P e r E n z o M a z z a
di Alessandro Fo
il 1° gennaio 2018
Leopardi affiora in un malato di Alzheimer
Non parlava da tempo. Stava buono
in un suo angolo, assente.
Più di vent’anni di splendida poesia
per il suo primogenito, perduto
ragazzo ancora, per un incidente.
Era venuta poi la malattia,
poco per volta aveva eroso via
la sua memoria, e, speravo, anche il dolore.
Per stimolarlo, a quel pranzo di festa,
Francesca si era portata dietro i Canti
del poeta amato. E premeva
perché lui ora ne leggesse i versi.
Lui si dispose docile a ubbidire.
Leggeva come sillaba da un libro
un bimbo a scuola. Ma poi prese slancio.
E un’estrema volta nella vita
mi sembrò che capisse.
Era A Silvia.
Rimembri ancora.
Perivi tenerella. E non vedesti
il fior degli anni tuoi.
Qualcosa allora sotto il gelo si mosse.
Anche peria fra poco
la speranza mia dolce.
Tornava a vita, forse,
un pallido ricordo.
Questo è quel mondo, questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi?
Ricompariva il vero, Enzo, che tu
l’ultima volta
mostravi di lontano.
Posò il libro, piegò il viso, piangeva.
A.F.
Nota biografica
Enzo Mazza è nato a Roma il 1° gennaio del 1924 e si è spento all’Ospedale di Nottola il 7 febbraio 2017. Fine letterato, autore di una splendida traduzione di Catullo per Guanda (1962), sulla cui rilevante posizione nel quadro delle molte traduzioni italiane del poeta veronese si registra ora l’intervento di uno specialista come Alfredo Mario Morelli (Il disunito filo che ci unisce. La traduzione catulliana di Enzo Mazza, in corso di stampa sulla rivista «Paideia», n. 73, 2018). Ha tradotto anche l’Appendix Vergiliana e vari brani dell’Eneide, oggetto di cure filologiche e studio da parte di Daniela Gentile (se ne vedano Dalle carte di un poeta. L’Appendix Vergiliana tradotta da Enzo Mazza: edizione e note, tesi magistrale in lettere, Siena, A.A. 2014-2015; L’Eneide di Enzo Mazza: la traduzione di un poeta, in «Annali di Studi Umanistici», Università di Siena, 3, 2015, pp. 9-84).
Ha insegnato a Roma, dove ha fondato nel 1957 la rivista di poesia e letteratura «Marsia» con altri amici, e dove ha sposato Elena nel 1962, fino a che un incidente automobilistico non gli ha rapito, nel settembre 1981, il primogenito Fabio. Da allora si è ritirato con la moglie e il secondo figlio Gianluca in un casolare vicino a Chiusi e ha trascorso una vita intera a scrivere poesie con cui ha dolorosamente affrontato ogni possibile frammento della sofferenza che può infliggere a un nucleo familiare una simile perdita. Ha pubblicato varie raccolte, nella collana/marchio editoriale Biblioteca Cominiana, fondata e diretta insieme a Bino Rebellato: libri quasi introvabili, che non ha mai curato di promuovere adeguatamente (tutti conservati nella Biblioteca di Studi Umanistici dell’Università di Siena; per un primo orientamento cfr. Alessandro Fo, Voci della poesia italiana di fine Novecento: Nino De Vita, Paolo Ruffilli, Alceste Angelini, Enzo Mazza, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia» dell’Università di Siena, 17, 1996, pp. 319-54, in particolare 336-54).
È in programma, per Betti Editrice di Siena, un'ampia edizione delle sue raccolte poetiche, a cura di Daniela Gentile, Antonio Pane e Alessandro Fo, che raccolga integralmente il ciclo per Fabio, e altri editi e inediti. Il piano prevede questa scansione: parte prima: Il nucleo familiare – L’acqua e il vento, maggio 1967; Otia, giugno 1977; L’invisibile, giugno 1982. parte seconda: Il canzoniere per Fabio – 1. Poesie per Fabio, 1987; 2. L’albero del niente, ottobre 1987; 3. Nella calante oscurità, luglio 1988; 4. In fondo al corridoio, luglio 1988; 5. Gemito e tremore, settembre 1990; 6. Ultimi frammenti, novembre 1990; 7. 33 poesie per Fabio, settembre 1991; 8. L’ombra d’un sorriso, ottobre 1992; 9. Frammenti postumi, gennaio 1994. parte terza: Altri versi – Per i sedici anni di Gianluca, 1990; 12 poesie per Bruno Carnevali, novembre 1990; Versi a Marinka, luglio 1993; 12 poesie per Alceste Angelini, luglio 1995; Postille inedite, dall’autoantologia Uno di questi giorni: poesie scelte (1954-1994), maggio 1996; L’oscuro lembo, aprile del 2000; Perplesso, agosto 2000; Senza saperlo, 1° gennaio 2001; Una vaga speranza, 2002.