Poesia proposta
V A L E R I O S A N Z O T T A
INFINITO SERENO AUTUNNALE
Premessa
di Maurizio Campanelli
Custode Generale dell’Accademia dell’Arcadia
Valerio Sanzotta nasce come studioso di letteratura latina medievale e umanistica, e trascorre il suo primo decennio di ricerca esplorando l’universo dei manoscritti e delle biblioteche che conservano la letteratura del Quattrocento. Si orienta poi verso la poesia neolatina del Sei e del Settecento, e si dedica alle tragedie di argomento veterotestamentario scritte nel Collegio Romano durante la prima metà del XVIII secolo: sua è l’edizione critica dello Ionathas di Giuseppe Enrico Carpani, il maggior autore di quella vasta e preziosa produzione letteraria. Percorrendo le brulicanti strade della poesia latina dei Gesuiti, Sanzotta è arrivato ad occuparsi dell’Arcadia, a cui ha donato raffinati studi sulla lirica latina di tema religioso e devozionale. Questo gli è valso l’annoveramento in Arcadia, di cui è socio col nome pastorale di Callimaco Neridio. Accanto agli studi di filologia e poesia umanistica e neolatina, Sanzotta ha coltivato una lunga e appassionata attività di musicista e cantautore, intrapresa fin dagli anni della prima adolescenza. Nel 2020 è uscito il suo ultimo album, Naked, in cui compare Ho visto tutti gli occhi, una delle poesie che figurano in questa raccolta.
Nel loro perfetto nitore metrico, i testi di Sanzotta delineano un itinerario di vita in poesia. Si può partire dal tema delle case abitate dal poeta, che divengono luoghi dove lo spirito torna, ripercorrendo un itinerario di perdita, iniziata fin dai primi anni, quando “l’occhio raspa il muro /e non si avvede dell’infanzia / in cerca di un’opaca identità”; il trascorrere e lo sparire delle case, della vita che in esse ha preso forma, configura un “morbo irrevocabile”, articolato sullo sfondo di un tempo divoratore “con il suo plenario avvolgersi, / che fa dei lunghi secoli il suo grembo” (un tema, quello della perdita dei luoghi della vita, che torna nella bella traduzione da Kavafis, Il dio abbandona Antonio). Ciò che non si perde è la memoria, vissuta come condanna, pronta com’è “a svelare che la vita / è un cono d’ombra, un ripostiglio d’ansia”, qualcosa “da cui non mi riparo, non mi salvo” (Natale 2019). La vita è dipinta come una teoria di domande che restano senza risposte, fin quando “Si schiude all’improvviso in coincidenze / la porta misteriosa del destino / laddove l’uomo inutilmente batte”; da quella soglia non affiorano se non “echi degli strappi / dell’anima”, dei quali l’uomo resta tuttavia immemore. Ne deriva una solitaria sofferenza dell’io, che richiama altre individuali sofferenze, ritratte e scolpite nel fisico di figure lontane, in apparenza dimenticate, che riaffiorano nei versi a testimoniare una ricerca di solidarietà, di fratellanza. È il canto della sofferenza universale, sfociante in un destino di morte che accomuna tutti gli esseri viventi, il canto di Mattatoi (“Vale a suggello il dolore, / la spenta vanità del nascimento, / il polverio che tutti ci appariglia”), in cui un Dio che presiede al rinnovarsi della vita viene opposto all’iniquità della morte. Se in Lettere dal treno il riaffiorare nella memoria di una “bambina magra / le scarpe senza lacci e braccia ossute / e il cuore senza fiato che non dura”, che crea “un discanto / di pena”, sfocia in un amaro monito (“ora soltanto morde i nostri visceri / quella muta vergogna dei suoi simili”), in Ho visto tutti gli occhi il poeta racconta una storia di sofferenza domestica subita da una donna che si indovina mater familias e anima di una comunità, la cui malattia e morte divengono una morte collettiva, estesa a “noi esclusi dal bagliore della luce”. È un plurale che di nuovo si comunica dal poeta al lettore, oltre la serie finale di ipotetiche dell’irrealtà, nel ribadire un legame che la morte non può dissolvere: “Ora che rivedrai quell’altro sole / noi rivedremo in te la nostra ombra”. Una possibilità di salvezza oltre l’ancestrale, eterna vicenda di colpe e condanne che caratterizza la vita e la storia degli uomini, è adombrata in Soteriologie, nel corto circuito tra l’eternità di tutti e l’attimo dell’individuo: “paga un debito / di vita millenaria un lampo, un palpito / nell’ipogeo e un fuoco mite dentro / e la sostanza avvinta nell’amore”. È in questa poesia che emerge con più chiarezza la vena cristiana, nutrita anche da un intenso rapporto con Mario Luzi, il poeta novecentesco a cui Sanzotta sembra più vicino, anche come tornitura del verso. La raccolta include anche un genere che si poteva credere estinto, l’epitalamio, trasformandolo nel canto di una rinascita delineata nei gesti di un bambino, la cui voce “si leva / più fertile del fuoco della terra”; donde l’augurio finale agli sposi che si estende ad abbracciare il poeta e il suo lettore e diviene conato salvifico (“Resti l’azzurro, fuga verso il chiaro / e il vostro amore (lo ignorate, forse) / che qui ci avvince e al vortice ci scampa”). È proprio all’amore che viene affidata una finale possibilità di salvezza nei versi di Silenzio, ritorno: l’uomo condannato a rimanere ignaro di un destino sentito come forza ostile, trova nell’amore la forza per disinteressarsi di questo limite e superarlo, con un paradosso solo apparente, nel destino, o meglio nel sodalizio, della coppia: “Allora, nel nostro unico destino / tutto avrà senso, vita e compimento”. La donna amata diviene così un angelo salvatore, quotidiana epifania che esorcizza la paura ineluttabile del nulla: “tu tendimi la mano sulla soglia, / salvami da quel sonno, non voltarti”.
M.C.
Ho visto tutti gli occhi
e i tuoi sono contratti in un gomitolo di pena,
sulla soglia all’estremo della casa.
Con le tue mani bianche del pane di domani,
senza nome, hai pregato e digiunato,
celando la ferita nella gola,
scuotendo la tovaglia, accettando la collera ed il vino,
per lasciare la vita di nascosto,
sopra le voci opache degli assenti,
sopra il breviario afono degli umilianti
e della colpa postuma, delle tardive ceneri,
come relitti inani sulle rive del dopo e del domani.
Adesso spilli e spine e vetro e chiodi, seduti sui gradini,
piange chi dalle tue ossa levatrici
hai donato all’angoscia. Avvinti dalla forma
e più non innocenti, beati sotto i rami del castagno,
ci rivedremo un giorno, in quella folta folla di reietti,
noi più aggrinziti, noi più morenti, noi mai più ritrovati,
noi esclusi dal bagliore della luce.
Se solo un suono, almeno, si sentisse,
nella casa di plastica e calcina,
se nuvole listate come i brani delle nostre bandiere
accompagnassero con inni il passo pesante delle salme,
se veleggiassero veloci, a riva, i cormorani,
tra i tuoni delle onde,
in questa pioggia che spavalda scroscia,
noi pure, cui si velano le ciglia,
per cui solo il pensare è riempirsi di dolore,
ti crederemmo ancora e bruceremmo ancora,
redenti dalla notte che ritorna.
Ora che rivedrai quell’altro sole
noi rivedremo in te la nostra ombra.
Lettere dal treno
La bocca si difende con la mano,
dietro la pelle che si increspa, ruvido
riparo delle labbra, è il corollario
di quanto ravvivava di rossore
e ora si spegne e scava e storce gli occhi
in cerchi di pallore immedicabile.
Mi viene incontro una bambina magra,
le scarpe senza lacci e braccia ossute,
e il cuore senza fiato, che non dura.
E non dolcezza d’ombra, ma un discanto
di pena ha quel ritrarsi in dormiveglia,
come lo sguardo a brividi, a frammenti,
come l’idea di lei che muore dentro.
Forse in un’altra vita era pudore:
ora soltanto morde i nostri visceri
quella muta vergogna dei suoi simili.
Già apparsa su «La Repubblica», 25 luglio 2021.
Natale 2019
La memoria non si rivela a salve,
senza lasciare crediti di piaghe,
di sangue nero a fiotti, senza colpi;
e quella mia che ancora si dirama
dalla scuola delle suore, da insonnie
siderali nelle notti d’infanzia
(con lacrime a presagio delle cose)
in che magma d’oscurità si intorba,
sgomina le mie difese di vivo?
Vedo tornare i miei ricordi a sciami
(mio padre con il suo cappello a lobbia
e i guanti gialli, la mia discesa al gorgo),
quasi prossimi a svelare che la vita
è un cono d’ombra, un ripostiglio d’ansia.
Si innebbiano sui transiti montani
le stelle opache, la luna esausta e spenta,
lungo le spiagge anguste del Tirreno
si aggrumano in ristagni di vetraglie
naufragi d’alghe e le stagioni tutte,
da cui non mi riparo, non mi salvo.
Soteriologie
Vaga per l’abitato avanza muta
la notte senza luce, tutta intrisa
di rotte geometrie degli occhi tesi.
Portiamo dentro il segno di Caino.
Dal duplice fluire dello strappo,
dal primitivo, livido albeggiare,
discendono ambedue le colpe a carico
degli avi, il moto complice del male
e nell’indifferente replicarsi
delle generazioni che dissolvono
la vera immagine del padre assente.
Poi quando a mani giunte danzeremo,
nemici del destino, nella cenere,
dietro questo spettrale fazzoletto
a goccia dopo goccia un acquafragio
esonderà sul tempo della storia
e il passato si rimarginerà
ai nostri gioghi posseduti in pegno.
E non si avranno enigmi per le spine
né il velo che si squarcia; paga un debito
di vita millenaria un lampo, un palpito
nell’ipogeo e un fuoco mite dentro
e la sostanza avvinta nell’amore.
Si schiude all’improvviso in coincidenze
la porta misteriosa del destino
laddove l’uomo inutilmente batte.
È un vento d’altopiano,
che viene dalla notte,
per noi che ci crediamo nati invano.
Ininterrotta pena che ci logora
nel mare estremo, oscuro, è il duro cambio
che ci impone una vita in privilegio.
E come il primo amore ci ha legati
ora ci smembra un domandare inane,
l’esile voce in arsi, che si lacera
in quello che è ingannevole comprendere.
Immemori restiamo
agli echi degli strappi
dell’anima che si dilava a brani:
è il transito servile, l’erta ripida
su cui si deve a forza risalire.
Resta il suo nome limpido tra i popoli,
oltre il ricatto iniquo della legge,
luce ai nostri passi la sua parola,
più forte in questo tempo, in questo fuoco.
Silenzio, ritorno
A C.
Tu ed io, per quanto può contare
esperti a risalire la voragine,
fino a che punto d’anni attenderemo
che durino le braci oltre la fiamma?
Il sole batte a gloria sul selciato,
abbaglia gli elementi, svela gli attimi
che serbano per noi memorie care
dei luoghi dove insieme fummo assolti,
da subito, in amalgama e in amore.
Non sai se quell’oscuro che ci agguaglia
se quello sbranco innato delle cose
ci porterà negli infiniti mondi,
se non ci apparterrà la trasparenza
eterna del primissimo albeggiare,
quella celeste chiarità dell’anima
che si ripete notte dopo notte
e inverno dopo inverno rifiorisce
con la pietra scalzata dal sepolcro.
Mantieni vivo il filo che ci lega,
quando saremo a dimora nelle ombre.
Allora, nel nostro unico destino
tutto avrà senso, vita e compimento.
Se serreremo gli occhi nel letargo,
insieme, nello stesso cedimento,
tu tendimi la mano sulla soglia,
salvami da quel sonno, non voltarti.
Il dio abbandona Antonio (trad. da Costantino Kavafis)
A Diana Tejera
Quando si udrà di un tratto, a mezzanotte,
un invisibile tiaso passare
tra musiche sublimi, tra canzoni,
per la fortuna che oramai dilegua
e per le azioni votate a malasorte,
delusa la tua vita e i tuoi disegni
tutti, a lamenti inutili non cedere.
Come da tempo pronto, come un prode,
salutala Alessandria, che tu perdi.
Non dire è stato un sogno, non illuderti
che si ingannò l’udito, invano speri.
Come da tempo pronto, come un prode,
come si addice a te, che ne sei degno,
risoluto al davanzale accòstati,
e commosso alla musica del tiaso,
senza preghiere e vili querimonie,
salutala Alessandria, che tu perdi:
tra gli strumenti eletti del corteo
un’estasi suprema ti accompagni.
Mattatoi
Il rimosso è per tutti il non veduto.
Ma non per me, che da un’infanzia a grappoli
fa visita un ricordo – riemergendo
dall’infimo, a discanto, quell’anonimo
martirio sulla soglia del macello.
Come si torce e trema e scarta e impenna
quell’obolo di nervi, il grido estremo,
la vena palpitante e ingorda, prima,
di inconsapevole vitalità.
Poi resta esangue, però la sostanza
non muta.
Vale a suggello il dolore,
la spenta vanità del nascimento,
il polverio che tutti ci appariglia.
A prova viene il morbo che ci decima,
se Dio sta nella foglia, nel ruscello,
nell’infinito sereno autunnale,
nel lento replicarsi delle cose,
di ogni monotono avvicendamento.
Ora sappiamo che la legge è giusta:
sprizza d’iniquità chi può patire
che il fiume si prosciughi,
che il fiore si recida,
la tua agonia sovrana,
bestia che muori,
sorella nella carne.
La casa (da ‘Diario della pandemia’)
La casa che ho abitato nel
rigoglio,
nell’eccitata rotta in cui si abbrivia
il tempo, in cui si assomma sogno a sogno,
– la casa di via Norcia,
dove ho riconosciuto
nell’ombra ancora immobile la sagoma
dell’uomo che si lancia nella tromba
delle scale. E l’occhio raspa il muro,
e non si avvede dell’infanzia
in cerca di un’opaca identità.
La brulicante ansia dell’ossimoro,
– vicolo San Giuliano, che si stende
sul crinale di montagne di immondizie,
dove la carne mi era complice
ma mi era nemico il seme
del medesimo male di ogni giorno.
In ogni casa c’è un giardino di mestizia
e quella la rammento
perché è durata un po’ più a lungo
– nel mio ritrarmi obliquo – la caligine
del mio languore limaccioso,
sempre in ritardo sul principio e sulla fine.
Il nuovo mondo mi appariva esangue
in quel letargo, attonito, del cosmo.
Con fedeltà, con calcolato affetto
per l’ingiusta prigionia non risarcita
a via Plinio sono andato sui vent’anni.
Nei gomitoli di polvere, a parità di fuoco,
al bando di ogni mutamento,
nella memoria ancora si sbalestrano
tracce di eternali cattività.
Ma è memoria artificiale, in cui si amalgama
l’improvvida alchimia del non sapere
al certosino rammendare,
al taciturno passo sopra il guano,
a ritroso nella valva della storia.
Ma bella più di tutte
è la casa di campagna,
che inverte l’alto e il basso
e scambia l’alba con la sera.
Il sole valicando i monti
con la tempra dei suoi barbagli immàcola
i labirinti della notte, è il solco
tra la morte e la vita ancora informe,
che ridà pace al sonno degli insonni.
Non è la sola che ho lasciato, Olévano,
ma è la sola dove si incaglia il cuore
nel presagio che dopo volti e
suoni
anche di quella arretrino i ricordi.
Il morbo irrevocabile ci giunge
al séguito, di strame in strame,
di altri infiniti morbi, a fare casa
questa che ancora non comprendo,
in via Cardano 30. Io la destino,
come le altre, al macero e alla ruggine,
al tempo con il suo plenario avvolgersi,
che fa dei lunghi secoli il suo grembo.
Epitalamio
Per le nozze di Alessandra ed Emilio
Ora, settembre, è il mese del pensoso
congedo dalla noia, dalle eterne
canicole d’estate, un nodo d’ansia,
un grumo che si scioglie perché tutto
di nuovo ricominci. Dal giardino
la voce di Giovanni che si leva
più fertile del fuoco della terra
e con stupore acerbo insegue il volo
a guizzi delle falene al crepuscolo,
solo nella penombra, sotto il portico.
È il senso delle cose che ritorna,
come sempre, in un atomo di luce,
nell’ora delle confidenze a cena.
E non è forse, benché fioca ancora,
quella luce una luminosa pace?
Vivete una felicità senz’ombra,
a scherno della Parca che contende
a noi la vita, il filo, il cielo e l’oltre.
Resti l’azzurro, fuga verso il chiaro
e il vostro amore (lo ignorate, forse)
che qui ci avvince e al vortice ci scampa.
Valerio Sanzotta nasce a Roma l’8 marzo 1979. È ricercatore presso il Ludwig Boltzmann Institut für Neulateinische Studien di Innsbruck e si occupa prevalentemente di filologia medievale e umanistica e di letteratura latina di età moderna. Parallelamente all’attività di studioso, Sanzotta coltiva da molti anni un’intensa attività di musicista e cantautore. Ha pubblicato tre album: Novecento (Capitol/EMI, 2008), Prometeo liberato (VREC/Audioglobe, 2018), Naked (oltre lo specchio) (VREC/Audioglobe, 2020).
A N T O N I E T T A B O C C I
Fotografia di Mauro Scagnol
Poesie inedite e edite su rivista
SEDUTA
Sarebbe altrimenti permesso
rifuggire oppur soddisfare
dell’anima un tale tumulto.
Ma sembra che qui sia la ‘cura’ –
sfiorare l’essenza dell’Altro
e mai afferrarla davvero.
In questo spazio e questo tempo,
è concesso solo sedere
con ciò che nel cuore già vive.
L’ETERNO
Per venire ad incontrarti
percorro l’arduo sentiero
dentro il giardino dei sogni –
quelli difesi e nutriti,
quelli sfioriti ed amari,
quelli lasciati a morire.
Canti dolorosi sulle
labbra, fra le braccia un fascio
di recise attese – In questa
pace perfetta domando
a te, terreno miraggio,
la verità sconosciuta.
Mele silvestri s’un cielo
di fredda purezza invitano
alla fede. Chiudo gli occhi –
Ecco che tu puoi vedere,
cogliere un pianto d’amore,
gustare il suono di un nome!
Poi me ne resto in silenzio,
dentro l’abbraccio pungente
d’una acquisita coscienza –
nello splendore d’aprile,
noi siamo parte del vento
che danza con la betulla.
IN MARE APERTO
A frotte, come esiliati
chiedenti asilo, parole
affollano una coscienza
angusta e sbracciano verso
la riva d’un senso certo,
d’un valore decisivo.
Benevole teorie
– o carnefici incoscienti –
vi colgono grida antiche,
inascoltati bisogni,
schemi ripetuti dentro
labirinti senza uscita.
In balìa di sé resta
la sincerità mortale
di quei segni, risoluti
a denunciare una smania
assordante a chi salvarli
non vuole ed ormai silente
li annega.
VISIONI DAL DI DENTRO
È essenza, quella voce inattesa
È palpito, l’incredulità mia
Sogno – velato, pauroso, tremante
È velluto, quella mano vicina
È arresto, il mio battere d’ali
Fusione – forte, arruffata, reale
*******
È amaro, l'immenso tuo strappo
È ritardo, l’ansante mio fiato
Piena – sanguigna, furiosa, bruciante
È grembo, quel tuo effluvio distante
È vetro, questa mia nuova casa
Chiaro – gelido, accecante, sofferto
*******
È pianto, quel cantare tuo lieve
È bacio, quel tuo sfiorarmi il piede
Miraggio – bagnato, acceso, tenace
È amore, il tuo abbraccio di lana
È spasmo, questo treno che mi scuote
Neve – temuta, obbligata, infinita
MEA CULPA
Esistevi in un’anima che ardeva freddamente
Ansimasti nell’indifferenza dell’Universo
Stretta forte ad una mano pronta alla diserzione
Dormivi cullata da due braccia sfiduciate
Ti avventasti contro un muro sordo al tuo furore
Inseguendo aliti d’amore foriero di lutto
Posavi ignara per ritratti brillanti di buio
Navigasti la guerra disperata dell’attesa
Piangendo i baci persi con conati di silenzio
Confidavi in un grembo dalle promesse illusorie
Svenisti a una crudeltà offensiva della Vita
Soffocata da un futuro che ti avrebbe trafitta
Marciavi spedita verso brucianti rimembranze
Respirasti con tenacia l’infezione del mondo
Cedendo per sempre alla mia scelta scellerata
MATTINI D’ATTESA
Nel buio denso il corpo è greve, come pietra al collo.
Pochi passi tra me e la scenografia disposta
per rinviare il desolante commiato dal riposo.
Tutto allestito – la cuccuma pronta al giornaliero
brontolio, la chicchera lasciata in vuoto indugio,
il cucchiaino solitario lì sul tovagliolo.
La luce cola dalle tende dischiuse, affettuosa
m’incoraggia a completare il transito dal pianeta
del prendere a quello del dare. Dal nulla riaffiora
un’immagine cara, il cestino del pranzo ai tempi
dell’asilo – spettatore quotidiano di giochi,
immancabile consolazione nella disfatta.
M’arrampico lungo la scala, illuminata adesso
d’un bagliore caldo – in cima mi aspetta una promessa.
Sedendo al margine di un letto sempre addormentato,
trovo un aroma fuggito a mia insaputa. E ancora
mi coglie l’andata gioia semplice di sfiorare
questo viso e quel grembo, sussurrando C’è il caffè…
POST MORTEM
Quando, afflitta dalle imboscate di coloro
avversi all’indulgenza, ritorno alla tua
targa di legno inerte e fradicio, mi piace
interrogare il mio futuro svanito –
Se domani salpassi per un’esistenza
pura, fatta di sole e di promesse, verrei
di nuovo a posare rami in fiore su questa
mia fredda, disincantata terraferma?
Strappando erbacce sotto il selvatico melo
in un presente ora avvizzito, mi sorprendo
capace di sognare un giorno che rituali
di quiete dall’anima più non pretenda –
Potrò mai stemperare, vivendo, la fitta
acuta che ancor mi afferra il collo e mi spezza
il respiro e mi lascia moribonda presso
la tua casa d’albero, piccola mia?
INCROCI OBBLIGATI
Lei è ape di sé ignara,
ali cristalline dal peso
micidiale, ventre strappato
via ancor prima dell’Errore –
Volando eterna dentro un cielo
d’aquiloni confusi, insegue
i suoi sfuggevoli E se invece...
Tu sei bacca di neve, fiero
grappolo di spensieratezza,
fiori bianchi concessi in dono
a chi era disposto a rischiare –
Le tue impazienti capriole
di risa son prova carnale
d'imperscrutabile destino.
Lei è gioia che strazia, vuoto
a cui mi aggrappo mentre affogo
nella memoria di nottate
di cemento. Tu sei splendore
che sorge verso Nord, azzurro
sguardo in un corpo eneo, figlia
d’un sogno che non mi appartiene.
INAMOVIBILE
La tua lista d’incombenze urgenti
è sbiadita ancora nel sole amaro
d’un torpore remoto, atrofizzante.
Sulla carta increspata da una tazza
che perde, il blu di china torna in vita
in brucianti lacrime al gelsomino.
Lo lascerai asciugare di nuovo,
languido bagnante di questa estate
già conclusa e spessa di nostalgia.
TRA UNA FITTA E L’ALTRA
La mia ricerca di coscienza
è un boccheggiare di continuo
cercando invano di riportarti
nell’intimo dentro ad un respiro.
E la saggezza degli altri è come
grido di mostro che non s’accorda
con la partitura dell’aiuto.
La mestizia di città quest’oggi
non ospita che le membra della
nostra anima, il resto ormai da tempo
s’è decomposto. Mi volgo dunque
a ricordi d’amore, sembianze
di promesse che furon credute –
Davvero l’esito ignoravamo?
Di tanto in tanto, l’alba ha il gusto
degli occhi che coi baci evitare
non sapemmo. Ma come previsto
non tarda il tempo in cui questo cuore
si stanca di morire e depone
le armi all’ennesima compressa
di buio.
NELLE CASE DEGLI ALTRI
Vagiti cantano alti
dentro culle di luce,
non sbiadiscono muti
nelle foto di un giorno.
Nell’aria c’è sfacciato
profumo di domani,
non polvere a valanghe
che congela l’odierno.
Non si resta invischiati
in resina di ieri:
c’è ronzare di Vita,
pungente ansia di gioia.
Nessun cerotto sulle
vesciche dell’amore:
si rompano le sacche,
ne sgorgherà coraggio.
Respirare è un atto
riflesso, non fatica
da compiere ogni volta
si veda un carrozzino
mai usato in cantina.
TANTO MIGLIORE DI ME
Respira tu, dentro questa
lana di vetro – che assorbe
una furia sacrosanta
ed un’assodata colpa
silenzia, la fame della
coscienza smorza e attutisce
il rifiuto d’ogni resa.
E se – con occhi infuocati,
bronchi polverosi, pelle
graffiata via – su questa
angoscia oserai posarti,
piangerai certo i confini
rassicuranti di vecchie
occasionali fatiche.
SUL LIMITARE
Per giustificare l’apatia,
di sera ripasso attentamente
le tue dubbie frequentazioni –
i malati mentali, i codardi
in comoda fuga dai doveri,
i peccatori che non potranno
sperare nell’ostia del perdono.
Nei frantumi di sonno alternati
alla coscienza, non sono in grado
di schivare domande moleste
come mosche intontite dal caldo –
E se invece tu fossi riprova
di saggia Indifferenza? Se fossi
somma affermazione dell’Umano?
Quando nel tepore del mattino –
l’anima sgualcita di rimpianto
per l’ennesima occasione persa –
fantastico sulla meraviglia
della tua voce, mi domando
in che lingua avresti sussurrato
Amore, ti aspettavo già da un po’.
UN SOGNO
Nella veglia s’insinua
una disperazione –
le lame del reale
riducono a brandelli
lo sfuggevole incontro
fra desideri umani.
Il volto si contrae,
le palpebre serrate,
disabili le orecchie –
tutto l’essere aspira
ad inseguire un’ombra
d’utopico ricordo.
È nel sonno soltanto
che dimora il senso – una
bocca che della vita
ride, mentre la mano
ricopre d'immortale
terra un’eco di figlia.
SCIVOLAMI PIANO
Non sono mie quelle gambe
che scorticandosi s’inerpicano
su per l’inespugnabile – Io
remigo in acque piatte, verso
sicure ordinarie vittorie.
Né più mi appartiene la mente
che serena soffoca il dubbio,
sprezzante dell’umano errare –
Oggi tremo di fronte al bivio,
fantasma dell’irreparabile.
Onde di mare alle caviglie
s’avvinghiano, lingue di cane
mordono le mani – La vita
non intende ancora concedermi
il riposo, tu nondimeno
sai già come sedermi accanto.
FIGLIA MIA CARISSIMA
Il pacco inviato da casa
non è mai giunto, al confine
ne avranno intercettato
l’illecito contenuto.
Accoglienza affine spetta
persino agli esseri umani.
Non chiamano più gli amici
da Londra, saranno stanchi
di sognare d’incontrarsi.
Respirare resta ancora
una lama puntata alla
gola reciprocamente.
Il quinto aborto spontaneo
è stato la settimana
scorsa. L'autunno si posa
sull'acero giapponese,
sulla tua sepoltura,
su questa voglia di vita.
Nota biografica
Linguista per passione, formazione e professione, Antonietta Bocci ha trascorso la sua vita adulta in uno spazio diasporico a cavallo fra quattro paesi e tre continenti, lavorando come insegnante, traduttrice e interprete. Scrive poesie in doppia lingua (l’italiano natio e l'elettivo inglese), seguendo un procedimento per cui le due versioni si contaminano a vicenda, anziché essere solo l’una la trasposizione dell’altra (è in corso anche un’auto-traduzione in lingua cinese, con revisione di Xu Lilong). I suoi scritti sono comparsi su riviste e blog letterari italiani (Poesia Ultracontemporanea, Carte Sensibili, Margutte, Frequenze Poetiche) e statunitensi (Coffin Bell, Snapdragon, Gyroscope Review), e sono stati finalisti o segnalati per merito in concorsi poetici in Italia, Europa e Cina.