Inediti
Non salire. Non lasciarti
intrappolare sulla vetta.
Tutto ha ricchezza
dal basso.
E tu raggiungi,
sempre più lontano,
l’abisso …
Raggiungi! E una volta lì
riparti, memoria esile e
cammino –
tu che sei i piedi
la stessa strada,
la traiettoria che sfina
le foglie e culla
la rugiada.
È come un indizio
di tempo,
l’inizio o la sorpresa
di chi sa
quanto dice e che,
quando dice,
sa che ha già perso,
che nulla ha più significato.
Chissà come ci apparirà,
vedendo da lontano
questa casa. Quest’ombra
questa forma immutata
tra le strade ad angolo
con le finestre aperte
dove sostavi ad ospitare
lo sguardo di un passante;
Chissà come ci apparirà,
quasi inesistenti come siamo,
la casa che
agli altri, un giorno,
apparirà
di nessuno.
Ma noi siamo qui.
Tu hai riordinato
il formulario che ci tiene insieme
i sentimenti,
l’accordo tacito di chi
conviene con la follia.
Anche noi vorremmo, un giorno,
ritornare a questa casa.
Riabitare l’antico campo
delle prime parole, dei primi versi,
delle prime strofe.
Come ci apparirà
lo sa chi non è mai
restato a terra
ma scivolando giù
nella corrente
ha potuto intravedere
una sosta di come si sa,
era ovvio,
perché tutto, a noi,
apparirà inverosimile.
Come un raggio che
perpetua pioggia
divarica per metri,
la mia luce a te distante
da me dista più di te
che tremi.
E non il freddo,
né la neve, è questo dolore,
ma il vischio che
t’incolla
in questa ferma cartilagine
di essenza. (Ma dove
ricompone
l’anatomia perfetta del
destino?).
In nessun luogo amico,
in nessun posto
o altrove c’è confine,
ma solo la voragine
il vuoto che conserva noi
stessi casualmente,
noi che siamo troppo ciechi
per volerci persi.
E già profonda.
E già tremendamente profonda
l’acqua,
t’affonda il peso
delle vene,
piene immancabili
lì dove l’acqua vedevi e
fingevi la fonte
nella giustapposizione di verdi
nel faggeto fresco
umbratile,
sommità della vetta
dopo il paese fantasma.
Già sprofonda
tremendamente,
l’acqua
e tu con essa
nella maceria di frali pendii,
di crepitanti fuliggini,
degli uccelli colorati
tutt’intorno.
E non ti riconosci più,
non ti vedi più
com’eri, com’eri stato, come sarai.
E ti si avvinghia
la voglia di tenerti in vita
miseramente,
pur sempre in vita,
dove tace
un dio che non credevi,
nei pascoli celati alle città
in luoghi inarrivabili
intatti immobili da sempre,
nella conquista
eterna della luce,
lì dove quando arriva
notte, la luce non c’è
più.
Un sospiro sul morse
della serranda
punto linea punto
di un dettato antico …
il sole recidivo tra le tende,
impoverito
dall’abete.
Qual è sembianza di questo nome,
innominato lamento
che significa sorpresa
meraviglia,
pomeriggio di noia che
trapela in casa
a gocce infinitesimali
di cicale e auto solitarie.
Non avrai pensato,
follia, che questo nome
fosse il mio,
di un bianco che riversa
nel convesso
del pensiero
che raccoglie
questo ultimo lamento.
Poesie edite da La perizia della goccia (Affinità Elettive, 2017)
Sezione: Nelle mani si perde
Al porto i pescatori
i rumori del porto sono jazz
le onde battono e ribattono e battono
sul legno improvvisando.
i pescatori non abbassano lo sguardo
e mettono lucciole alle lenze.
uno bestemmia e l’altro
più giovane lo guarda tacendo.
la radio trasmette la partita
qualcuno perde e c’è chi strappa
la scommessa. vento di piscio e salsedine
al faro. i passanti ignorano la danza
dei pesci all’amo fuori dall’acqua.
le voci anziane raccontano di amori
passati in altre notti all’alto mare.
i ragazzi ascoltano e ancora tacciono
quasi nudi come gli altri prima d’ora.
io vorrei delle comete scrivere
accese d’estate nel traffico serale
mentre osservo queste due generazioni
inciampando come nella vita.
Riccardo Canaletti nasce nelle Marche nel 1998. Ha vinto vari premi per inediti. Nel 2018 pubblica il suo primo libro di poesie, La perizia della goccia (ae edizioni, prefazione di Umberto Piersanti). Suoi testi sono apparsi su Poetarum silva, Interno Poesia, Poesia del nostro tempo, il blog della Rai di Luigia Sorrentino, Carteggi letterari. Ha registrato nell’archivio permanente VIP (Voices of italian poets) dell’università di Torino, diretto da Valentina Colonna. Ha partecipato a vari eventi, tra cui Parco poesia 2018. Suoi testi sono tradotti in spagnolo, portoghese e russo. Collabora con Nuova Ciminiera, Yawp, Midnight Magazine, Argo e ha gestito il blog di approfondimento culturale Prospectus (Noa Noa).
Inediti
Scivola voluttuoso come burro
bagnato nelle orecchie
il morso ringhiante dell’attesa,
il cane prepara piano l’attacco alla notte
che non sa della sua morte nella pazienza,
un’ombra opaca lo guarda dal buco
d’un muro, non ha occhi né bocca:
è plasma di bava furiosa, racchiude il DNA
d’una felicità perduta.
I bambini di sabato si rincorrono
nei vicoli coi bastoni tra le mani
giocano ad afferrarsi per percuotersi
le ansie alle anche, non sanno
della rondine caduta a brandelli
ferita e pulsante sotto la plastica,
non sanno neanche del pianto vischioso
dell’uomo alla finestra che li guarda
feroce a ricordarsi delle corse sbucciate
nel tempo brillante dei baci vergini.
I bambini che di sabato ridono alla morte
non sanno non sanno non sanno.
Anno dopo anno s’accresce il ghigno
bianco della violenza, decresce il riso
nero dell’innocenza.
Caro diario,
oggi nella stanza stramazzavo
come corpo vivo cade senza motivo
gettato in semi ad attendere la fioritura
direttamente proporzionale
alle lacrime in procinto di versare
sparpagliato riversavo sulla battigia
bianca lievi pezzi di carne che poi
volavano via, rivestivano i pullover
al posto mio, creavo un altro
mondo dov’ero l’unico Dio.
Piano nella stanza oggi stramazzavo
senza motivo, al mio corpo
vivo ho fatto la quotidiana autopsia:
ho trovato negli organi
una strana forma di nostalgia.
No, non vivremo più il tempo giovane
della ferocia estiva, un lembo urlante
il passato ci resta tra le mani e
basta. Non vivremo più il tanto amato
passeggiare tra le luci del sabato, trepidanti
nell’attesa di una sposa a cui bianca donare
una colomba. Siamo sopra la scia di una
lumaca morta da millenni, inutile cercare
la replica del guscio, ciò che siamo
non eravamo, ciò che eravamo
non saremo. Saremo e
basta. Tanto quanto basta per lasciare
nuove scie d’imperfetto
e il perpetuo tentativo di ricongiungimento
all’oro tenuto in bocca dalla gazza
pietrificata sul ramo del lago di niente.
Lorenzo Pataro è nato e vive in Calabria in provincia di Cosenza nel 1998. Studia Lettere Moderne a Salerno. Lo scorso giugno è stata pubblicata la sua prima silloge poetica per Controluna-edizioni di poesia “Bruciare la sete” con la prefazione di Eleonora Rimolo. Diversi testi sono usciti per riviste e Lit-blog come Atelier Poesia (uno di questi è stato tradotto in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti di Antonio Nazzaro), Poetarum Silva, YAWP: giornale di letterature e filosofie, Frequenze poetiche, Menti sommerse per la rubrica “I fiordalisi”, Poesia Ultracontemporanea, Neobar, Limina mundi, Poesie sull’albero, Un posto di vacanza, La rosa in più.
foto di Erika Secondino
Editi da RIME, 2018
1. “Il bianco...
*
“Il bianco
- del foglio vuoto
di parole - è il gesto,
la reazione,
è misura. Delle parole
che non volesti chieste,
di barche mistiche,
delle orchestre sommerse
e di isole squamate
nella mente
non interessa niente
più a nessuno. Le pagine
sono piene di gente
e la parola
giusta per dire
cos'è l'assenza
come condizione
è nuda
e cade in altre
e più afone assenze.”
2. “Il sole...
*
“Il sole
- ai tetti mattone
di colore - è avvento,
visione,
è futuro. Pelle di colore
diverso fissata sui muri
manifesto o drappo di giornali
o nella saliva che invade
o che vaga sotto i diluvi
nel sale
a patto che galleggi
è paura. L'imbeccata
che distrae
nella sala macchine
mentre incaglia
da molto profondo
una roccia
la chiglia
radente il fondo
più buio dell'animo.”
3. “La noia...
*
“La noia
- quando brucia
il sonno - è pura,
bipede,
è traslazione. Nel sonno
i vivi rincorrono le fiamme
con occhi obliqui
tramite richiami
dove darsi in luoghi diversi
una notte
frutto di extrema ratio,
emblema di precisione. È abitudine
ringraziare gli avventori
che hanno consumato
seduti su gomitoli
soffici di vetro
per aspersa cenere
sulle geometrie del cuore
la volontà a capire
o per volontà a svanire.”
4. “Il silenzio...
*
“Il silenzio
- è il tempo certo
a capire - dentro
è messa a fuoco,
lo necessito. Per capire
i giorni corrosivi diluiti
liquidi amplessi estrosi
e nelle regioni esterne
il cuore imbizzarrirsi
onestamente
è più lo spazio che si perde
che conquista. Spulciare
cluster di ricordi
e l'ansia di vivere
non crea disillusione
o redige bugiardini
semmai inonda
torbide depressioni del pensiero
chi disteso su un lettino
chi a fissare il limitato cielo di un soffitto.”
5. “Il fuoco...
*
“Il fuoco
- a confine, oltre
le sbavature - è deviatore
di binari, è attitudine. Per sbavature
l'arto chelato per recidere
stimoli emulativi accresce
per infinita educazione borghese
nei corpi
a dismisura
nel becerume a passeggio
fra nuove coclidi. Chiaramente
la natura delle circostanze
trascende le tempistiche
e la tempra |
quasi una dicotermia
degli affetti sul piano emerso |
così chi sia sia
ad attendere grafemi o intuizioni nell'etere
resta muto come un pesce.”
Marco Di Meco nasce a Chieti il 5 febbraio 1982. Diplomato in SocioPsicopedagogia con una tesi sulla "Musicoterapia", sin da giovanissimo intraprende lo studio del flauto traverso sotto la guida del M° Sandro Carbone presso il Conservatorio Statale "L.D'Annunzio" di Pescara. Prosegue i suoi studi musicali al Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano con il M° Mario Ancillotti. Ha concluso il suo percorso formativo all' Accademia Italiana del Flauto di Roma nella classe del M° Angelo Persichilli. Durante gli anni formativi ha partecipato a diverse masterclass con i flautisti Karl Heinz Schutz, Luisa Sello, Frederique Saumon, Antonio Amenduni, Stefano Parrino. Ha seguito i workshop di musica afroamericana tenuti dal Columbia College Chicago e dal Berklee College of Music. Debutta come solista nel 2001 all' auditorium "E.Flaiano" di Pescara con il concerto KV313 di Mozart assieme all'orchestra del Conservatorio 'D'Annunzio' diretta dal M° Rinaldo Muratori. Entra a far parte della Fanfara dell'Accademia Navale di Livorno. Terminato il servizio di leva riprende l'attività concertistica, fondando diversi ensamble cameristici, che lo porta ad esibirsi in tutta Europa e ad essere ospite in numerose trasmissioni radiotelevisive per la RAI, RSI e molte altre. Di rilievo è anche l'esperienza maturata presso le compagini orchestrali dove ha suonato sotto la bacchetta di importanti direttori quali Luis Bacalov, Giorgio Bernasconi, Lu Jia ed altri. Debutta nel 2014 con l'album '5 Colori'. L'album ottiene ottimi riscontri nelle vendite così nel 2015 pubblica 'Rosalinda'. Nel 2016 rilascia il doppio album 'Lucilla'. Il 28 febbraio 2018 pubblica l'album 'Against Capitalism: Première Symphonie'. Parallelamente all'attività musicale Marco Di Meco scrive poesie. Dal 2005 ad oggi ha pubblicato 'Luci di Luna' (2005), 'Il Passo delle Sensazioni' (2005), 'Teatro Evanescenza' (2006), 'Le Isterie di Jennifer' (2012), 'Artemisia, la Rana Pittrice e la Farfalla' (2016), 'Negativi ed Altri Versi' (2016), 'Intermezzo' (2017), 'DETRITI' (2018), 'RIME' (2018). Ha pubblicato anche per la didattica musicale il volume 'Armonia Applicata - Gli Accordi' (2017). Pubblica la raccolta di brani 'Notes for a Symphony' (2017).