GUGLIELMO APRILE
Guglielmo Aprile, Tutto l'oro del mondo, Carabba edizioni, 2024, collana "Diramazioni" diretta da Giovanni Tesio
"La natura, il gheriglio della vita
che va in cerca dell’alchimista
– non a caso dell’“aedo”, del poeta-cantore –
capace di coglierne e di dirne le meraviglie
più manifeste e più segrete, le
vibrazioni celesti e celestiali (l’“oro”
del titolo), gli occultismi delle sillabe
che si connettono e che consuonano
in florilegi e rabdomanzie metaforiche.
Il vino dei mattini, la cornucopia
delle sensazioni, l’oceano mare, i regni
sommersi dei fondali, la bellezza
degli incanti, l’alto e il basso del mondo,
il sotto e il sopra, la superficie e la
profondità in una poesia – questa di
Guglielmo Aprile, già di per sé un fiorire
di nome – che non teme di cedere
al suo entusiasmo vitale, di celebrare
l’esistente festeggiando i suoi rituali, i suoi miracoli."
dalla sezione " QUADRI SICILIANI"
1.
Il mattino ha scolpito i lineamenti
di questo luogo, cieli rocce alberi,
nel plasma vivo della prima luce
che si levò sul mondo appena nato;
e queste cime, che sanno chi sono
da sempre, anche se per la prima volta
vengo oggi al loro altare verticale
a inginocchiarmi, queste cime aprono
il loro abbraccio e accolgono il mio corpo
per offrirgli ricovero: e mi sento
io nella loro conchiglia la perla;
e in quelle creste lassù che s’inseguono
vedo cavallerie pietrificate,
criniere di pini e di olivi, il vento
le scuote e sotto la frusta del sole
scoccano fiamme: nella loro fuga
ogni ricordo ho sepolto ho disperso
ogni vestigia dei miei giorni di uomo –
barbara apoteosi in cui rinasco.
2.
Ierocrazie di nuvole e di colli,
inumane vestali delle altezze,
sacerdotesse severe che tengono
in duomi aerei segrete assemblee,
ministre radunate per un rito
da celebrare sulla scoscesa abside
di una scogliera, per un sacramento
da officiare che in processione convoca
pini e oleandri, folle vegetali
che scalano le pendici levando
ad una voce un monotono salmo
di acclamazione al sole quando valica
vittorioso una cresta e si fa araldo
di un dogma dolce, di un annuncio certo
che non ammette opposizioni o repliche:
che vivo è il mondo e che ogni sua parte
ha un’anima e con tutte le altre forma
una sola unità, un essere sacro.
3.
Mura di una fortezza, queste alture,
che a un geloso forziere, non visibile
a chi volga in su gli occhi dalla spiaggia,
stanno di guardia; ad ogni picco il mare
e ad ogni scoglio ordinò di difendere
ricchi granai, piantagioni di spuma
appartenenti ai suoi feudi; sui fianchi
della mole, sui ripidi bastioni
avvampanti nel tremolio dell’aria
si scorgono, attraverso feritoie
scavate nel granito, sentinelle
appostate che occhieggiano, che vigilano
in mezzo ai rovi, sparse nel groviglio
vegetale; e rilessi di armature
dal fogliame metallico balenano,
avanguardie di cardi e di agrifogli
che dai merli svettanti spiano, scoppi
di fichi d’India fra massi frananti;
cauto lo sguardo scala le alte creste:
l’oro che le orla lo alletta e respinge.
4.
Il fabbro schivo che scavò il suo esilio
in questo nido di rocce e fogliame
immerge in mare le sue mani enormi
e tempra una corona incandescente
sul capo spettinato della baia,
che ha come ciocche spume e buganvillee;
di un delicato incendio, di un barbaglio
violento e insieme tenue, di un vivo oro
all’unisono bruciano
il mondo e gli occhi che ora lo fissano.
5.
Febbre del mezzogiorno, il cielo brucia:
si è fatto bronzo fuso e prende forma
in una spada puntata allo zenit;
mutano in volti pietre piante e nuvole
e i volti in fiamme, e le fiamme delineano
la scena di un arcaico rituale,
quando un re insieme a tutta la sua corte
si gettava nel rogo: riscattava
il sole dall’ostaggio della notte,
offriva in pegno il suo corpo al supplizio
perché tornasse un altro anno il solstizio.
6.
Mezzogiorno, unto del fuoco è il mondo;
esultano i colori: da ogni poro
del suolo o ciuffo d’erba, da onde e sabbia
un oro esala, un alone diffuso
da una vampa che in linee e superfici
si annida e in onde si propaga ai corpi
e li abbaglia; nel liquido smeraldo,
nell’iride della laguna, gemma
incastonata tra bracci di roccia,
io mi distendo e il mio nome dimentico
e la mia storia, avvolto dalla seta
fresca dell’acqua, dalla sua carezza;
sulla mia fronte il cielo sembra esplodere
di una tempesta di spade che danzano,
di un bianco boato che spande
flotte di cigni, processioni calme
che lungo piste invisibili incedono.
Per troppa luce gli occhi sono roghi;
bruciano fino a sciogliersi nel sole.
Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive ad Ischia, dove si è trasferito per lavoro. È stato autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali Il dio che vaga col vento (Puntoacapo Editrice, 2008), Nessun mattino sarà mai l’ultimo (Zone, 2008), L’assedio di Famagosta (Lietocolle, 2015); Il talento dell’equilibrista (Ladolfi, 2018); Il giardiniere cieco (Transeuropa, 2019); Falò di carnevale (Fara, opera I classificata al concorso Narrapoetando 2021); Il sentiero del polline (Kanaga, opera I classificata al premio “Arcore” 2021); Thanatophobia (Progetto Cultura, opera I classificata al premio “Mangiaparole” 2021); per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.
Diramazioni è la collana con cui le
edizioni Carabba danno vita a una
nuova e unica collana di poesia che
esce a cura di Giovanni Tesio. Il
nome allude ad alberi, strade, montagne,
che si sviluppano in direzioni
e destinazioni diverse mirando a una
contemporanea pluralità di indirizzi:
esattamente l’intento che la collana
persegue. Poesia nelle diverse lingue e
di diversa intenzione, senza pregiudizi
di poetica o di settore. Nessun proclama
di indirizzo, nessuna professione
di fede; semplicemente la ricerca di
voci capaci di indurci a credere che, se
non proprio a salvarci la vita, la poesia
ci aiuti a rendere migliore – qui – il
nostro umano soggiorno.
MICHELE PIRAMIDE
Michele Piramide, V, Affiori - Perrone editore, 2024
(nota di lettura di Elisa Ruotolo)
È sempre difficile entrare nella parola che diventa poesia. Ho sempre pensato che nel momento in cui si sceglie di praticarla si entri in un sottofondo di allusioni e vissuto a tratti inconfessabili. Allora forse l’ultima cosa richiesta è proprio questa: la decifrabilità. Il titolo della raccolta è misterioso. Bisognerà arrivare agli ultimi versi per ricostruire un disegno: un’ipotesi che ogni discorso poetico accoglie, ma a patto che non sia l’ultima. Risuona da subito un nome, Enzo-Vincenzo, raccontato attraverso frammenti di un quotidiano condiviso e fitto di modernità. Piramide non teme di inserire nel suo verso termini come Facebook o soundcheck o xanax, eppure questo lessico convive con elementi biblici ed epici creando un interessante straniamento. La voce che incede, di scena in scena, dato che la ripartizione in atti rimanda fortemente a una ideale teatralità, sminuzza il tempo, lo segmenta: riferisce piccoli fotogrammi in cui l’incontro, l’amore, la maceria, lo sfinimento del vivere e il bisogno del ricordo, sono sapientemente mescolati. A volte accumulati, riproducendo la maniera che ha il tempo di tenere insieme ciò che spesso non collima, eppure esiste (rotte rotaie di tenebra/lenzuola terra e 8 lacrime/corpo e lividi/lembi di ventre sogni/lama verbo e niente). Il tutto, il molto e il suo contrario. Ché in fondo è questo che siamo: un impasto del tanto e del niente, un insieme di passato e sparizioni. Un istinto al ricordo e alla veglia del perduto che – più di tutto - ci tiene in vita.
Inverno 1997
Atto terzo
Macerie
T’ho vista fare la ruota
tra suoni popcorn e dissesti.
Le figlie adulte degli altri
sepolte in un concerto muto.
Topi uomini di provincia
davanti l’ultimo soundcheck.
Ho sbattuto la testa
sui tuoi pensieri interrotti.
Macerie.
Getta i dadi,
fili di fiori e luci bianche,
mordimi la vita
a sorsi di tetrapak.
Biscotti di fumo e polvere,
inghiottendo la notte
su biciclette di malasorte.
Riportano al mar Morto
padri stesi sulle sottane
e pavimenti lividi.
Ai concerti di tramontana
insorgono i pensieri
sui pugni al cemento
in overdose.
Xanax
Hai un abito indaco
e suole di pensieri scartati.
Dimenticati sul mio divano
sottili come Solitudini in filigrana.
Ho bevuto caffè e sambuca,
l’altro l’ho pagato a i tuoi mostri.
Ha un pessimo sapore, tu un ottimo odore.
Guarda,
c’è una voragine nel mio petto.
Tocca
le mie aritmie.
Cadere di versi
al tavolo della nostra eclissi,
complici
inventiamo fantasmi.
Stringo
i tuoi deliri meridiani.
Gettami nel vortice
di un sol diesis.
Fragile,
resta tra i miei appunti.
Bagnami;
lavami tra i tuoi stracci.
Ombre e destini
tra i tuoi seni.
Stendi le mie paure
vuote al sole.
Sento nel vento
il tuo respiro.
IVAN POZZONI
«IL MINCHIONE»
Oggi ho scoperto, su un lit-blog, dalla lectio di una decerebrata dilettante
che, nei miei studi di storiografia letteraria, sembrava esistere un anello mancante,
il mio macro-errore è stato far consistere l’intera letteratura del Novecento
nella linea del trinomio Dossi/Lucini/Sanguineti e sul tema del dédoublemento,
l’originalità dei fatti ha smentito la mia opinione
l’asse centrale della letteratura italiana è il tema del «minchione».
Il «minchione» inizia a dispiegare la sua forza nel verismo,
col binomio «minchione»/Verga non si rischia l’eufemismo,
l’uso del termine è rilevato, in recidiva, nei meandri del triveneto teatrale
il binomio «minchione»/Goldoni causa un abbinamento anticoncezionale,
non riuscì a non infilarsi nella querelle tra neo-classicismo e romanticismo illuminato
il binomio «minchione»/ Manzoni è sinonimo di un castrato Innominato.
É il terronismo partenopeo delle sorelle bandiera a cagionar lo scorno
il binomio «minchione»/Giusti pare esser titolo di un film porno,
rimurgino sul quinto e ultimo binomio, la deficiente scrive il letterato Vampa
rimuginio, trmòn, trmòn, trmòn, e, all’improvviso l’ippocampo avvampa,
Vampa non sarà mica Bertelli Luigi, detto Vamba, creatore del mio avatar Gianburrasca
rifiuto il binomio «minchione»/Vamba e mi iscrivo di diritto nell’Accademia della Crusca,
io, l’Asino che frequenta queste no fly zone semplicemente in cerca di una zoccola somara
e scopro, nel www, grandi studiose di «minchia», da ridurre in lacrime anche Galantara.
DISSÒI LÒGOI AL TELEGIORNALE
In Tv, al telegiornale, hanno detto che un marocchino ha sequestrato uno scuolabus,
in realtà hanno detto anche che il marocchino era italiano, non era ghiotto di cuscus,
diciamo che un marocchino ha tenuto sotto sequestro un intero caseggiato
e un italiano ha lasciato i sequestrati, illesi, fuori dal commissariato.
In Tv, al telegiornale, hanno detto che Salvini ha requisito una nave
in realtà hanno detto anche che la nave non era davvero requisita, ¿Quien sabe?,
diciamo che il Ministro dell’Interno ha tenuto in ostaggio decine di non compaesani
e il Segretario della Lega Nord ha tuonato: in ostaggio, «prima gli italiani».
In Tv, al telegiornale, hanno detto che One Belt One Road è la nuova via cinese
in realtà hanno detto anche che la via è un obiettivo importante delle nostre imprese
diciamo che Xi Jinping si è trasformato in un crociato dell’Unione Europea
e Juncker, il beone, stia facendo l’interesse della Repubblica Popolare Democratica di Corea.
In Tv, al telegiornale, raccontano un sacco di dissòi lògoi,
degni di flussi protagorei intinti in orinatoi,
diciamo che i telegiornali hanno ormai il diritto di dare voce a ogni cagata,
e noi italiani, davanti al video, di scegliere sempre la versione sbagliata.
LA MIA DEPRESSIONE È CHIMICA
Ci sono giornate che non ti alzeresti dal letto
non so se è questione di chimica o se son solo matto,
non vedi l’ombra di un futuro, no future, punkabbestia senza cane,
ti senti Mansell, in Williams, abbandonato a una chicane.
Non senti niente da dire, non trovi tasti da battere
la noia ti strangola dentro da non riuscire neanche a combattere
l’idea di te, inutile, l’idea di te, insensato, idee senza senso
non resta che stringere i denti e attendere i frutti di un altro scompenso.
Ci dicono che non funzionino noradrenalina e serotonina
pareggiano imbottendoti i sensi di dopamina e fluoxetina,
il tuo io, schiacciato tra ansia e euforia, è un puck sparato sul ghiaccio
e recita joie de vivre senza copione, farneticando a braccio.
La disoccupazione è al 15%, c’è coda sul reddito di cittadinanza,
i ratings italiani barcollano in mano agli squali dell’alta finanza,
nei grafici del nostro bilancio mi manca l’ascissa:
o sono alienato o io sono sano e l’Italia è depressa.
LA VITA AGRA
Sono curioso di conoscere se, una volta iniziato il testo
smetterò o meno di battere sui tasti,
lasciandomi avvincere dalla noia di non scriver in anapesto,
lasciandomi abbarbicare da un dolore che da dentro mi devasti.
Lascio andare la rima come chi non ha cose da dare
scrivo dove non c’è scritto niente
senza avere un vuoto da colmare
come se ogni lettera rappresenti un incidente.
Respiro lento, come un malato di Covid in riabilitazione,
ai bronchi lascio l’aria e ai nervi la disperazione,
non mi va di strozzarmi col cordone ombelicale
e rassegnare ogni mio bene alle aule del Tribunale.
Lockdownizzato fuori e carcerato dentro
balbetto nenie come un Guglielmo Hotel senza degnar d’un centro
la vita agra che da cinquant’anni mi accompagna
a scriver versi che sappiano di lagna.
FUORI DAL CORO
Non riesco ad essere davvero un vuoto a rendere
durante la mia crisi occipitale
non è mio il mestiere dello stendere
un corpo in linea orizzontale.
Eppure sono orizzontale, e cerco l’orizzonte ad ogni momento della giornata
incapace di reggermi in piedi senza incassare
l’orizzonte, l’Occidente, stretto nel suo sepolcro come Farinata
l’orizzonte dei camions che trasportano bare.
Scoppi di pianti, scoppi di risa, e foglie d’alloro
centimetri dall’esser morto, centimetri dall’esser d’oro
mi affaccio dal balcone della letteratura occidentale
e i critici, confusi, mi bollano con un Tso da ricovero in ospedale.
Io non mi volevo buttare dal balcone
volevo semplicemente sincerarmi di non esser rimasto solo
con un diavolo che mi attizza col forcone
depressione, asfissiante come un grumo di bolo,
allettante come i rimedi rinchiusi in un flacone,
io ignorante, destinato a cantar fuori dal coro.
DIMMI COME DIRE A UN CANE
Dimmi come dire a un cane, che sta fisso davanti alla porta,
che la mamma non ritorna, anche se non è morta.
Frida con la speranza negli occhi, io con le mie lacrime asciutte
che non vengon dal cuore, sono lacrime autodidatte.
Vederti dappertutto, in questa casa che è un cimitero,
sembra di essere Enrico II con il suo squarcio sul cimiero,
la donna delle pulizie non è capace di cancellare i ricordi
e io, come un istrice, mi strappo dal petto i dardi.
Dimmi come spiegare a un cane, dimmi come spiegare a un cuore,
che non lo senti battere, io non sono un gran bluffatore.
Dimmi come spiegare a un cane, che non c’è più desiderio,
quando il desiderio soffoca, e tutto sembra un delirio.
Dimmelo, dimmelo, dai, della tua vita infelice
dimmelo, dimmelo dai, a questa sottospecie
di uomo ferito, che non emette una goccia di sangue,
anche se fa donazioni ematiche ovunque.
Dimmi come dire a un cane, che è finito un grande amore
è come spiegare l’umido oculare ad un umidificatore,
dimmi come dire a un uomo, che è finito un grande amore,
come continuare a vivere senza lasciarsi morire.
VODKA E BENZODIAZEPINE
Mi trovo tutti i giorni a visitare le notizie online dei suicidi,
non ho mai avuto timore di trovare il mio nome
magari accompagnato al sostantivo poeta come le cariatidi
con tracce fresche di strame e di bitume.
Io sono un immortale, ho assecondato le fila dei Trecento,
alle Termopili, morire di una inutile morte eroica,
meglio la morte che un sopportabile addomesticamento,
chiudetemi, con molto Scotch, in un’un urna fatta di maiolica.
La vodka sta finendo e stanno finendo questi versi
devo decidere bene come utilizzare i differenti mezzi
usare l’alcool a finalità didattica nel dipingere nuovi universi
o con le benzodiazepine mettendo fine ai miei numerosi schizzi.
LA MALATTIA
Ciao, sono Gaia, sono degente dell’ospedale
Gaslini, di Genova, dove ci rincorre il mare,
ho tredici anni e sono vittima di un brutto male
la depressione grave, la malattia del malaffare.
A tredici anni non si deve esser sempre in lacrime,
forse mai, ma mi è sfuggita la voglia di vivere
il dolore come uno strascichio di sirime,
mi è sfuggita la voglia di non essere cadavere.
Camminavamo, tranquilli io e il sorvegliante
la depressione è stata più veloce dell’istante,
ho corso fino a che mi si spezzasse il cuore
la mia noradrenalina come decodificatore;
mi sono attaccata alla ringhiera dell’ospedale,
dieci metri di volo senza nemmeno pensare di morire,
a tredici anni si hanno le ali, non hanno funzionato per volare
hanno funzionato per raccogliere il mio sangue senza farlo colare.
Abbiamo tredici e quarantacinque anni e un brutto male
la depressione grave, la malattia del malaffare
un morbo anomalo, dalla medicina poco considerato
finché non diagnosticano un corpo morto sul selciato.
IL MESTIERE DEL POETA
Ho scoperto perché a molti non piacciono le mie poesie
è difficile che parli di vita, e di altre fantasticherie,
mi interessano la politica, il sociale, la comune,
e - come direbbe Checco Zalone- sono cose che non fregano a nissune.
Sulla mia tomba scriverò «[…] è nato per scriver versi […]»
così avrò la certezza che andranno tutti persi.
E ci metterò un calice di amaro Montenegro,
così, perduti sì, ma me ne frego.
ODIO MISHIMA E MAJAKOVSKIJ
La lettera che ti ho spedito ieri
non è mai arrivata a destino
era la più triste dei canzonieri
sarà la sfiga, sarà il declino.
Odio Mishima e Majakovskij
hanno avuto il coraggio, la nostalgia
il nichilismo di Bukowski,
di non ricoverarsi in cardiologia.
Lombardia mia, Lombardia in fumo
respiri Tavor Valium e Serenase
che fanno bene all’epitalamo
sempre presenti nei nostri beauty-case.
La lettera che ti ho spedito oggi
non so se è arrivata a destinazione
l’ho cercata invano tra i necrologi
dei morti vittima di distrazione,
l’ho cercata tra le lapidi mortuarie
tra i morti senza informazioni intestatarie.
Odio Majakovskij e Mishima
hanno avuto la forza e le mani
senza alcun filosofema
di scrivere la lettera di domani.
Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha introdotto in Italia la materia della Law and Literature. Ha diffuso saggi su filosofi italiani e su etica e teoria del diritto del mondo antico; ha collaborato con con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2018 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi Introversi, Mostri, Galata morente, Carmina non dant damen, Scarti di magazzino, Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, Cherchez la troika e La malattia invettiva con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il Guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni. È stato fondatore e direttore della rivista letteraria Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è stato fondatore e direttore della rivista letteraria L’Arrivista; è stato direttore esecutivo della rivista filosofica internazionale Información Filosófica; è, o è stato, direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre). Ha fondato una quindicina di case editrici socialiste autogestite. Ha scritto/curato 150 volumi, scritto 1000 saggi, fondato un movimento d'avanguardia (NeoN-avanguardismo, approvato da Zygmunt Bauman), con mille movimentisti, e steso un Anti-Manifesto NeoN-Avanguardista, È menzionato nei maggiori manuali universitari di storia della letteratura, storiografia filosofica e nei maggiori volumi di critica letteraria.Il suo volume La malattia invettiva vince Raduga, menzione della critica al Montano e allo Strega. Viene inserito nell’Atlante dei poeti italiani contemporanei dell’Università di Bologna ed è inserito molteplici volte nella maggiore rivista internazionale di letteratura, Gradiva.I suoi versi sono tradotti in francese, inglese, spagnolo, macedone, greco, albanese, serbo, bosniaco, croato, sloveno, rumeno, bulgaro, russo, azero, uzbeko, kirghizo, indiano hurdu, indiano hindi, bengali. Nel 2024, dopo sei anni di ritiro totale allo studio accademico, rientra nel mondo artistico italiano e fonda il collettivo NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica).