Poesia Proposta
VERA D'ATRI
"Al riparo dalla realtà, al riparo dagli ingranaggi del potere, estraneo alla superficialità e al risentimento l’esercizio della scrittura costituisce uno spazio-tempo necessario alla conoscenza dell’io e del mondo. L’immagine di un fortino, di una solida palizzata dietro la quale sperare di difendersi dall’esterno, da un’ostilità imprecisata eppure costantemente avvertita, può vagamente ricordare le camere d’alabastro dickinsoniane, ma in realtà rivela subito la difficoltà nella quale s’imbatte lo scrittore che non ha altro modo per osservare l’esistenza se non attraverso la separazione della poesia. Dunque il titolo di questo libro appena pubblicato è già di per sé manifesto di un timore, di una condizione di lotta sospesa tra il coraggio dell’intervento e la rinuncia ad un sogno. "
Vera D'Atri per Pioggia Obliqua
Poesie
Da: Cronache verso sera
Venendo notte disferò la tela.
Troppo anche il disfare
disferò il gesto.
Avrò bisogno di riconoscermi
in un tragico errore.
L’intera sua creazione risaliva le vie,
un ricordo stordito dal chiasso.
Era stata sul punto di colpire
e poi, appassita dal nulla, aveva accettato
una pace sgomenta.
Bianchissime luci gigliavano finestre
ma faceva tristezza l’innocenza esalata,
la ceralacca degli uomini attenti.
Scia di parole nelle foglie seccava, palpitava
rilievo di serpe sulla ghiaia del parco. Ricordò
meglio e gettò via l’anello. Ché adesso è così,
pensava, simboli dappertutto.
Fare con te una siepe
frangivento mentre tutto il resto esce
dalla notte e si frammenta.
Ci tocca il districarci in frammenti di buio
nelle prigioni di sempre, la perfezione letale
che evolve in cantucci protetti, ci tocca svernare
a braccia conserte, custodire l’attesa e che l’opera,
tutta, si compia superflua.
Perché Pan si è ammalato d’asfalto ed è
svanito nel sonno dei tram, al mattino, nel breve e
angosciato colloquio che teniamo col mondo,
ammaestrati da impervi ripassi.
Nonostante il buio alcuni colori vagano
nel sonno. E scendono fin dove non c’è risalita.
Dentro, nelle orbite costanti, le madri
tengono consiglio, ad una ad una abbassano
le ciglia sui loro stalli di ore premurose. Chi
non le vede ogni mattina presso il varco a
misurare altezze?
I luoghi sapevano come bruciare
il nostro incenso.
Allora accanto alla città le isole,
gli scogli, perfino gli acini di seppia, tutto un gran nero
come ad un’imboccatura e il contar le luci
che non dava alcun conforto.
Vero solo il vino osato da un collo
di bottiglia. Più nella notte poi solo acutamente
il freddo.
Apre la porta.
L’ordine è che le cose si separino,
che i lati non sopportino più l’impegno
alla costrizione.
Nella sera la mente è instabile
e cerca un buon appiglio.
L’ora chiama a raccolta i volti.
Ma in cielo è come avessero sparato. È vuoto
e periglioso in siffatta pace.
Ai piedi del ciliegio sono caduti
i frutti. Farsi di luna aspettano.
Sperare di rivivere è per più tardi,
alzato il vento della notte.
La fronte si è sparsa. È una stanza
che guarda il mare. La soluzione dei punti
di fuga sul corrimano dell’ultima luce.
L’amore è finito a mezzogiorno in un rovescio
di questioni antiche e si è difeso dal bianco
del soffitto sedendo a tavola per un estremo
variegare di silenzi.
Ma la possibile incrinatura attraversa
il pomeriggio, annulla slanci e comincia
a praticare il confine del reale.
La lesione comporta una correzione,
un sereno fraternizzare con gli esiti falliti.
Comporta il dolore da organizzare e il
tempo per mettere assieme un libro
da scrivere ed una persona da
cancellare.
Colpisce ora l’intensità dei pini,
l’immobile confronto con la sera.
Una perenne cattiva luce
si mischia al vero. Sono i pensieri a fabbricare
i mondi.
Lei siede vicina. Ha il respiro di antiche
tragedie e grandina sui vetri perché ha in sé
un castigo invernale.
Ma superiore a tutto fu il superfluo
non le discusse tavole della legge, fu il rovistare
quel tanto, quelle poche evenienze in soprassalto
per colpa mai dei vivi, solo retaggi. Era dunque
il male nostro a compiersi nell’animo,
dentro, nel fondo, a pesare come
millenni privi d’inventiva.
Tacciono le quattro mura. Sulla tavola
un’oscura croce di gelo.
Per quanto io sia innocente cerco
una forza per controllare la materia.
Ma di quanto crescerà il mare non posso
sapere, né di come incrudirà il restar
avvolta nel tessuto del vuoto.
Nessuno ha cuore per trarmi
dal silenzio quando nel cortile più breve
si fa il giorno e nell’ora che non so prevenire
è la cura che sostituisce il perché, è la
purezza del no, la parsimonia
che non so più governare.
E più è luce il tuo nome, minuscolo
abbaglio d’un’era dismessa
e più le mani a far cose,
la schiva vertigine d’un risciacquo svagato,
il gesto scusabile che fa mesta la sera.
Ch’è lavoro di niente, diresti, questa
vita di eterno ben fatto.
Da: Le restanti attrazioni
Come poteva l’ampiezza del cielo
propagarsi ancora e al tuo pensiero sconfinare
in tumulto?
E come poteva dalla preistoria la pietra
disegnarti il profilo e il lago restare trasparente
mentre l’acqua aveva i tuoi occhi?
E come, come era possibile
aver così chiara la tua immagine ovunque?
Nessuno, nessuno a questa intrepida cosa
ha mai dato altro nome che amore.
Incognita d’accesso
saper dire la ragione che costringe la luce
a soffocare ogni nera frazione dell’essere, a simulare
con un trillo o un confetto una mezza giornata
di senso.
Tornasse il tempo per scivolar daccapo
oltre il silenzio mi guarderei sognare da altra
prospettiva,
mettendo ordine a digiuni
e a spasimi d’aceto e mai più camminare
sulle braci affievolita, mai più distruggermi
quando è casa e non ha porte o per
dovere d’essenzialità.
Da quale costola, da quale cortesia,
da quale insieme? L’avvio tenuto fermo
all’improvviso prende slancio. L’idea
era lassù, una nuvola o il calco lieve
di passaggio aereo, chissà, qualcosa
sarà stato d’irresistibile fermento.
Dislocami in un fato acuminato
dove non consente scintilla Prometeo.
Toglimi la perfezione, il gusto di ferire,
metti il tuo no a far da mendicante tra questa folla
di cere e di piumaggi. Sappi annunciare
la sconfitta e la scarsità.
La vita che non cambia si strugge.
Se per cadenza che non rallentava
la tua voce increspava l’acqua io non trovavo
riva.
Dentro vane bracciate pativo l’affanno.
Cosa mi era utile e cosa mi uccideva
avevano lo stesso sfocato brillio.
Incontravamo creature
e luoghi al sorgere del sole senza
nemmeno domandarci cosa riuscisse
a menomarli così in fretta, se soffrissero
d’un male ancora da patire o delle
miglia sparse per la mente.
E ovunque era lo stesso
volto pieno di rughe come il mare, la
vita in sé protetta in profondissimi
abissi.
Fuori di qui , in una via
quel che sei e quel che raggiungi, un posto
per vivere che non abbia mai danzato alla luna
o sottomesso il debole in virtù d’un fucile,
un posto dove l’epilogo è maturità che altro epilogo
rincorre, primavera che sognata nell’inverno
già sta partorendo il grano dell’estate per
quell’autunno che chiuderà le imposte
e verserà farina nei crivelli.
Potrebbe essere l’anniversario
del mio primo no o del fiume che scompare
per aridità, potrei rappresentarmi tutta la vita
con similitudini e non poter in alcun modo
vivere.
Ma permangono favole da capogiro
come una centralità indefinita, perché forse
è questo quel che chiede la vita,: un posto
di comando su di un’empia calpestabile
sicurezza.
A risalire un figurare d’apparenze
ma poi non distinguibile, ma poi polvere,
osata cenere agli eremi della penombra, gemella
al nulla, bocca, petto tutta sostanza senza difetto
a rendere. Si pentirà chi avrà deciso tutto
questo?
Legge il segreto della stanza.
La sottile limatura degli istanti.
Deve indovinare perché sia così muto
il sentimento tanto da non esser più capace
di dilettarsi con la prosa.
Conquista l’attesa sminuzzando
la buccia d’una arancia consumata.
Quanto alle parole le lascia venire avanti
in leggerezza. Le parla del tempo, dei piovaschi
fragorosi, degli ultimi dilemmi monetari,
delle tempeste evase dai forzieri.
Dunque la folla meritevole che è tra loro
li tiene separati. A inquietarli sono le restanti
attrazioni e la svasatura delle ombre sul
pavimento di boccoli recisi.
Da: Di punto in bianco
Vivace sulle prime poi la mossa che chiude
nell’angolo, il panorama della fame, dei miei digiuni
le ombre fuori asse.
Ma di queste bancarotte abitate considero
il non trascurabile cuore che apprende e che
a farsi bianco comincia sugli orli finché gli è possibile
dimenticare il colpo andato a vuoto, la ruota sbalestrata,
il rotto silenzio d’accaduto di cosa non più cosa
che in nessun modo torna ad accadere.
Per lo splendore del risveglio
all’ali verdi dei tigli, misi ogni me stessa
alla finestra. Per il lampeggiare delle foglie
cacciai da me il ventre ed il giudizio.
A tempo scaduto ciascuno sa
cosa il cuore non salva.
Adesso tolgo alla mia magra ora la cicala.
Ora servo la tua estate. Un regno senza suono.
Una vena d’oro. E impronte d’un nero
che non ricordo, forse una vecchia vita che
andava incontro a tutta questa luce.
Viene esclusa qualunque incidenza
del colore. L’avvenire è una ragnatela
da qui alla tenebra, una crescita infinitesimale,
indistinguibile dal buio che la osserva.
E allora dire autunno per dire:
ecco, il mio rosso è sanato dall’ombra.
Allora rinunciare al corpo che è solo cromatura.
Comporre nuvole prima che i ciclamini arrivino
ad accendere la miccia dei sospiri.
Essere ad un passo dalla cosa più distante,
parlare come parlava mia madre, la stessa rauca
dissolvenza nella vastità delle fiabe. Lo stesso
mostrare fronte e costato a nessuna pietà.
Ho cavato miele dalla punta delle lance.
Come una maga davanti ai lari della casa
e non so dire quanta dovizia c’è voluta
per sapere com’è davvero il nulla.
Alcuni tiepidi giorni – le magre strine a prepararsi –
e l’ombra senza sguardo che accompagna.
La pressione dell’aria riga la fronte.
È la fatica di un ramo un tempo fiorito.
Del rimboccare l’acqua fino al bordo del cratere.
È l’includersi
tra chi tenta giunto ai suoi inferi,
il brusio di combuste logiche cadenti, è il mantenere
scevra da sussulti l’apparenza.
Sarà come passare ad altra scuola,
ad una intransigenza di parole a dire cose che mai.
O come far divenire semplice tutto il dilemma
e semplice il disaccordo. La vita destrezza
sposalizio del vecchio col nuovo. Non capirai perché.
Eppure, col tempo, la specie adotta un modo di essere che
rasenta la colpa e si perfeziona immaginando il suo
finito quale scienza e uso di sapienza, i suoi
remi in barca quale navigazione in un
mondo senza stelle.
Allora scalzo venne il tempo a mantenere segreta la luce
come un campo la semenza.
Cadde l’alba. Con occhi dilatati il più piccolo
dei suoi respiri spezzò infiniti intrecci.
Sopra il letto l’umido e tenue odore del risveglio
venne a dire è lo spillo è la farfalla.
A quell’ora, a quell’angolo
la città schiariva la sua larga faccia di travertino
come avesse voluto suscitare ancora
un moto di speranza.
Non riuscivo a spegnere il tracciato
delle nervature, l’armonia del disegno.
La mano aperta sulla foglia – due opere d’ingegno
cieche e tremanti che l’autunno
volgeva a parlarsi.
Non capire e poi d’improvviso
trovarsi in due. Sapienza o quasi, quasi la vita
volesse tradirsi a cose fatte.
Del mattino le rugiade illuminate
e le altezze tutte a risalire nel risveglio.
Della farsa i divani rossi a commedianti
sovraccarichi di Ibsen, la fila dei giorni nella
corretta dizione dei rimproveri e tutto
confermato da uno sguardo.
Dappertutto fragili deschi appena ammantati
e odore di nascondigli inutili e la morte che non
ce la fa a non farmi danzare perché la casa
è stordita, perché il bianco non fa obiezioni,
perché è una grande euforia ed un insano coraggio,
perché la neve è per noi vivi come le viole d’Aprile,
il segno della follia che ottiene il comando.
Così è correre in raffiche e protrarre i punti
in linee e le linee in cauti allestimenti
fin quando il timore non rinuncia alla sua
libbra di carne ben pestata e nel respiro
coglie la sorpresa.
Il tempo ha cucito il sacco e sono io
quel peso che trasporta di qua e di là,
non proprio dove chiedo, ma solo
dove ottengo.
Pietra liscia per scabra insurrezione
perché con mano ferma il vento disegnò
gli anni a cella chiusa di vene grigie; poi viene
il tempo, la violenta china del sentirsi vivi
e muta e piatta si fa materia ribellata,
materia alchimizzata alla natura degli inerti,
che un giorno spera nel fosforio degli altri
e un altro prova a far maceria di se stessa.
S’infittisce l’esterno. Attorno al quadrato
s’infittiscono i lati; nel quadrato stesso il presente cede
a lungimiranze inattese.
Non è servito a niente rendermi distruttibile,
battermi il petto, macerare il mio stelo, perdere la mia
guerra e a notte sempre dormire in quell’alone senza
vero nella tua face che illumina e distrugge.
O forse è servito perché ora sono grinzosa come
il mondo nella sua giovinezza di oceani disabitati,
quando per sua fortuna, di punto in bianco,
uscì dall’uovo mastodontico del dubbio.
Ora il respiro cambia. Richiusa la porta
torniamo esatti , definiti nei tarli, ci
muoviamo in memoria di noi.
E di quel particolare ci adattiamo
a confermare l’esistenza. Era muschio
giallo, un lichene provocante ma di tutto
quello ch’era l’orizzonte niente, nemmeno
dire se fosse isola o prigione.
Gli uccelli si disintegravano. E gli uomini
seduti al bar restavano a guardare.
Allora spinsi la mia ombra in un alveare
di miele e furore. Spinsi le mani nei cassetti. Io che
sapevo di questo sud? Tutto ronzava in cartolina
e dalle finestre alberi e cielo s’imparentavano
col mare. Spinsi la cattedrale a bisbigliare
ritorni e sepolture e nelle crepe tutti i
fiori fiorirono e la bellezza lenta del
lamento.
Ma chi arrivava come me, chi passava
con la sua musica sbagliata, andava fatto impallidire,
andava fatto che smagrisse, lì, tra nere marine
di ricci, sfamato a fave e mezze lune di
corteccia, andava fatto che per sempre
perdesse il suo bagaglio.
Non sono più quel diverbio appassito,
né la tara dello sciocco.
Nella vecchiezza di Giuseppe è la meraviglia,
nell’assedio del tempo l’avventura tardiva.
Il fortino (scritture in stato d’assedio), Terra d’ulivi edizioni, Lecce.
Vera D’Atri
Ha conseguito il diploma di archivista all’archivio di Stato di Napoli. Solo dopo il 1997 si interessa di scrittura redigendo numerosi racconti e alcune brevi poesie facenti parte della raccolta “Abitare Sparta” con la quale ottiene una menzione di merito al premio Lorenzo Montano diciassettesima edizione. A questa fanno seguito una piccola silloge poetica delle Edizioni della Biblioteca a cura di Giovanni Pugliese intitolata “Il museo di vaniglia” e nel 2009 la pubblicazione della silloge “Una data segnata per partire” edita dalla Kolibris di Bologna con prefazione di Rossella Tempesta. All’attivo anche alcuni racconti pubblicati in antologie e su riviste e un romanzo “ Buona bella brava” edito dalla Robin Edizioni nel 2010 e recensito da Enzo Rega su l’Indice dei libri. Suoi testi poetici compaiono su riviste, inserti culturali e numerosi blog (Opere inedite - di Luigia Sorrentino, Il giardino dei poeti,Transiti poetici, La casa senza tempo, La stanza di Nightingale, Gli occhi di Blimunda, Poetarum silva, Atelier, Pioggia obliqua, WSF). E’ presente inoltre nelle antologie “La giusta collera” edita da CFR, “Alter ego - Poeti al MANN”, Contatti diversi, I quaderni di Movimento Aperto, Scrittura sottovoce, Voci dell’aria e La parola abitata ed è tra i vincitori del concorso “La vita in prosa 2011” con un racconto edito nell’antologia curata da Ivano Mugnaini e seconda classificata al concorso “ Scrivere a corte ” sempre del 2011. Terza classificata al premio Di Liegro 2012 sezione poesia. Sempre per la poesia è finalista al Premio Mazzacurati-Russo delle Edizioni d’If 2012-2013 con la plaquette “Tutte donne” A maggio 2013 esce la plaquette “Una tenace invadenza” a cura di Libro Aperto Edizioni. Ad ottobre 2013 è finalista al premio Michele Sovente, seconda edizione, sezione poesia inedita. Sue letture presso la biblioteca Nazionale di Napoli per la manifestazione “Veduta Leopardi”. A marzo 2016 esce la raccolta di poesie “Il Fortino” a cura di Terra d’ulivi edizioni.
La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autrice a Pioggia Obliqua