Le cose, bistrattate dai molti sgomberi, mi serbano rancore.
Si schiudono crepe lendini prudenti
suggerendo future aliene infestazioni.
Calano i festoni di un vecchio compleanno
come occhiaie improvvisate da un dolore
immenso e subitaneo come una complanare.
Vorrei paragonare queste serbate crepe
a quelle di genti vicine che da poco fa furono in guerra
là per dove le cose che fecero festa sgualciscono,
ma anche a una subìta lacrima di perdenti.
Ma a tutto ci si attacca e dappertutto depongo
furtivamente armi da invasata:
e tu non mi guardare mentre in vitro
suppotenti confluiamo in guerre molto civili.
Le cose, gelosamente asseverate, si vendicano
dei subitanei spostamenti spalancando
corolle maniglie come gli occhi invasati
degli innocenti! E viti troppo esigue,
attaccamenti esili alla vita, cedono a vitigni spenti.
E’ malinconicamente punibile l’innocenza
pertratta: allora l’ira allarma le cose,
le cose ribelli silenziano l’antifurto interno,
anzi lo sfiderebbero quelle maniglie
subdolamente fiorendo e sfinendosi
in guerre intimistiche.
Così ci rubano – rimetta – l’antica lingua
disseminando babilonie come scrollassero di dosso
torri babelliche che confuse sparigliano
idiomi suppellettili in snervanti soprammobili da spolvero.
Così spossando un arduo deserto fecondo
scendono a bomba a bomba nell’arena assolta,
disanimati gladiatori ebbri d’attrezzi.
Arrugginisce la tenaglia del tenace delta,
che si biforca ruggendo ai nostri barbari.
Così gli invasi emulano all’armi
chi, inimicandosi, scompiglia supplici incartamenti
d’orecchie con spocchie fluorescenti al fosforo.
E non sappiamo chi intimamente ci scommetta.
D’anemoni stimabili che vïolano il prato di scatto,
staccando particole di crosta secca e fra stecchi
altamente combustibili, una desertica sticomitia
di stinchi. Dissenterici entroterra d’inginocchiati
cadendo dissacrano commenti d’encomio al sismi.
Asfissie di sismi codardi, arti contratti con gli itagliani,
scivolano in minacciosa bonaccia di stanco inverno:
schiattasse una volta per tutte anche questa primavera!
Mi rigoverno vomici spaventi, anse di tumulti al cardias
sospendono il respiro cedendo al righello prospetto di un
ripristino di risiko ad alto rischio, allarme rosso,
fusti barbuti, cannicci marci, caste scialbe al governo,
scalpi di cavallette allerte e fuoco alle polveri di casamicciola
per pulizie di primavere dimentiche di fatti dinamici.
Otturare le crepe, cremare i cadaveri, sbuffa
imponendo: polvere alla polvere, e le ceneri siano
disperse ridisegnando reticoli di lumi a questi
barbuti neroni! Mammaliturchi annuncia l’annunciatrice
insomma, scaltra ammiccando uno sconto di civiltà
per chi imbiancasse poveri da spolvero, per chi l’aria
da funerale e bocche disfatte da manomorte
manomettesse pure, o ponzipilati d’un altro canale.
Evacuare i canili degli sfidanti sfedeli,
rastrellare adozioni avide distanza d’infanti,
ripristinare i canili per sfacciare incappucciati,
tornare alla lingua di casa una volta stravinto un vuoto.
Da Rosaria Lo Russo, Crolli, Firenze Le Lettere, 2012
A meno trecentosettantre metri sotto terra restiamo
felicemente barricati noi minatori del Sulcis mentre
in superficie altri protestano al posto nostro, ma siamo noi sotto-
terra, sepolti vivi, a fare notizia. Siamo vivi, vivi sotto-
terra mentre se saliamo sopra non ci danno il salario.
Qui il senso del tempo svanisce. La terra è calda e re-
spiriamo male, come sempre, continuiamo ad arrovel-
larci i polmoni per quelli che, piú morti che vivi, ci aspet-
tano a casa la sera. Riposiamo. Dal ventre della terra i set-
te nani portano col trenino le pietre preziose noi siamo neri
neri come il carbone. Calibano, talebano, terrone, noi siamo il ter-
rore, il terrore della terra, del buio, delle viscere piene di
merda. La montagna partorisce topolini, ché della monta-
gna gravida di uomini bruni e vivi dopo padre Ernesto
Balducci non gliene frega piú niente a nessuno. Perció
meglio, cento volte meglio, restare qui sotto se ci calano
il vino che tornare a protestare e patire nel vostro nosocomio.
Attente ragazze, la sposa cadavere è il cartone
animato nel cui sequel ancora un po’ tutte
si casca. Da ragazza mi vestivo sempre tutta
di verde, tutta, ogni gadget, ogni particolare.
Un giorno partii per girare vestita da sposa
tutta l’europa orientale in autostop, perché ero
nipote di un celebre artista, quello della merda
d’artista, per dirvela tutta, e volevo volevo destare
anch’io altrettanto scalpore. Ma appena arrivata
a destinazione mi ha caricato su un tipo un po’ los-
co – quel che volevo! – e invece di incazzarsi con me
come speravo, lui si è semplicemente fermato
per strada e ovviamente mi ha stuprato e ammazzato.
A questo proprio non ci avevo pensato ma è andata
cosí, e ovviamente già nessuno piú si ricorda di me.
Ogni sposa di bianco vestita sposa la morte, ogni
sposa in abito bianco è, essa stessa, la Morte
che dice il fatidico sí alla Vita. E’ una storia che deve
avere a che fare col mito della verginitá come bene
supremo occidentale, infatti anch’io, che non ne
avevo l’idea essendo una biondina americana dall’aria
volgarmente angelicata come tutte le biondine ame-
ricane, mi metto in testa di fare l’ar-
tista e voglio le foto di nozze sul lago, anzi impongo
al fotografo, per fare un wedbook veramente spe-
ciale, di fotografarmi mentre entro nel la-
go con l’abito bianco ed il velo. Forse pensavo
ad ofelia, non so, non ho molto studiato, ma in
un attimo il lago mi ingoia e finisco nel web.
Attente ragazze che insistete a sposarvi vestite
di bianco e con la testa in una nuvola di tulle a strasci-
co solo apparentemente leggera. Vestite da spose
si muore! Le suore l’hanno sempre saputo e anzi ardente-
mente voluto perché chi si vuole sposare il signore
vuol dire che vuole morire, vuole dolce-
mente ed inesorabilmente decidere di morire da sé.
Mentre noi credevamo solo di fare le splendide.
Mentre noi volevamo solo fare spettacolo.
L’assemblaggio dei pezzi, evidentemente malfatto
non ha retto il pestaggio del mio rodaggio. Certo, io
ho spinto forte in quella curva, poi una bótta tremenda
un tonfo sordo nel casco e poi piú nulla. S’è spento
il rombo della moto e ho finalmente sentito il mio
respiro profondo, l’ultimo, un rombo
anche quello, ma piú bello, come quando di sopra
facevo il morto nell’acqua calma che entrava nelle ore-
cchie e ottuso di silenzio sentivo il mio respiro, cosa
che di solito, facendo attrezzi, non sentivo, mentre mi
gonfiavo bevendo proteine pasto sostitutivo ora di pranzo.
Anche ora gonfio gonfio gonfio a dismisura e me ne
vanto. Tanto fluttuando le mie ultime sinapsi percepisco
che mi stanno svuotando: di buona famiglia che dá
il permesso per l’espianto, essendo fatto tutto di
roba buona, fresca e soda. Mentre il cervello si scio-
glieva come una medusa al sole delle lampade in riani-
mazione non sentivo nulla. Mi hanno tolto le mie belle
cornee, fegato, cuore, reni e quant’altro: hanno riempi-
to un sacco di sacchetti in fretta e furia sigillando i pezzi
del mio io: ho fatto una gran buona azione senza merito mio.
Adesso che comincio a ritirarmi divento anch’io
come un ecosacchetto al mais della coop: la mia pelle secca
grigiastra e floscia si sfalda come gli scisti di lavagna
su cui scrivevo da piccino, a caval-
cioni sul muretto di pietra, il mio nome, con le manine
convinte, convinte fino a ieri di appartenere ad un io.
Qui sopra, su una lastra tutta bianca, di marmo buono,
che mi ricordi pulito dentro e fuo-
ri, la famiglia ha pagato qualcun altro scalpello feroce
a incidere, come se fosse davvero esistito, il mio ex nome.
Ci siamo appesi con una corda al collo in azienda,
siamo affondati, come dei veri capitani, con la nave.
Questo è l’orgoglio, il premio alla carriera, di noi
piccoli imprenditori del nordest colati a picco con
la crisi piú brutta dopo quella del ventinove. Farci
trovare penzoloni nei nostri capannoni è un fatto
per noi di indubbio valore in un mondo senza valori.
Abbiamo creduto nella lega, abbiamo creduto in berlu-
sconi. In realtá questa, oramai possiamo dirlo, era una
balla. Ma ci piaceva sentirci ancora padroni, padroni
di qualcosa di nostro nell’italia dei ladroni, noi eravamo
gente semplice, poco istruita e che ama rimboccarsi le
maniche. Ma quando abbiamo dovuto licenziare dal
nostro nosocomio gli operai con cui la sera ci ritrova-
vamo al bar, quando le loro mogli non ci mandavano
piú sorrisi allusivi ma sguardi smarriti perché dovevamo
licenziare i loro mariti e quindi addio shopping il sabato
con successiva cenetta e scopata, ecco allora noi ci siamo
sentiti improvvisamente anormali, come quelli che prendono
gli psicofarmaci, i drogati, e quindi pur di non andare
dal dottore di cui ci si vergogna ci siamo suicidati. Tanto
certe cose si fanno in un attimo, meglio levarselo subito
il dente malato e a noi che non avemmo nessuna dimestichezza
col pensiero filosofico ci premeva soprattutto la dignitá
i quattrini e conseguente fica in quantitá. Le nostre mogli
adesso mettono in vendita le villette di barbie, ma nessuno
le puó comperare, e questo ci riempie di un piacere volgare che
ci piace. Rimarranno anche loro piú morte di noi lassú povere
nel loro nosocomio, che non ammette questa condizione.
Sui capannoni lungo la piana ci hanno scritto tanti
affittasi, noi affissi loro affitti e intanto gli infissi
giá cominciano ad arrugginire e tutto imploderá affon-
dando nella melma della piana, visto che ormai il clima
si è fatto subtropicale nelle pianure nebbiose e afose
del vostro nosocomio. Abbiamo fatto bene a non aspettare.
Dalla sezione Dal dormitorio in Rosaria Lo Russo, Nel nosocomio. Inedito
Rosaria Lo Russo, poeta, performer, traduttrice, saggista. Ha pubblicato L’estro, Firenze, Cesati, 1987, Vrusciamundo, Porretta Terme, Il battello ebbro, 1994, Sanfredianina, in Poesia contemporanea. Quinto quaderno italiano (Milano, Crocetti, 1996), Comedia (Milano, Bompiani, 1998), Dimenticamiti Musa a me stessa (con sedici disegni di Renato Ranaldi), Prato, Edizioni Canopo, 1999, Melologhi (Modena, Emilio Mazzoli, I Premio Antonio Delfini 2001), Penelope, Napoli, d’if, 2003, Lo dittatore amore. Melologhi, Milano, 2004 (libro + cd), Crolli, Trieste, Battello Stampatore, 2006, anteprima di Crolli, Firenze, Le Lettere, 2012 (con un’opera di Renato Ranaldi), Io e Anne. Confessional poems, Napoli, d’if, 2010 (libro + cd), Nel nosocomio, Massa Carrara, Transeuropa, 2011 8anticipazzioinne di un volume in cerca di editore), Poema (1990/2000), Arezzo, Zona, 2013, ed è presente in numerose antologie poetiche. Ha tradotto la poetessa statunitense Anne Sexton e la poetessa argentina Alfonsina Storni. Insegna lettura di poesia ad alta voce. Da oltre vent’anni si propone in pubblico come “poetrice”, poetessa-attrice e esperta nell’arte oratoria e nella recitazione della poesia.
Alcuni libri di Rosaria Lo Russo
ROSARIA LO RUSSO, POEMA 1990-2000, Editrice Zona , 2014.
Parlare infatti di plurilinguismo, per la ricerca poetica della Lo Russo, rischia di essere e sarebbe banalmente riduttivo: tanto la significanza, scaturente dalle necessarie e necessitanti ragioni dello scrivere che si presentano pressantemente a ogni canto di questo Poema, segue strettamente e accompagna in pieno di vivanda da non consumare, ogni stratificazione del significante e sia ad esso costantemente mischiata.
Nel susseguirsi delle scritture che fanno parte di questo Poema pubblicato per Zona e che comprende testi del decennio 1990/2000 – dall’«abbuffata linguistica» di Comedia, così definita da Elio Pagliarani nella prefazione («io non so bene se ci troviamo di fronte ad un caso di bulimia o di anoressia […] Rosaria lo Russo chiamando in causa soprattutto il proprio corpo e le metamorfosi di quello») alla splendida Sonettessa che chiude la raccolta – i materiali presentati urgono, si affastellano ed eccitano l’attenzione del lettore.
Si va dal sensibile peso del linguaggio erotico («Come il presame fa nel latte / coagula colloso sperma in bocca») alle parole di cose per ambientazioni domestiche («anche tu / che ti movi di fretta agile donna-cubo, proverbi sta che purghi, con Unità / e famiglia cristiana sottobraccio, / – chiesa, cellula / onfalo rosso onfalo bianco / questa famiglia che si divora la pelle / – e parli come magni») alla rivisitazione degli archetipi femminili («Così un disagio iracundo mi provocò la cupa insonnia / e mi fece arricciare il nasino più volte stanotte») e dei padri nobili della poesia italiana («Sempre caro mi fu stare qui chiusa / e questo speco ch’è camera oscura […] ove io mi fingo un fallo fra le cosce») anche contemporanei, come nel secondo e terzo tempo degli Angoli della bocca dove la sintassi della scrittura rimanda al frantumato finale della Ballata di Rudi di Pagliarani. (...)
Da un articolo di Cetta Petrollo, La lanux satura di Rosaria Lo Russo, Alfabeta PIù, 19/5/2014
La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autrice a Pioggia Obliqua