" Salvare il salvabile.
Dimenticare il dimenticabile."
Sara Comuzzo, Invitare gli spaventapasseri a ballare, Bre Edizioni, 2023
Ecco l’invito ad una lettura fuori dal solco consueto della scena italiana di oggi, una scrittura poetica dagli accenti anglosassoni sia per versificazione che per temi di fondo. Il riferimento eccellente va a Kate Tempest e non per motivi casuali.
Questa ultima e bella raccolta poetica di Sara Comuzzo è significativamente dedicata alle “ donne di St Aubyn’s Road” . Se “il mondo è solo un grande puzzle/in cui ognuno cerca di trovare il suo posto/ma non sempre ci riesce” , qui ci si muove fra vite interrotte o mal ricomposte residenti in centri di accoglienza e case rifugio in Irlanda e Inghilterra. Come detto nella prefazione, siamo sulla continuazione di un percorso avviato con il precedente lavoro Dove i clown vanno quando sono tristi. Tanto il clown quanto lo spaventapasseri sono metafore tangibili per un’intera umanità e attraverso i loro sguardi si svela un mondo, fatto di appartenenza o meno, fatto di radici e identità. Ma adesso il dettato poetico da postmodernista si fa espressionista a tutto tondo, restituendo appieno le parole di un contesto di emarginazione e violenza. Le tinte forti, aspre e disincantate al tempo stesso, sono proprie di un realismo che si racconta per quello che è, chiamato dalle vite di strada e dalle voci che la poetessa raccoglie. Lo scenario è quello metropolitano, desolato e spoglio come pure colmo di oggetti e riferimenti.
Fra black out pesanti e accensioni improvvise Sara Comuzzo registra e restituisce la voce dei personaggi ai margini, quelli stessi da lei conosciuti durante i suoi soggiorni a Dublino e a Brighton. Dalla storia nascono tutte le loro storie per gemmazione successiva. La struttura della raccolta è dichiaratamente teatrale, un prologo e cinque atti, al cui interno viene allestito il racconto di quella comunità di outsider. I personaggi si presentano sul palco e sotto l’occhio di bue imbastiscono il loro monologo. Le parti del giorno giocano a nascondino, il tempo dentro ogni storia non è più tempo concordato e mansueto. Così anche i luoghi sono abbandonati a se stessi al pari dei loro abitanti, le fiabe stanno buone sempre a lato, le bambole sono ammantate di lutto e desolazione. Insomma, questi uomini e queste donne senza tetto né legge finiscono per operare sempre un ribaltamento dei canoni vitali comunemente intesi. Ma quanta delicatezza, quanta umanità perduta, quanta dignità nella disperazione! Un’ infinita poesia dalla strada al cielo oltre la sopraelevata, tinta di realtà e irrealtà insieme, per dirla con Ferlinghetti. A fra combaciare temi e motivi delle poesie, appare molto apprezzabile la frammentazione che scolpisce le storie qui restituite. I frammenti sono tasselli assolutamente necessari, il ritmo spezzato è una scelta che ricongiunge anziché creare disordine. È quanto serve per completare questa “biografia di fiori di carta e manichini che delinea le spaccature e i tagli dell’esistere”.
Elisabetta Beneforti
Estetica del frammento
All’aria aperta o en plein air:
una falena cade incendiata.
Ne sappiamo tanto quanto un cane
che guarda la luna.
Il tuo modo di respirare
ambisce all’indicativo presente.
Sfioro una primitiva adesione alle cose.
Paradisi fiscali.
Una frattura possibile.
Ricerca nominale.
Identificare il verbo.
Capacità di denominazione.
Resistenza di fronte alla costante perdita di senso.
Dire è una sollecitazione al fare.
Il potere di battezzare.
Attestare la possibilità di esserci.
Accorciare la distanza tra testo e contesto.
L’evolversi delle cose tra nuvole e marciapiedi.
Ricerca di senso in un percorso di totalità.
Estetica del frammento.
Resettare la nebbia.
Un giorno, capirai.
Luoghi immaginari
Soffia sulle candeline, esprimi un desiderio.
Offri sul palmo la tua vita,
come fosse un fossile da mostrare a degli scolari
che non sanno nulla del passato.
Il momento del viaggio in cui proseguire
è più conveniente che tornare indietro.
Naufragare.
Trovare scuse per andare e non tornare.
Cercare le vene alle bambole,
bucarle con cura per non fare loro del male.
Svuotare la siringa per teletrasportarsi
nel Paese dei Balocchi:
partire per una vacanza.
Luoghi immaginari.
Il jet lag dei dromedari.
La Terra Promessa.
Eldorado non aspetta.
Guida in stato di ebrezza.
Testa-coda all’aeroporto.
Aperitivo con gli androidi.
Fare l’hula-hoop attorno alla luna.
Nevicata di atti di purezza a casaccio
sul Giardino dell’Eden.
Da queste parti, sono tutti imbottiti di sonniferi;
ma tu, prenditi cura dei fiammiferi,
un giorno diventeranno incendi.
Colleen
Il make-up può nascondere le rughe,
togliere qualche anno,
seppellire le occhiaie;
ma non ti rende felice se non lo sei.
Dall’altalena invisibile
su cui sei rimasta da bambina,
saluti il mondo con la mano.
Cominci a toglierti la polvere dal cuore
e da tutto ciò che è rimasto in soffitta
da quando sei nata.
L’angolo perfetto
Certe cose non vogliono finire
solo ricominciare da capo.
Tutti fanno brutti sogni.
I passi ovattati dalle foglie,
dove i gatti randagi vanno a dormire.
Questo è il gioco dell’oca,
tira i dadi che da qualche parte andremo.
Arriva altra gente, la stanza si rimpicciolisce.
Un aquilone rimasto dentro casa
cerca l’angolo perfetto per morire.
Andy
Alcune foglie
non vogliono più far parte del ramo.
Alcune finestre
vogliono una vita separata dal muro.
Preferisci la polvere bianca e la pipa
la neve
piuttosto che scendere a compromessi
cadere nella trappola di tutti
fare la fila composto
sorridere per un lavoro di merda
che ti paga l’affitto e ti aiuta a morire.
INTERVISTA A SARA COMUZZO
IN OCCASIONE DELL'USCITA DELLA SUA ULTIMA RACCOLTA POETICA
Dove i clown vanno quando sono tristi, Brè Edizioni
a cura di Elisabetta Beneforti
Pioggia Obliqua :
Cominciamo questo dialogo dal titolo suggestivo della tua ultima raccolta di poesie Dove I Clown Vanno Quando Sono Tristi… contiene un richiamo simbolico oppure nasce da un’occasione?
Sara Comuzzo :
Entrambi. I clown, nell’immaginario letterario e cinematografico, al circo o per strada, mi hanno sempre affascinata. È iniziato tutto con un verso, uscito come una sorta di richiesta/imperativo: “Portami dove i clown vanno quando sono tristi”. Da qui è partita la ricerca di una coordinata geografica ideale che possa accogliere i superstiti, le persone tristi, quelle dimenticate dalla società o quelle che semplicemente hanno avuto una brutta giornata. Vivevo a Dublino a quel tempo, e la città è piena di senzatetto, che sono spesso tossici, per le strade. Lavoravo in una sorta di centro accoglienza per loro e la metafora del clown mi è parsa adatta alla parte di umanità con cui avevo a che fare, e al mondo in generale. Dov’è che i clown vanno quando sono tristi? E prima ancora: può un clown, che dovrebbe sempre far ridere (tralasciando ovviamente l’immaginario kingiano di It, in cui clown equivale a mostro) avere una giornata no? E se sì, dove si rifugia?
In questo libro, i clown sono una metafora altamente simbolica, nonostante il trucco, pretendono una certa forma di giustizia, cercano un qualsiasi legame relazionale, una soluzione alla solitudine in una società postmoderna piena di contraddizioni e problemi interpersonali. Nella raccolta, la poesia intitolata Innocenza porta quel verso e descrive la casa dei clown come “Un luogo in cui poter essere se stessi,/ stare al caldo, tornare bambini./ Non essere mai numeri/ ma solo trattini/ sempre legati a qualcos’altro.” Ecco, è questo il messaggio ultimo che credo sia l’essenza dell’opera: l’esistenza di un legame continuo tra cose, luoghi e persone.
PO :
L’autobiografia è imprescindibile nella tua scrittura che racconta il tuo sguardo sul mondo… è cambiato qualcosa dalle precedenti raccolte?
SC :
Sicuramente le mie prime due raccolte (grazie a Dio fuori stampa oramai!) erano molto immature, a livello di stile, linguaggi ed equilibrio interno. Sono più consapevole nelle mie ultime tre raccolte: vi è un lavoro di editing più profondo, una maggiore precisione formale. Ma ci tengo a precisare che non sono e non sarò mai una poeta lirica, canonica e formalmente perfetta. Sono amante della beat generation, del surrealismo, dell’in yer face theatre, e del postmodernismo; e non sono interessata a leggere né a scrivere di altro.
Nella mia scrittura c’è sempre molta autobiografia, ma forse ho imparato a nasconderlo meglio negli ultimi libri e spostare il baricentro da qualcosa di troppo personale alle sue declinazioni nella vita degli altri. Per esempio, la sofferenza per una sorta di perdita che può essere la fine di una relazione o la morte di una persona cara, se prima era qualcosa di puramente legato al mio vissuto, ora cerco di esternarmene e raccontarlo come fosse esperito da altri. Ma in soldoni, parlo sempre di quello che vivo e sperimento, pur cambiando il punto di vista.
Forse il fil rouge della mia poetica (e della poca narrativa che ho scritto) è l’interesse per le storie ai margini, per gli outsiders, per le emozioni vissute al massimo, di stomaco. Mi piacciono gli estremi, non le vie di mezzo. Ciò è in parte dovuto al mio lavoro: per anni ho lavorato come educatore con tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, autistici, o minori difficili. Credo sia importante portare alla luce alcune voci fuori dal coro. Nelle mie raccolte, ho parlato di bambini di strada incontrati nelle baraccopoli di Nairobi; personaggi strani incrociati a Vancouver; tossici con cui ho lavorato a Dublino o Brighton; e ovviamente anche persone “normali”, uomini d’affari che tradiscono le mogli, bambine che giocano in cortile e poi vengono investite, e gente che si incontra tutti i giorni nella quotidianità. Ho parlato spesso di perdite, tristezza e dolore, ma solo perché, quando sono felice, generalmente, mi godo la felicità e non ne scrivo. Ma questa cosa forse deve cambiare.
PO :
Penso al film di Jarmush, Paterson, che narra la poesia nel suo realizzarsi nel quotidiano… per te è urgente o piuttosto una sorta di epifania?
SC : Ho dovuto guardare il film, prima di poter rispondere a questa domanda. Tra l’altro: pellicola stupenda. Mi è piaciuto un sacco. Grazie duemila per il suggerimento cinematografico!
Diciamo che era sicuramente qualcosa di urgente in passato. Ci sono scene, nel film, in cui il protagonista scrive al lavoro, sull’autobus, prima di iniziare il suo turno o durante le pause. Questo capitava anche a me fino a qualche anno fa. E nello stesso tempo erano comunque sempre presenti delle epifanie, delle ondate creative, come fari nella notte. Al giorno d’oggi, la vita mi ha certamente reso meno sognatrice e forse anche meno creativa, vedo e sento meno poesia in giro; la freneticità degli impegni quotidiani, i turni di lavoro, le relazioni, le giornate in sé e la stanchezza che ne deriva, nonché l’età che avanza, mi hanno resa forse meno ricettiva e meno produttiva verso la poesia. Ora come ora rimango in attesa delle ondate di creatività e cerco di usarle al meglio.
Alla fine dei conti, il mio processo creativo e poetico è rimasto sostanzialmente uguale: è tutto sempre caotico e urgente inizialmente e poi viene messo (vagamente) in ordine durante la fase di editing. Le mie poesie sono sempre nate e nascono tutt’ora come collage di frasi spesso scritte in momenti diversi, spesso addirittura versi presi da poesie diverse e poi assemblati, tagliati e ricuciti in una poesia finale. Una sorta di uso della tecnica del cut-up, in cui urgenza ed epifania si incontrano e si bevono un whisky affumicato scozzese insieme.
PO :
Dove I Clown Vanno Quando Sono Tristi contiene epigrafi di Frank O’Hara, Dylan Thomas, Issa… sono rimandi importanti che parlano delle tue ‘radici’ letterarie…
SC :
Sì, assolutamente: questi nomi possono senza dubbio considerarsi linfa vitale delle mie radici letterarie. Frank O’Hara e Dylan Thomas vivono sul mio comodino, praticamente. I miei gusti personali spaziano in una costellazione di scritture molto diverse, il cui unico punto in comune sono la loro unicità e originalità.
Alcuni nomi indicativi di questa diversità, che mi vengono in mente a livello poetico e che ritengo fondamentali, sono: Ferlinghetti e Kerouac della Beat Generation; l’immenso postpostmodernista Ben Lerner; la poetessa nera, attivista lesbica e teorica dell'intersezionalità Audre Lorde; la spoken word lgbtq+ di Andrea Gibson; la poesia di strada della scozzese Claire Askew; la semplicità e brutalità dei versi di Bukowski; l'immediatezza dei componimenti delle poliglotte Natalia Bondarenko e Ariane Castelo Cipriano, entrambe amiche e artiste che stimo profondamente. Adoro poi la poesia contemporanea russa, in particolare Boris Rhyzy e Vasilij Filippov, entrambi mentalmente instabili, ma talentuosi all’inverosimile.
Non ho una ricca conoscenza della letteratura italiana, ma nel panorama della poesia contemporanea stimo molto Isabella Leardini, Francesca Genti, Dario Bertini, Vincenzo Costantino Chinaski, Pierre Lepori, Fabrizio Bajec, Antonio Merola, Simone Cattaneo, Luca Pizzolitto, Massimiliano Bardotti e, naturalmente, Elisabetta Beneforti.
L’ispirazione viene però anche da altri campi, poiché se una scrittura mi colpisce, per forza di cose ne risentirà anche quello che scrivo io: il teatro di Sarah Kane è sicuramente ciò
che mi ha influenzato di più su ogni livello. In narrativa leggo quasi solo ed esclusivamente: James Frey, Jeanette Winterson e Cynan Jones.
Infine, un grande ascendente proviene anche dalla musica che ascolto. Vado spesso a correre e ascolto canzoni nel mentre, rituale che ha molto a che fare con il mio processo creativo. Perciò, artisti come Vasco Brondi, Calcutta, Conor Oberst, Kyle Morton, Phoebe Bridgers, Bon Iver, Lady Lamb, Sufjan Stevens, Iron and Wine, Keaton Henson e Julien Baker sono per me a tutti gli effetti dei poeti e delle vere e proprie fonti di letteratura. Ascoltandoli spesso, indubbiamente, la loro unicità e il loro storytelling suggestionano in qualche modo anche i miei scritti.
Scusa, questa risposta sembra una lista della spesa (e per me lo è, senza dubbio! Una lista i cui acquisti vivono nella mia libreria o nel mio lettore mp3), ma per riassumere posso dire che sono attratta da scritture viscerali, la cui sensibilità estrema si traduce in una voce unica e diretta.
PO :
Al tuo lavoro poetico affianchi quello di traduzione di poeti inglesi… come se si nutrissero l’uno dell’altro, una questione di idiomi e di linguaggi…
SC :
Le mie letture e di conseguenza le mie traduzioni propendono verso i gusti personali che privilegiano una letteratura anglo-americana. Mi piace molto l’immediatezza della lingua inglese e il suo essere costituita da frasi generalmente brevi e poco arzigogolate, contrariamente all’italiano, più prolisso e ricco di subordinate. Inoltre, l’inglese è l’unica altra lingua che conosco decentemente e a cui posso accedere per scoprire nuove scritture.
Una cosa che mi piace molto è tradurre poeti che ho conosciuto, dando vita a collaborazioni geograficamente itineranti e potenzialmente senza confini. Avendo vissuto all’estero per molti anni, ho avuto la fortuna e l’onore di partecipare a festival teatrali, poetici e letterari, dove ho incontrato artisti che stimo molto. Anche la vita di tutti i giorni o i viaggi on the road mi hanno permesso di incontrare alcuni dei poeti che sto traducendo: Ariane Castelo Cipriano (collega di lavoro; brasiliana poliglotta), Jeremy Page (professore universitario; inglese), Robert August Smith (compagno di viaggio, incontrato sulla strada; americano).
Senza dubbio sono interessata a tradurre solo e unicamente artisti che sento vicini alla mia poetica, non sarei in grado di lavorare su testi che non mi piacciono. Non ho studiato traduzione o altro, quindi i componimenti devono arrivarmi addosso, investirmi come un autotreno.
Per esempio, per Yawp, una delle riviste con cui collaboro, ho scoperto e tradotto Craig Czury ed è stata una vera e propria esperienza. Mi hanno proposto di tradurlo ma io non lo conoscevo, quindi ho risposto “Forse, ma devo dargli un’occhiata prima”. Ho letto quello che mi era stato mandato e mi ha completamente folgorata: è un poeta estremamente beat, con un flusso di pensiero pazzesco, una grammatica anarchica, un immaginario postmoderno, una lente di ingrandimento sulla quotidianità di strada, esattamente come piace a me, esattamente quello che cerco dalla letteratura. Allora ho detto sì.
PO :
Vivere in altri territori rispetto al tuo di origine… dal Friuli all’Irlanda e all’Inghilterra, i tuoi grandi viaggi come specchio e punto di arrivo per la tua scrittura…
SC :
Forse la risposta a questa domanda si ricollega alla precedente. Ho vissuto e lavorato in diverse parti del mondo (tra cui Canada, Australia, Nuova Zelanda, Kenya, Scozia; e infine, Inghilterra e Irlanda, che sono i posti in cui mi sono fermata più a lungo). C’è sempre stata un’urgenza di visitare altri mondi, entrare in contatto con culture diverse, sperimentare qualcosa di lontano.
Udine e il territorio friulano mi sono sempre stati stretti. A posteriori, posso dire che, inconsciamente ma anche fisicamente, ho sempre cercato di scappare dal Friuli, prendermi una pausa dalla sua immobilità e poca originalità.
Sarà divertente vedere come questa fuga, ora bruscamente interrotta dalla pandemia, si evolverà nella mia vita personale e nella scrittura, poiché abbiamo parlato di come esse siano strettamente legate.
Per riprendere la tua domanda, sono sicuramente in cerca del punto di arrivo, dedico tempo più sano e preciso alla scrittura, non più vissuta solo come un’urgenza, e di certo non intesa come un lavoro, ma come uno spazio specifico e personale in cui concentrarsi e buttare nero su bianco. Un po' come la stanza nel seminterrato in cui Paterson va nel film. Se prima mi ritrovavo più in lui che scrive sul bus, ora la mia scrittura è decisamente a uno stadio in cui vi è una stanza dedicata all’azione; forse, la stanza tutta per sé di cui parlava la nostra amata Virginia Woolf. O almeno così mi piace pensare.
poesie edite da Dove i clown vanno quando sono tristi
Innocenza
Le ultime parole prima della fine dell'alfabeto.
Un tentativo di amare senza aspettative finito male:
Portami dove i clown vanno quando sono tristi.
Un luogo in cui poter essere sé stessi,
stare al caldo, tornare bambini.
Non essere mai numeri
ma solo trattini
sempre legati a qualcos'altro.
L'innocenza di un insetto che sta per morire e lo sa,
la sua dignità.
Colombe
Io sull'acqua ho pattinato sicura.
Le notti svaniscono
si dilatano come una crepa sul muro
esplosa dopo anni
di avvertimenti
dalle porte sbattute.
Andare a casa per guardare una soap-opera
in cui gli attori si sono ammazzati
pur di non far più parte del gioco.
Il satellite del pianto
ruota attorno agli occhi
che però restano asciutti
almeno quanto Londra.
Si apre ai lati il vestito da sposa
di diciassette taglie più piccole:
il corpo che dovevi avere
la moglie che volevi essere.
Le colombe sanno tutto
lasciate in fin di vita
sui tetti dell'inverno.
Turno di notte
Mentre morivi
io facevo il turno di notte
in un supermercato
a riempire scaffali,
svuotare le scatole, sistemare la carne nel frigo.
Non posso fare a meno di pensare
ai pezzi di corpo, i residui dei muscoli,
e quel che rimane. I ricordi indelebili.
Chiunque ha detto che il turno di notte lo fanno le stelle,
mentiva.
Fermarsi
Clessidre capovolte
invece di rubare il tempo lo regalano.
Scrivere poesie dolcissime
e poi trovarsi senza zucchero in casa
quando gli ospiti vengono a bere il caffè.
Rincorrere il sole prima che faccia buio.
Adesso, le rughe sul volto crescono più profonde,
solcano un terreno chiamato età,
preannunciano, sussurrando, che è tempo di andare.
Anche fermarsi dopotutto è un viaggio.
Sara Comuzzo (Udine,1988) ha pubblicato cinque raccolte di poesie e una di racconti. Sue poesie appaiono su siti, riviste e blog letterari in Italia e all'estero e sono state tradotte in portoghese, spagnolo, russo e inglese. Ha studiato letteratura moderna e studi di genere alla Sussex University con una tesi sul teatro di Sarah Kane. Collabora con YAWP nel reparto "Poesia", come critica e traduttrice. Vive e lavora fra Italia e Inghilterra.
Dove i clown vanno quando sono tristi ha vinto il Premio Letterario Kerasion e si è classificato al terzo posto del Premio Internazionale Navarro.