TURNTABLIST SPOT
PARTI/CELLE POETICHE IN TRANSITO A CURA DI SIRIANA LAPIETRA,
STUDIO RISONANZE SONORE
FIRENZE
mostra di Elena Marini - presentazione
di Claudia Placanica
Una settimana fa ero al cinema con Elena Marini a vedere l’ultimo film di Jodorowsky. Lei aveva in grembo dei cioccolatini che, dietro mia richiesta, ogni tanto mi porgeva. Quei cioccolatini avevano una strana consistenza: Elena stava piangendo e annaffiava i cioccolatini con le sue lacrime. Il poeta visivo accanto a me stava ritrovando sé stessa nella Poesia senza fine dell’anziano regista.
La parola poesia ha origine dal greco ποίησις, poiesis derivato dal verbo ποιείν,
poiein, fare. Oggi in molti scrivono poesie, ma il pubblico preferisce romanzi e racconti. Nell’epoca digitale, epoca di eccessi estetici, priva di valori assoluti in cui i leader del passato e i paladini dei diritti diventano delle icone pop, gli SPOT di Elena Marini dimostrano che la poesia è viva; gli SPOT sono una maniera di vedere la realtà e non di limitarsi a subirla. Il mondo, la società hanno bisogno di medium come il poeta visivo che rende visibile il fatto che la storia, la creatività non sono finiti. Abbiamo bisogno di qualcuno che veda aldilà della realtà, di qualcuno che metta in discussione le idee con altre idee. Il poeta, come disse Ungaretti a Pasolini, “incomincia col trasgredire tutte le leggi”. E cosa fa la Marini? Lei mette in relazione oggetti, testi e contesti che, apparentemente, sono estranei fra loro. Lei crea, ma, per creare, utilizza oggetti preesistenti. E, infatti, la massima espressione del creare, è dar vita a qualcosa di nuovo utilizzando qualcosa di vecchio. Lei, come Don Chisciotte, si applica “a far lucenti alcune arme di cui si erano valsi i bisavoli suoi, e che di ruggine coperte giacevano dimenticate in un cantone: le ripulì e le pose in assetto il meglio che gli fu possibile, poi s'accorse ch'era in esse una essenziale mancanza, perocché invece della celata con visiera, eravi solo un morione ma supplì a ciò la sua industria facendo di cartone una mezza celata, che unita al morione pigliò l'apparenza di celata intera.” (Miguel De Cervantes, Don Chisciotte della Mancia). Don Chisciotte è colui che prende una bacinella, se la mette in testa e la fa diventare l’elmo di Mambrino. L’idea che l’arte debba produrre qualcosa di nuovo è un pregiudizio romantico. Dall’arte greca in poi, non vi è stato più nulla di nuovo. Come affermano senza vergogna i disc jockey: tutto sta nel remix, nella reinterpretazione. E lo spirito della cultura del nostro tempo sta proprio nella capacità di ricercare e rivisitare il già esistente: non più uno storytelling, ma un’esperienza della realtà che riveli il conformismo, attaccandolo. La poesia visiva è azione, è lotta e, gli SPOT, sono gesto anarchico di attacco al cuore della realtà. La realtà mediatica che s’impone come modello standard e che la Marini scardina attraverso il suo montaggio che si avvale dell’effetto Kulešov, fenomeno cognitivo del montaggio cinematografico dimostrato dal cineasta russo Lev Vladimirovič Kulešov negli anni Venti. Kulešov fece un esperimento che dimostrò che la sensazione che un'inquadratura trasmette allo spettatore è influenzata in maniera determinante dalle inquadrature precedenti e successive. L'effetto Kulešov fu quindi la dimostrazione della grande importanza del montaggio nella comprensione di ciò che appare in una sequenza cinematografica e fu fondamentale per la formulazione delle prime teorie sul montaggio stesso. La Marini opera proprio come un cineasta: si appropria di immagini, parole e frasi preesistenti ed estrapolate da un contesto, le fissa quindi in uno spazio che le rende nuove, facendoci vivere l’esperienza della consapevolezza. La sua ricerca, più cinematografica che letteraria, è tutta tesa nello smascherare il bluff dei media, della pubblicità, delle affermazioni assertive e apodittiche, spesso boriose, sempre manipolatorie e basate su bisogni artificiali. La forza degli SPOT è nello scongiurare il pericolo dell’asservimento a una rappresentazione falsa della realtà, è la rivelazione che il potere ci vorrebbe tutti uguali. Quest’ultimo è un concetto ricorrente negli SPOT. “Teste di serie” è opera iconoclasta e ideoclasta: qui il collage, effettuato con perizia sartoriale, trasmette la necessità demolitrice del diktat della serialità a livello planetario. Le varie sovrapposizioni, simili allo scratch sound effect del disc jockey, mettono in comunicazione vari elementi: la donna occidentale, la donna orientale, lungi dall’essere libere di esprimere la propria unicità, condividono un comune destino di omologazione spacciata per globalizzazione. In un altro SPOT, leggiamo “Sono quando non ci sono”. Qui siamo davanti a un’attualizzazione del cartesiano “Cogito ergo sum”: la certezza della scissione come unica fede al posto dello scetticismo metodologico, al posto del dubbio. L’individuo, la donna, può essere ciò che è, solo a patto di essere fuori dai riflettori, a patto di non essere visto, di non dover indossare maschere. I membri della collettività, negli SPOT, più che apparire soggetti, sono i corpi che si offrono in olocausto attraverso la vocazione narcisistica che li fa regredire a oggetti. “La donna, i giovani, il corpo, la cui emergenza dopo millenni di schiavitù e di oblio costituisce in effetti la virtualità più rivoluzionaria, e dunque il rischio più serio, per qualunque ordine costituito, sono integrati e recuperati come ‘mito di emancipazione’. Si dà da consumare la Donna alla donna, i Giovani ai giovani e, in questa emancipazione formale e narcisistica, si riesce a scongiurare la loro liberazione reale.” (Jean Baudrillard, La società dei consumi)
La poesia visiva e i suoi interpreti svolgono un’attività preziosa, capace di metterci in contatto con una nozione nuova di ciò che l’abitudine e la consuetudine ci impediscono di percepire nella sua oggettività. L’azione della Marini svela l’oppressione che il mondo neoliberista riesce a realizzare attraverso un’estetica accattivante, priva di etica e, lo fa, assumendosi la responsabilità di rifiutarne l’adesione. Il coraggio, l'audacia, la ribellione sono elementi essenziali di questo tipo di poesia, nata dalle molteplici sperimentazioni artistiche e letterarie degli anni Sessanta del XX secolo, nella temperie della Neoavanguardia. La sinestesia, strumento tradizionale della poesia visiva, con gli SPOT, si arricchisce di allegorie irriverenti che rendono il contenuto sovversivo e drammaticamente attuale. Il linguaggio – ci dicono gli SPOT - è un artificio elaborato dal potere e, quindi, va smascherato: “il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, […] Egli giunge all'ignoto, e quand'anche, sbigottito, finisse col perdere l'intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe pur viste!” (Arthur Rimbaud, Lettera del Veggente). Gli SPOT sono un tramite con eventi, luoghi o oggetti, lontani o “nascosti”. Sono un’esperienza di dissenso verso il potere perché ci fanno comprendere che, l’essere umano, non è quel manichino cui l’industria guarda come un cecchino mira al suo bersaglio. La poesia visiva della Marini assurge a mezzo di lotta scagliato verso il conformismo della società, un’azione imprescindibile che contribuisce al progresso dei valori, della verità e allo sviluppo del bello.
Claudia Placanica
Elena Marini
SPOT n°293
collage su carta 40x30 cm
2017
Elena Marini
SPOT n°188
collage su carta 40x30 cm
2016
Intervista a
Elena Marini
Spot n° 186
PIOGGIA OBLIQUA: Hai un background artistico: hai cominciato a posare all’età di quattordici anni, sei stata modella all’Accademia di Belle Arti di Firenze e Parigi, hai posato per grandi fotografi e artisti, sei stata performer e body artist. Una vita dedicata all’arte. Chi è Elena Marini?
ELENA MARINI: Come potrei autodefinirmi? Una sabotatrice? Una guerriera? Una provocatrice? In ogni caso, non so fare altro. Credo di essere felicemente affetta da una malattia mentale congenita e incurabile, che implica il fatto di essere incline a vizi ed eccessi, ad amare l’arte e gli uomini, a fare cose che altri si proibirebbero anche solo di pensare. Sono impulsiva e incazzosa, tendenzialmente solitaria, con uno spiccato bisogno di testarmi e di superarmi, cosa che ha provocato necessariamente un randagismo affettivo che, con il passare degli anni, è diventato una struttura esistenziale. Non so cosa significa la frase “sentirsi a casa”: fin dall'infanzia ho avuto sempre la sensazione di essere fuori posto. Ho sempre amato le cose che non interessavano agli altri. Posso dire che recentemente ho conosciuto, o piuttosto ri-conosciuto, un mio simile con cui non mi sento in pericolo, anzi con cui riesco a ridere di certe mie manie e ossessioni, a esaltare la mia malattia mentale: questo mi rende la vita più interessante e la mia solitudine ancora più dolce. Le uniche regole che posso accettare sono quelle che provengono da me stessa: si tratta di un’autodisciplina, inossidabile alle interferenze altrui, essendo una donna poco incline a fare compromessi. Vivo in maniera antiprotocollare, ho necessità di lavorare in silenzio e di notte, di avere uno spazio tutto mio dove nessuno ha accesso. Ho un chiaro e netto rifiuto del paterno, di tutto quello che rappresenta per me una qualsivoglia autorità: la percepisco come un elemento coercitivo, immobilizzante e reagisco con altrettanta ferocia. Ho sempre vissuto agendo di testa mia e assumendomene ogni responsabilità, ho sempre amato la dimensione del rischio: mi sono presa delle belle botte, le ho date, ho vinto e ho perso. Essere donna, artista e madre è un’impresa titanica. L’importante è evitare il mortifero, cioè “l’immobilità pensosa”, come direbbe Marinetti. Più passa il tempo meno persone mi amano e più persone mi detestano, con tutte le varianti del caso. A volte desto sospetto o certe persone hanno la tendenza a vedermi più come un personaggio che come una persona e questo è un fatto che per me è totalmente positivo, perché non ho peli sulla lingua e ho uno spiccato gusto per la provocazione. Non ho scheletri nell’armadio né conti segreti in Svizzera. Gli esercizi di obbedienza e il “sois belle et tais-toi” non fanno per me. Sono socievole ma mai sociale.
PO: Qual è il pericolo più grande per un artista?
EM: Separare l’arte dalla vita e, quindi, entrare irrimediabilmente nel circolo vizioso e schizofrenico dell’autoinganno, che a sua volta genera una sempre maggiore mancanza di autostima e, conseguentemente, un maggior bisogno di essere riconosciuto socialmente, perdendo completamente di vista il fatto che si fa arte per necessità e non per altri motivi.
PO: Con quale percorso sei approdata alla poesia visiva?
EM: Con una telefonata. Nel 2002 Eugenio Miccini cercava una modella con cui fare delle performance e un’amica che avevamo in comune gli rifilò il mio numero. Mi presentai a casa sua e mi ricordo che lui mi guardava di sottecchi mentre mi faceva delle domande a voce bassa. Cominciammo subito una collaborazione e in seguito facemmo diversi omaggi a Duchamp e uno a Magritte. Fu lui a parlarmi per la prima volta della Poesia Visiva. Venni in contatto con un mondo nuovo e ne restai affascinata. Sentivo il potere delle parole. La loro forza. Guardavo i suoi lavori, sfogliavo i suoi libri e suoi cataloghi, prendevo nota di autori fino allora sconosciuti: Lucia Marcucci, Ketty La Rocca, Lamberto Pignotti e Sarenco. Il rapporto che ho vissuto con Eugenio fu intenso, fatto di grandi complicità, affetto, discussioni, punti di vista differenti, conflittuale e tenero, ma fortemente formativo. Naturalmente all’epoca non mi azzardavo a fare un collage, il foglio bianco mi terrorizzava. Cominciai a realizzarli nel 2008, poi smisi, poi ricominciai, poi buttai tutto via in un cassonetto. Non ero pronta. Dal 2015 mi dedico solo ed esclusivamente alla poesia visiva. Ho capito che era necessario abbandonare tutto il resto, mi sono resa conto che la mia cosiddetta ecletticità non era altro che dispersione. Deciso questo, ho messo in atto un processo di epurazione, che era assolutamente indispensabile.
Spot n°196
PO: I tuoi SPOT possiedono un grande impatto visivo e ci fanno arrivare senza nessun filtro messaggi di denuncia, “doppelgänger” è il loro titolo complessivo e ne indica già l’estetica che li nutre…
EM: Mi è sempre piaciuto pensare che dentro a una cosa apparentemente compatta ci possa essere un elemento estraneo che possa essere portatore di una differenza e che attua un processo di sabotaggio, atto a far scoppiare il corpo che lo ospita. In questo senso “doppelgänger”, il doppio viandante. Trovo che viviamo nel peggiore dei mondi possibili, come diceva Dino Campana, che stiamo andando verso l’autodistruzione, a forza di flirtare con il virtuale e con delle immagini stereotipate che sono molto pericolose. Navighiamo in un mondo inestetico, brutto, perché mancante di senso, di avventura, di rischio, dove tutto è programmato al punto che le parole non hanno più la forza che dovrebbero avere. Viviamo ormai nello sterilizzato, nel conforme, in una omologazione ripugnante e sotto un controllo sempre più invadente che, credo, non abbia precedenti nella storia. Sbattiamo contro un muro di gomma. Ho ingaggiato una lotta contro il brutto, quindi contro il decorativo e il consolatorio, una guerra contro questa società ipocrita, mistica e pornografica. Uso le mie parole come se fossero pallottole, punto e sparo. Devo avere una vista e una mira perfetta, individuare il punto esatto dove colpire, essere attenta e veloce, per questo non amo perdermi in inezie, cioè in una ricerca puramente estetica. Quello che conta è quello che voglio trasmettere e quello che voglio trasmettere sono io, tutta me stessa, le mie idee e le mie valigie fatte e disfatte. Io sono tutta dentro al mio lavoro, tutta dentro al mio viaggio verso una meta indefinita, senza cartine né segnaletica. Capisco che sia più confortevole sopravvivere piuttosto che vivere accettando questi rischi, ma preferisco sfrecciare sulle montagne russe che crepare di noia.
PO: Scegli per te il termine di “poeta” rifiutando quello di “poetessa”. È così importante per te questa differenziazione?
EM: Ritengo che l’appellativo poetessa sia gregario. Non sono la sola, anche Anna Achmatova lo rifiutava. Nessuno prende sul serio una che si fa chiamare poetessa! È un termine debole, ridicolo, da rivista femminile, da borghesucce annoiate che parlano di banalità davanti a un tè con i biscottini. Ha un che di bien comme il faut, di passivo, di malaticcio. Poet- non essa, come direbbe qualcuno di mia conoscenza.
Spot n° 200
PO: Majakovskij è un punto di riferimento cui torni continuamente, sia nella poetica che nella visione sul mondo…
EM: “Io lancio il mio verso come una parola d'ordine e di lotta”. Non c’è praticamente giorno che non pensi a Majakovskij, è il leitmotiv della mia vita. Perché per me è il Poeta dei Poeti, il Poeta Totale. Certamente ne amo anche altri, ma non con lo stesso trasporto e la stessa intensità. Penso a Esenin, Rimbaud, Apollinaire, Mallarmé, Tzara, Villon, Blok, Achmatova, Cvetaeva e, naturalmente, Marinetti. I poeti sono all’origine delle avanguardie e la poesia è generatrice di momenti eterni. Majakovskij è un mio simile, per questo mi commuove, perché in lui vita e opera coincidono perfettamente, perché in lui tutto è prepotentemente immediato. La parola è talmente forte, aggressiva, che genera immediatamente una immagine altrettanto potente: quando lo leggo vedo dei cortometraggi, ci sono rumori, schianti, lacrime e una costante forza rivoluzionaria. Il suicidio di Volodia è stato, di fatto, un dire addio alla sua rivoluzione, per la quale ha combattuto fino all’ultimo, con grande coraggio, tenacia, autenticità e passione.
PO: Cosa si può dire riguardo al dibattito odierno sulla definizione “esperienze verbo-visive” a sostituire quello storico di “poesia visiva”?
EM: Trovo che il termine “esperienze verbo-visive” sia inappropriato, quantomeno generico, limitativo. Per quanto riguarda la poesia visiva non ha alcun senso cambiare nome. Per me si tratta di un processo di semplificazione, generalizzazione, omologazione e archiviazione, in qualche modo di sterilizzazione, atto principalmente a far fuori tutta la portata rivoluzionaria che ha avuto fin dall’inizio e in cui consiste la sua peculiarità: il fatto che, con la nascita delle avanguardie storiche, la poesia perde definitivamente il suo atteggiamento consolatorio, passando dalla rassegnazione alla lotta. Quando c’è stato da battere pugni sul tavolo in difesa del termine “poesia visiva” io l’ho fatto, mi sono ritrovata quasi isolata, ma sentivo il bisogno di marcare il mio diverso punto di vista. Sennò quasi tutti zitti, come se la cosa non li riguardasse: mi riferisco a persone che, senza nessuno scrupolo, si dichiarano essere dei poeti visivi. Non mi sono mai piaciuti gli yes-men, in ogni caso li evito come la peste. Mi faccia stare zitta, perché sennò faccio nomi e cognomi. Andranno giù come birilli, mi creda, sono individui tiepidi e troppo indaffarati, distratti: è solo una questione di tempo. La poesia non accetta di passare in secondo piano o di essere vissuta come un passatempo: è anarchica, ribelle e invasiva. È totale. In fondo, per me, chi non prende mai nessuna posizione e chi non accetta la dimensione del rischio, per vigliaccheria o semplicemente per interesse, non può esser definito un poeta. La poesia visiva resiste e non si fa cancellare, protegge chi la ama e continua la sua lotta, a dispetto di tutto e di tutti.
Spot n° 14
Spot n° 128
Elena Marini è artista, poeta visivo, costantemente impegnata in una forma di guerriglia creativa e resistenza poetica. Note sono le sue collaborazioni con i seguenti artisti: Sarenco, Eugenio Miccini, Vanessa Beecroft, Tom Sachs, Jean-François Bauret, Daniel Druet, Uwe Ommer, Daniel Nguyen e Peter Suschitzky. I suoi SPOT non sono altro che delle diapositive, una radiografia della società, in un processo continuo di svelamento per mostrare l’assurdo e l’osceno. Quello che non si può dire, quello che non si vuole vedere.
L’artista, che da sempre indaga lo stretto e controverso rapporto fra parola-immagine, essere-apparire, interno-esterno, individuo-società, sceglie per la sua
prima personale il termine tedesco “doppelgänger” che esprime una dualità insita nell’uomo, presentando i suoi SPOT, opere di poesia visiva, realizzati fra il 2015 e il 2016.
La notevole forza espressiva delle immagini, riadattate e accostate a frasi giustapposte in collages di immediato effetto, è una costante denuncia, schietta,
radicale e tagliente, di una società percepita dall’artista come ipocrita, mistica e pornografica, che abusa del proprio potere per indurre
all’omologazione e al consumo coatto. Nell’artista vita e opera coincidono, con grande coraggio e fermezza d’ intenti, in continuità con quella poesia visiva legata ad una visione estetica
politicamente scorretta e sovversiva.
Come scrive Sarenco in una delle due introduzioni al catalogo della mostra, che sarà presente in galleria: “I collages della Marini
provano che la ‘poesia visiva’ non è ancora morta e defunta, come spesso dicono i corvi dell’arte, quelli sempre pronti ad inneggiare a qualsiasi ‘connerie’ nuovista che appare a cicli
temporali quinquennali sulle pagine patinate delle riviste d’arte alla moda. La poesia resiste e non si fa cancellare: cadranno le mura di Tebe ma rimarranno ‘ad aeternum’ le opere di quei
poeti che non si saranno fatti integrare dalle mode effimere del mercato”.