Q U A L E
P R E S E N Z A
MARIO LUZI
Abbiamo fede e abbastanza certezza che quelle nozioni che a noi sembrano inseparabili dall’essere e dal fare qualcosa: identità, originalità, siano beni o valori da preservare? Le civiltà numerarie, per esempio, nell’Estremo Oriente ripongono i loro valori nell’operare come formiche, nel ripetere in tutto e per tutto la regola e il comportamento collettivo del formicaio. Hanno creato un linguaggio? Sì, ma solo un linguaggio che nella nostra opinione è funzionale alla loro attività (e cioè alla loro essenziale condizione); solo una poesia cerimoniale della corte e dei cortigiani, cioè di una casta che, se vogliamo variare il campo della entomologia, occupa il posto dell’ape regina e del suo entourage; non personale dunque, non individuale, immersa nella serie, nella replica illimitata sentendone i privilegi e la ascesi. Le nozioni di identità e di originalità sono allora non necessarie, ma accidentali, - sia pure il nostro accidente una fase storica di parecchi secoli, più che altro gli ultimi tre o quattro.
Saprà o vorrà ancora la forza accumulata in quel lungo periodo resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno? Il conflitto, se è davvero ancora aperto, può concludersi con esiti opposti: con una esasperata gelosia dell’unicum contrapposto alla serialità o con una resa le cui conseguenze sono appunto incalcolabili perché gli strumenti e la misura del calcolo si modificano continuamente.
Molti eventi tecnologici hanno spaventato l’uomo e messo in forse il suo futuro; ma il futuro, va detto, inteso come proiezione del presente, come semplice continuità. L’uomo ha finora addomesticato e piegato alla sua misura il mostro che reputava minaccioso. Nello stesso tempo, respinto come apocalittico, il “mostro” si è infiltrato ed è sceso a fondo nella sensibilità e nella ideazione dei suoi contemporanei. È avvenuto per la stampa, per il motore, per il cinema. Questa volta la partita si presenta anche più capitale ma una oscura efficace intesa tra l’alienazione e la fedeltà non sarà anche questa volta resa possibile? Tanto da proporre in morfologie imprevedute lo stesso incanto e lo stesso tormento del partecipare alla vita? – che sarà sempre, lei sì, fedele a se stessa. Prevedo un lungo tempo di “agonia”, voglio dire di lotta, su quel discrimine: sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta.
PATRIZIA VALDUGA
Pioggia Obliqua: La poesia sta scomparendo. Ha ancora una urgenza, una necessità il lavoro di chi scrive versi oppure è in atto un superamento di questa espressione sul piano della coscienza? Esiste la possibilità di ricreare un suo “territorio” e una sua “funzione”?
Patrizia Valduga: Non mi pare proprio che la poesia stia scomparendo. Ci sono talmente tanti poeti e versificatori!...Ce ne sono a migliaia... a milioni… Perché oggi la poesia è un piccolo, personalissimo rituale terapeutico. Lasciamo, per favore, ai dilettanti i “territori” e le “funzioni”.
PO: Il destino della poesia: in un mondo quasi del tutto secolarizzato quale diverso sentire impone la creazione di un testo poetico?
PV: È il piacere della forma che fa nascere un testo poetico: io credo che sia sempre stato così e che sarà sempre così. Il destino della poesia, oggi come sempre, grazie al cielo, è di essere letta da pochi e amata da pochissimi.
PO: Memoria soggettiva, memoria del computer: nell’ambito di queste due lingue morte (poesia e intelligenza artificiale) è possibile un’interazione o l’una “vampirizzerà” l’altra?
PV: Non sono in grado di rispondere. Non riesco a trovare una differenza tra usare una matita, una penna o un elaboratore.
PO: Quali mutamenti sono in corso all’interno del paesaggio mentale di chi scrive poesia oggi?
PV: Posso rispondere soltanto di me, se quello che scrivo è poesia: nessuno.
LUIGI BALDACCI
Pioggia Obliqua: La poesia sta scomparendo. Ha ancora un’urgenza, una necessità il lavoro di chi scrive versi oppure è in atto un superamento di questa espressione sul piano della coscienza? Esiste la possibilità di ricreare un suo “territorio” e una sua “funzione”?
Luigi Baldacci: La funzione della poesia è quella stessa del bello in tutte le sue declinazioni: alleggerire il peso della vita sia a chi ne fruisce sia a chi lo produce, per sentirsi ‘consorto in mar de li altri dei’. Con ciò, può anche darsi che l’esperienza della poesia sia superata: la categoria dell’estetico è colata a picco nel nostro mondo che ha perduto la consapevolezza della cosa fatta (che è poi tutt’uno col segno che l’uomo le ha impresso), sostituendovi il concetto e il multiplo. È un dato che non può essere corretto e che riduce la poesia a roba da catacombe. La poesia non è comunque indispensabile; e infatti il peso della vita può essere alleggerito da molte altre espressioni dell’essere: il sesso, la sublimazione, la distruzione, l’agonismo.
PO: Il desino della poesia: in un mondo quasi del tutto secolarizzato quale diverso sentire impone la creazione di un testo poetico?
LB: Che vuol dire secolarizzato? Depauperato ormai del sentimento del divino? Se il rapporto col divino significa consolazione, mondanizzazione, progetto terreno, di questo divino la poesia ha poca necessità. Se il divino è invece la presenza di un Dio che non serve a fini pratici, ma è appunto in noi come avvertimento e garante di un destino tragico, certo la sua perdita non è positiva né funzionale al discorso poetico.
PO: Memoria soggettiva, memoria del computer: nell’ambito di queste due lingue morte (poesia e intelligenza artificiale) è possibile un’interazione o l’una “vampirizzerà” l’altra?
LB: Biologicamente non posso rispondere a questa domanda, non essendo mai riuscito a riconoscere né la cilindrata né la marca di un’automobile.
PO: Quali mutamenti sono in corso all’interno del paesaggio mentale di chi scrive poesia oggi?
LB: Non scrivo poesia. Ma oserei dire che le condizioni ambientali sono sempre le stesse: una distesa brulla allietata dai fulgori della ginestra. Non credo in ogni modo ai doveri sociologici della poesia: non c’è una poesia delle macchine o degli scioperi o dei concerti rock.
LORIANO GONFIANTINI
“Ite di qua voi tutti…..
Se il duca vostro d’appressarsi osasse,
Che non entri, gli dite, e ch’io ci sono.”
(Francesco Maria Piave, Rigoletto)
Così, nel grande respiro liberatorio della musica, Rigoletto, cui il dolore ha rivelato il potere, oltre che essere, dichiararsi uomo, davanti ai cortigiani, rinnega la maschera di comodo.
E così il poeta dimetta la professione di solitario virtuoso e di yes man, pretenda uno spazio di silenzio tra la folla muta e vociante, cieca e zeppa di immagini distorte, dissuasa a pensare umanamente e di continuo sollecitata a pensieri d’artificio, e gridi a chi ancora vuole e può essere salvato, non la sua stizza, ma la sua rabbia, non la recitazione di uno spot, ma la tragedia.
Parli all’uomo e non al personaggio, sua squallida contraffazione, e non abbia paura di essere insolente.
Certamente la poesia, inafferrabile e libero bisogno dell’uomo, non è tutta qui, ma la fine del secolo non dà tregua.
Il dolce conversare, il gioco, il gorgheggio, non sono un lusso, ma possono tornare dopo.
MARCO MARCHI
Pioggia Obliqua: La poesia sta scomparendo. Ha ancora un’urgenza, una necessità il lavoro di chi scrive versi oppure è in atto un superamento di questa espressione sul piano della coscienza? Esiste la possibilità di ricreare un suo “territorio” e una sua “funzione”?
Marco Marchi: Che la poesia stia scomparendo non direi: per molti aspetti verifico di continuo esuberi, eccessi altamente sospetti e abusi non per questo riducibili a nulla. Personalmente, non essendo poeta, ricerco in scritture altrui la poesia, la mia poesia, e in ciò non trovo affatto diverso rivolgermi a testi storicamente già saggiati e accreditati come tali, che proprio così, per via di resistente leggibilità, rivendicano un loro sicuro valore contemporaneo. Rispondo così ad un’urgenza che avverto. Ad ogni modo in molti, oggi, essendo e non essendo poeti, continuano a scrivere poesia, la ricercano soprattutto scrivendola. Di questo bisogna prendere atto. Altro discorso – Sartre insegna – quello delle sovrastrutture che penalizzano ( non solo per via di mero rifiuto ) la conoscenza e la diffusione di testi e messaggi potenzialmente poetici, magari a vantaggio di altri spacciati tout court come tali, inghirlandati o alonati con calcolato cinismo e rozza superficialità, considerando la poesia come una merce e il pubblico non così insensibile e disinteressato, sufficientemente bestiale. Ma qui non dispongo di dati e di strumenti adeguati per giudicare.
PO: Il destino della poesia: in un mondo quasi del tutto secolarizzato quale diverso sentire impone la creazione di un testo poetico?
MM: Si tratta in sostanza dello stesso disagio-incanto provato di fronte a una caproniana “rosa” selvatica, primitiva, scoperta di nuovo, come la prima volta, bella: bella come allora, irresistibile, letteralmente mai vista, capace di fare esclamare chi non riesce ad accontentarsi dei frutti da mangiare, delle cose propriamente appetibili e a loro modo sazianti. Una rosa artefatta, appunto ( con Alfieri e non con le avanguardie scriveremo “artefatta” ), per disagiati-incantati, ma rosa non metastorica: iperstorica, in quanto prodotta e fruita nella storia. Ricordo tuttavia le resistenze di Pasolini a parlare della poesia nei termini compromessi di “prodotto”, sia pure in accezione congrua, di tipo linguistico. (Ma di Pasolini ricordo anche il rilievo riservato a un complessivo esercizio letterario praticando come impegno contestativo dell’obbedienza, presupponendo la letteratura “un vecchio valore di cui il nuovo potere non sa più che farsene”).
PO: Memoria soggettiva, memoria del computer: nell’ambito di queste due lingue morte (poesia e intelligenza artificiale) è possibile un’interazione o l’una “vampirizzerà” l’altra?
MM: Ancora atmosfere romanticamente obitoriali, da sopravvivenza post-moderna, cinematografica… Dandole come “morte”, è più plausibile che le due lingue scendano a patti piuttosto che morsicchiarsi a vicenda, a vuoto. Penso piuttosto come Palazzeschi, per la poesia in tempi di ingranaggi e società economico-televisive, a una fiamma ( da primo atto della Bohème come il celebrato Chi sono? , a ben vedere ) “ che si alza e si abbassa e si può abbassare tanto da ritenerla spenta” ( Alma Poesis ). Ai linguaggi del computer, poi, credo che non si possano negare, se opportunamente interrogati, capacità di sorpresa, stimoli creativi, finanche possibilità di commozione, di primigenia risposta a livello di rinnovato, elementare sentimento. In altri termini mi risulta difficile immaginare che un poeta di oggi possa essere un estimatore della “civiltà delle macchine” ( in questo senso esiste già, e da tempo, una casistica ampia e variegata, una tradizione, una memoria di cui tener conto ), trovando in ben altro tra ciò che lo circonda l’antipoetico, il davvero morto che fa paura, l’irresuscitabile. Un neodadaista, ad esempio, vedrà nel computer non il diavolo ma un enorme, straordinario vaso della fortuna, e il vampiro che intelligentemente succhia sangue caso mai sarà lui.
PO: Quali mutamenti sono in corso all’interno del paesaggio mentale di chi scrive poesia oggi?
MM: Cfr. le risposte precedenti, specie la seconda. Con l’aggiunta che il poeta odierno, volendo biograficamente compartecipare ad altri la propria disappartenenza di disagiato-incantato, finisce con il diventare una razzaccia non solo per se stesso. Motivo di più per cercare direttamente la fiamma che si diceva, accesa nel momento stesso in cui la si rinviene, evitando il più possibile rapporti con vestali e riti associativi connessi. Come dice il poeta: “Lunga è l’arte sublime, il viver breve”. Comunque si decida di rispondere a questa antitesi generatrice di insoddisfazione e in fin dei conti di esistenza, non c’è tempo da perdere.
Attilio Lolini
PioggiaObliqua: Il dstino della poesia:in un mondo quasi del tutto secolarizzato quale diverso sentire impone la creazione di un testo poetico?
Attilio Lolini: La poesia sta scomparendo? Macché! La poesia dilaga, straripa, tracima gli argini, alluviona le cassette postali: un tornado di plaquettes, di sillogi, di poemetti: è il festival dell’endecasillabo, la sagra della quartina e del sonetto. A Castelporziano, quando fu recitata e assessorizzata, partorì una coppia (il poetesso e la peteressa) che, negli ultimi vent’anni, avrebbe trionfato nelle pubbliche piazze e nei teatri. Specie la peteressa trovò subito una critica entusiasta capitanata dall’imbracatore genovese dei due mondi Sanguinaccio Capaneo e del di lui concubino Angelo Panebianco Guglielmi. Si intuiva all’istante che la peteressa si sarebbe imposta sul poetesso come dimostrano, tra l’altro, i recenti versi della signora Donatella Dini pubblicati dal “Corriere della Sera”. La vita del poetesso, a dir la verità, appare più stentata e appartata ma niente paura: a Milano, Firenze e perfino a Gallipoli e Cernusco sul Naviglio pullulano le scuole di poesia dove anziani e astuti autori di archiviate antologie insegnano ai poetessi come si scrivono i versi. Ci si iscrive (dietro pagamento di quota più IVA) al corso di poesia istruito dall’ Orrendo o dal Postiggia e lì, in poco più di un mese, uno esce poeta diplomato. Che fa? Per prima cosa intende pubblicare la plaquette; dunque si rivolge, seduta stante, a Giorgio Bàrberi Squarotti per acconcia prefazione. Questo martire del verso sciolto, una specie di Don Gelmini della petesseria riunita, non dice mai di no anzi invia immediatamente la prefazione (o postfazione) che ha lì, bella e pronta, nella scrivania. La consapevolezza di quest’uomo non è paragonabile a quella di nessun saggio dell’antichità. Egli sa che il poetesso, se adulato o stroncato, può dare il via a noie infinite; dunque si scriverà che è “promettente”, che i suoi versi fanno presagire un sicuro talento, che il libro presentato merita attenzione e così via. Il numero delle prefazioni scritte da Bàrberi Squarotti è astronomico. Nessun computer è capace di contenerle; la sua pazienza fa ritenere Giobbe un esagitato.
PO: La poesia sta scomparendo. Ha ancora un’urgenza, una necessità il lavoro di chi scrive versi oppure è in atto un superamento di questa espressione sul piano della coscienza? Esiste la possibilità di ricreare un suo “territorio” e una sua “funzione”?
AL: Il destino della poesia è, appunto, Giobbe Covatta. La poesia si fa e si dice al Maurizio Costanzo show dove transita la finta peteressa pazza Alda merini, in Bacchelli. O il Tinto Riondino alias Alberto Bevilacqua, poetesso di vite. La poesia èArnaldo Bagnasco quando aeda e allora Alessandro Baricco il Glande nel secondo canale. Sulla poesia passata e futura sorveglia Sua Baronità Alberto Asinor Rosa detto anche l’Aiazzone delle cattedre. Asinor è l’inventore della cattedra tre per due insieme ad Antologio Ferroni, uno che dà del tu a D’Annunzio.
PO: Memoria soggettiva, memoria del computer: nell’ambito di queste due lingue morte (poesia e intelligenza artificiale) è possibile una interazione o l’una “vampirizzerà” l’altra?
AL: Come ognuno ben sa la peteressa tende al vampirismo come la Maria Pia Fanfani alla giberna plussurizzata. La Poesia al computer fu inventata dal Sanguinaccio Capaneo quando faceva l’avanguardista ai Festival dell’Unità desnudo dalla cintola in giù. È merito storico che gli va francamente riconosciuto. Seguaci del Capaneo sono quelli del Gruppo ’93 che hanno una rivista, anzi un’arrivista, Baldus, dove, direttamente dal File si calavano nel verso. Sono istigati alla creazione da sospetti vegliardi come Alfredo Rifondato Giuliani, dal critico dell’ “Espresso” Renato Bottilli e dal di lui concubino Alberto Barbasino. Hanno nomi altisonanti come Marcello Fixione (nucleare) Porro Cepollaro e Lello Voce (e notte). Il computer, dopo la poesia automatica, ha varato, con questi autori, la plaquette-internet (direttamente a San Salvi).
PO: Quali mutamenti sono in corso all’interno del paesaggio mentale di chi scrive poesia oggi?
AL: Nel paesaggio mentale di chi scrive versi non avvengono, da più di settant’anni, mutamenti di rilievo. L’aspirazione è di diventare, con la plaquette, vate o vice-vate o, più concretamente, di rompere le balle a editori e lettori. O comunque di iscriversi al Premio Nobel. Legioni di poetessi se la prendono con i così detti editori maggiori che, anche se volessero pubblicarli, non potrebbero perché impegnati ad editare i loro impiegati e concubine. In questo campo, come nella politica, s’impone il maggioritario anche se necessita, come sostiene la peteressa Carolina Mezzi in Tatarella, la quota prepuzionale.
Gabriel Cacho Millet
A CHI TEME PER IL DESTINO DELLA POESIA
“Era ancora di notte, grande signore, quando abbiamo cominciato a dare un nome alle cose”, rispose l’indio nahua al conquistatore spagnolo che gli chiedeva perché l’uccello Quetzal si chiama Quetzal.
Nessuno rammenta, in quale punto della terra, in quale periodo, un giorno venne aggiunto “un suono vocale (parola) al martellamento delle prime musiche tribali” (Montale) e ci fu il canto e il cantare un mestiere. Un mestiere di cui sappiamo soltanto che è molto antico, e che malgrado ciò, non dat panem.
Davanti al fuoco, lo stregone-poeta narrava l’origine del mondo, del Signore dell’alto e del Signore del basso. “La tribù, per un’ora o due, diventava una comunità poetica che includeva vivi e morti”, osserva Octavio Paz, parlando del solo esempio che si conosca di una intera società dell’America equatoriale ‘visitata’ dalla poesia.
Ma i lettori di poesia costituiscono da sempre una minoranza, o come diceva Juan Ramòn Jiménez: “un’immensa minoranza”. Per invertire questa tendenza millenaria, la poesia deve cambiare pelle, dicono gli editori e qualche poeta che ha imparato “l’arte del facil vivere”.
Scenderà urlante in piazza. Sarà venduta a poco prezzo. (Questa mattina il mio giornalaio mi ha offerto ”un Ungaretti” a lire 4.000 anzi 3.900). Farà ridere. Diventerà con la televisione un fenomeno di massa. Durerà un giorno, o forse neppure uno, forse il tempo di ascoltarla. Andrà a ruba. “Usa e getta, fratello”.
Navigherà sull’Internet e il computer ci dirà esattamente quanti ‘pioppi’ ci sono nell’Antonio Machado di Campos de Castilla, quanti denti nel sorriso di Beatrice, con chi andava a letto Shakespeare nel momento di comporre i Sonetti, la qualità delle lenzuola e il sesso del partner.
Per carità di Dio, non stiamo sparando sul computer: è soltanto una macchina. Come il pianista americano di Wilde, fa quello che può. Quello che in fondo gli altri gli dicono di fare.
Certamente non può essere l’artefice di quell’arte, sintesi di tutte le altre, “che sorge quasi per miracolo”, dalla “punta del alma” (San Juan de la Cruz) e che alcuni, per non prendere ancora congedo dal mondo, fermano come un sogno sognato “davanti alla ragione”.
Per alcuni uomini discreti, consci di essere nati sotto una stella troppo fugace, la poesia è il solo talismano di cui dispongono per fare uno sberleffo alla morte. Tuttavia, loro non vanno in cerca della poesia. Sanno che se la cercano non la troveranno mai, perché la poesia non va cercata ma attesa.
La poesia che non può essere prodotta in serie, perché è un mistero, si fa strada da sé. Non ha bisogno di nessuno per ricrearsi un ‘territorio’ o per ‘rehabilitarsi’. Soffia dove vuole e come vuole. Appartiene a chi ascolta la sua voce. E, ascoltare, non è da tutti.
Questa poesia delle minoranze non sta scomparendo. È altrove. Nel suo luogo naturale: l’esilio o la clandestinità. È nascosta dalla vergogna, in qualche catacomba appena scavata. È inutile stanarla: non entrerà mai in rete. I versi, come le lacrime, non si possono comprare nei supermercati. Ma il mio giornalaio, che vende poesia “per tutti”, non lo sa.
Pioggia Obliqua vari numeri 1996