Gli studi danteschi di Leo Spitzer:
l’applicazione del metodo e il confronto con le tesi di Auerbach
La ricchezza delle matrici culturali nella formazione di Leo Spitzer può essere chiamata a rappresentare la sua attività anche in chiave dinamica, nel senso di uno sviluppo storico. Certe oscillazioni osservabili nell’andamento della sua pratica critica possono essere spiegate con il cambiamento di quella componente delle sue radici che di volta in volta è posta al centro del suo edificio teorico. Lo stesso Spitzer arriva ad intendere in questo senso la propria opera quando, riflettendo retrospettivamente sul proprio metodo, si troverà indotto a tracciare un percorso autobiografico in cui stagioni diverse corrispondono al confronto con istanze teoriche ed obiettivi sempre in evoluzione.
La possibilità di considerare questa variante diacronica è un interessante spettro attraverso cui osservare i contributi di Spitzer sull’opera dantesca, dal momento che Dante torna ad attirare la sua attenzione in epoche diverse della sua carriera.
Le Osservazioni sulla Vita Nuova risalgono agli anni di Istanbul, gli interventi su alcuni luoghi dell’Inferno (il canto XIII, il XIX e il gruppo XXI-XXIII) escono in rivista tra il ’42 e il ’44, durante il soggiorno statunitense; gli articoli sul De vulgari eloquentia e sugli appelli al lettore nella Commedia compaiono dopo altri dieci anni sulla rivista americana “Italica”. Ma oltre che per la distanza cronologica i lavori di Spitzer su Dante sono tra loro lontani soprattutto per delle differenze di ordine teorico.
Spitzer diffida sempre della misura e della forma del volume (monografico o storico) come mezzo per esporre i propri studi e ogni suo saggio nasce e resta volutamente autonomo e singolare; ma la situazione degli scritti su Dante quanto a frammentarietà rappresenta un caso a sé. Poche questioni puntuali emergono dall’incrocio tra lo studio di alcune pagine dell’opera e la lettura delle parole di altri suoi interpreti: di volta in volta Spitzer approfondisce questi spunti senza spingersi mai oltre il perimetro del momento del testo che li ha generati. Il risultato è un gruppo di interventi sostanzioso per mole, ma più di altri segnato da una fondamentale eterogeneità, per cui ogni saggio risulta apparentemente isolato, assoluto, incidentale rispetto agli altri.
Tuttavia, in riferimento all’opera complessiva di Spitzer e al suo metodo, questa stessa impressione di estemporaneità non resta sterile, è degna di nota e stimola una riflessione e negativo: ogni scritto risulta irrelato rispetto ai compagni, più che per la propria natura esteriore di articolo d’occasione, perché alle sue spalle non sembra visibile un’unica ratio profonda, solida e costante che sostenga la critica dantesca di Spitzer, o almeno se esiste non sembra agire con la stessa immediata chiarezza con cui si palesa negli altri suoi studi.
I caratteri dell’artista e della sua visione del mondo sono per Spitzer il primum di un’opera, informano la sua lettura e il suo giudizio critico, ed egli li vede agire fin nelle maglie più minute del testo; appellandosi a questa natura della pagina letteraria le sue osservazioni si annodano allo scritto poetico con una quantità tale di legami da arrivare ad assumere, nelle sue prove migliori, una validità quasi inattaccabile, quasi uno statuto di necessità.
Che questa funzione circolare legante l’opera all’interprete sia messa in moto dalla lettura del testo, come conseguenza di essa, o piuttosto da un giudizio sintetico a priori, premesso dal critico (e tutto il sistema risulti quindi condizionato da una petizione di principio) poco importa quando viene effettivamente prodotto un lavoro. Di solito Spitzer riesce a dimostrare come l’opera in tutti i suoi livelli fornisca elementi che suonano in accordo tra loro e in accordo con l’indirizzo di lettura che si va generando; quest’ultimo, per quanto possa apparire talvolta discutibile, apodittico o parziale, si disegna alla fine come un’ipotesi positiva, argomentata e motivata dalla parola poetica. Questo non accade in maniera così pacifica negli studi su Dante. Se già tempi diversi dell’attività critica significano in generale differenze di impostazione, a proposito dei testi danteschi va notato che Spitzer non sembra considerare le osservazioni cui via via perviene misurandole con un unico e forte giudizio personale sull’autore che in esse trovi ragione e che contemporaneamente le determini. Il nuovo intervento non discute con i precedenti, né intende continuarli; e i tentativi di ricostruire legami a posteriori rischiano di violare la libertà che in ogni caso l’eclettismo dello studioso si riserva.
Gli studi danteschi di Spitzer sono ovviamente uniti in nome della sensibilità, delle conoscenze e dell’attenzione dell’autore, ma apparentemente non sembrano governati da un saldo giudizio critico comune.
Questo aspetto si manifesta in modo radicale già all’interno del primo testo in ordine cronologico, le Osservazioni sulla Vita Nuova, del 1937; qui l’istanza analitica che sempre è alla base del metodo spitzeriano si dispiega in una pura registrazione di fenomeni di varia natura (linguistici, tematici e strutturali) presentati singolarmente e discussi in brevi paragrafi. Spitzer propone una serie di note di lettura sorte dal confronto con altre interpretazioni di quegli stessi luoghi del testo dantesco. Le riflessioni sono solamente giustapposte e non rielaborate per formare un discorso organico; l’aspetto esteriore somiglia più a quello di una raccolta preparatoria di materiale che non a uno studio compiuto. Il momento sintetico, che è l’altra metà del procedimento critico e corre parallelo all’analisi innescando il meccanismo del circolo, qui è percepibile con minore evidenza già in questa sistemazione del testo; ma soprattutto, oltre che scarsamente visibile, sembra effettivamente debole anche in senso ontologico.
Spitzer osserva come Dante gestisca nel testo le occorrenze della parola “beatrice” volendola inizialmente solo come appellativo, variante pressoché intercambiabile col fiorire degli altri epiteti, e solo molto tardi, dopo una lenta progressione, lo trasformi e lo riveli come nome proprio della donna, in consonanza con una più generale organizzazione macroscopica della materia[1]. Accanto a simili riflessioni sull’uso della lingua e delle sue consuetudini (ma questo è l’unico caso in cui si arriva a una risonanza di ordine strutturale[2]) Spitzer chiede di notare, ad esempio, come certe argomentazioni siano disposte secondo il rigore puntuale del modo di pensare scolastico; come in accordo con la pratica medievale Dante tranquillizzi il lettore sul genere poetico delle forme in cui via via si cimenta, e come sappia misurarsi con i motivi canonici dell’erotica tradizionale dando ogni volta prova di originalità e coerenza col proprio intento.
Si tratta sempre di riflessioni interessanti e originali, ma che restano notazioni puntiformi e non coltivate. L’energia che le ha mosse si è immediatamente raffreddata e non si lascia spendere per concentrare un contributo positivo alla critica del testo. Sulla Vita Nuova Spitzer non sembra riuscire ad attuare la funzione dello Zirkelschluss, o almeno non ne evidenzia i termini in maniera lineare ed efficace, quindi il suo esame non riceve effettiva consistenza, né garanzia di veridicità.
Il giudizio di Spitzer sul Dante della Vita Nuova non si “squaderna” in questi frammenti, ma va eventualmente dedotto, con fatica, da essi. Proseguendo lungo questa strada si arriva a sintetizzare un’idea sul poeta che è la somma di elementi assorbiti da altre illustri interpretazioni con cui coscientemente Spitzer può aver scelto di confrontarsi. Domina senza dubbio la convinzione che il libello sia informato da uno spirito intellettuale, da un controllo razionale che modula gli argomenti e le forme dell’esposizione, e che dà al testo i caratteri di un’elaborazione artificiosa, sorvegliata, di una “costruzione”. In questo Spitzer accoglie la sostanza della lettura della Vita Nuova di Benedetto Croce, senza arrivare a pronunciarsi sul giudizio di valore che Croce ne fa derivare. Contro il filosofo napoletano segue Karl Vossler nella difesa dell’idea che dietro la Vita Nuova sia ben visibile l’autore della Commedia. Della più recente lettura di Auerbach accoglie il giudizio sull’eccezionale innovatività del dettato del poeta, per quanto a quest’altezza si muova soltanto entro i termini del codice dello Stilnovo. Questa pluralità di suggestioni non sembra venir profondamente riorganizzata da Spitzer – anzi, talvolta i termini sono messi in comunicazione non senza delle forzature[3] – e il risultato è che l’insieme non viene investito a vantaggio di un’interpretazione originale e compiuta. Le sue riflessioni di volta in volta rispondono a una di queste direzioni di lettura, e in virtù di quella si fermano alla funzione descrittiva, cercando di illuminare il singolo passaggio del testo, ma dando l’idea che luci tanto diverse non permettano comunque di osservare l’opera nel suo insieme.
Gli spunti individuati, approfonditi e risolti da Spitzer quasi non chiedono seguito, non cercano respiro più ampio del luogo del testo per cui sorgono; egli non li coltiva per raggiungere la dimensione di un’organica proposta di giudizio, come se non riuscisse a dominarli, non ne fosse pienamente padrone, e quindi non sapesse innescarvi il metodo dello Zirkelschluss, in cui motore primo è la personale sensibilità del critico. Quel centro che possa tenere insieme gli elementi della periferia del circolo deve eventualmente essere costruito in seconda battuta dal lettore.
L’unica immagine forte che emerge dallo scritto è quella di un giovane Dante abilissimo artigiano che riesce a calibrare materia e lingua con una perizia impressionante per il suo tempo. Questo è anche il punto di partenza della teoria che Auerbach aveva già sostenuto attorno alla Vita Nuova nel suo studio del ’29, concentrandosi soprattutto nell’individuare l’eccezionalità delle scelte dell’espressione dantesca in relazione ai suoi più grandi contemporanei. In Spitzer le osservazioni migliori, le più funzionali a questa stessa argomentazione, sono senz’altro quelle più strettamente linguistiche, in cui lo studioso è evidentemente a proprio agio, ma nel complesso restano comunque una minoranza assoluta (solo due paragrafi su ventidue: un breve studio sull’uso espressivo dell’imperativo, e l’analisi dell’avverbio di grado affermativo sì[4]); così anche questa connotazione dell’opera dantesca alla fine rimane generica e sommaria.
Questa resistenza che Spitzer incontra nel testo dantesco e che gli impedisce di organizzare un discorso critico compiuto sembra ascrivibile in buona parte anche a quella variante diacronica che si può riconoscere nella sua attività.
Le Osservazioni sulla Vita Nuova escono nel 1937 in una pubblicazione per l’Università di Istanbul; la composizione rientra per intero negli anni del soggiorno in Turchia. In questo delicato momento Spitzer matura il passaggio dalla politica del Motiv und Wort a quella del Wort und Werk: si acuisce l’insistenza sul momento analitico a svantaggio della concentrazione su categorie psicologiche che facciano comparire e spieghino i caratteri della personalità dell’autore emergenti dalle pieghe del testo. La forma letteraria non è più indagata come espressione naturale della fantasia poetica, ma soprattutto come prodotto mediato, in cui all’ispirazione si affianca come istanza altrettanto centrale la volontà dell’artista di rispondere a un’istanza metapoetica:
[…] mi ero accorto che il procedimento critico freudiano non poteva essere applicato a periodi letterari passati, quando al singolo scrittore non era ancora concesso di abbandonarsi alle proprie idiosincrasie e fobie; allora non esisteva il culto per il genio “originale”, come lo si è avuto dal secolo XVIII in poi, e le opere avevano per lo più carattere impersonale e obiettivo. […] mi ero sempre più reso conto del fatto che il metodo di descrivere un autore secondo l’Erlebnis deve essere limitato a periodi e generi letterari nei quali l’Erlebnis è veramente lo scopo dell’autore. Questa scoperta ebbe per me due conseguenze: da una parte fui maggiormente attratto verso la poesia pre-Erlebnis e cioè la poesia del Medio Evo, del Rinascimento, dell’età barocca e di un poeta moderno come Claudel che parla per l’umanità non per il proprio ego. Dall’altra parte, con l’analisi della struttura, mi occupai di più dell’elemento Gestalt nel prodotto poetico, sia antico o recente, come avevo fatto anche prima a cominciare dallo studio della Consolation di Malherbe cui seguirono saggi sulla Ballade des dames du temps jadis di Villon, su Gòngora ed altri. […] Che io, negli anni dopo il ’30, mi sia distaccato dalla psicanalisi e volto allo studio della struttura è probabilmente dovuto non a uno studio della Gestaltpsychologie, ma a una crescente sfiducia nella torbida Erlebnis e a una predilezione per un chiaro contorno di forma, a uno sforzo verso salute e razionalità, naturali in un uomo non più giovane.
Il critico che si volge da un che creativo misterioso intuito da lui nel poeta all’hic et nunc dell’opera oggettiva, diventa egli stesso più razionale. E il “raziocinio freddo del critico”, che per mia gioia Pasolini rileva in me, corrisponde sicuramente a una simile disposizione nell’artista della parola, il poeta, il quale è anche un artefice, che ci fa piangere coi suoi versi, ma non ha dimenticato di contare le sillabe.[5]
Il passaggio teorico che a quest’altezza si presenta come un avanzamento, una conquista teorica positiva, in realtà sarà solo uno degli spostamenti parziali nel percorso dell’autore, e sarà presto rimesso in discussione quando il confronto col mondo culturale americano, sviluppatosi entro i termini del pragmatismo, imporrà a Spitzer, per reazione, di tornare a far leva sulla componente idealistica della propria formazione.
Il cambio di orientamento degli anni Trenta ovviamente non è repentino né pacifico e testi come quello sulla Vita Nuova possono essere chiamati a testimoniare la fatica di questo rivolgimento intellettuale. L’indagine sull’opera d’arte come costruzione riporta Spitzer a lavorare con gli stessi strumenti ereditati dalla formazione positivistica da cui fino ad ora aveva scelto di tenersi lontano: nel testo giovanile di Dante, ad esempio, la maggior parte delle Osservazioni cercano il rapporto con le fonti, ripiegano nello studio della “preistoria” dell’opera, scelgono quindi di non guardare in faccia l’oggetto della ricerca privilegiando lo studio del contesto. Come ai tempi dell’apprendistato con Meyer-Lübke e Becker, Spitzer intende analizzare il testo con attenzione, e tuttavia quasi come se fosse un’indiscrezione domandare cosa renda tale l’opera d’arte, cosa essa esprima, perché quelle espressioni siano apparse in quel luogo e in quel determinato momento (come egli stesso afferma nel ’48 ricordando gli anni universitari[6]). Riferendosi agli studi dei suoi maestri sul Pèlerinage de Charlemagne e sulla École des femmes di Molière Spitzer conclude: “in quell’atteggiamento positivistico le vicende esterne erano prese tanto sul serio solo per schivare quanto più si potesse la vera domanda: perché cioè fossero mai avvenuti i fenomeni Pèlerinage e École des femmes”[7]; nell’analisi spitzeriana del libro giovanile di Dante sembra sia stato aggirato il confronto con la vera domanda, quella che su altre opere e in altri momenti Spitzer si pone senza alcuna riserva: perché sia avvenuto il fenomeno Vita Nuova.
L’insicurezza e la debolezza dell’impostazione critica delle Osservazioni sulla Vita Nuova si devono al momento della composizione, al fatto che risalgono a una delicata epoca di transizione: Spitzer sente la necessità trovare un fuoco nuovo per la propria indagine e lo trova nel principio del Wort und Werk, tuttavia non riesce a sposarlo pacificamente: non riesce a sacrificare senza fatica il ricorso alla personalità poetica dell’artista, alla ricerca di essa attraverso il testo e alla definizione per mezzo di essa di una chiave di lettura che renda ragione della realtà dell’opera. Almeno in un passaggio delle Osservazioni Spitzer lascia intravedere l’esitazione e la fatica con cui si compie questa evoluzione, nel §15, a pp.130-131:
In questo esempio si può studiare la trasformazione di un tema popolare da parte della scuola dei fedeli d’amore e inoltre percepire il tono individuale della voce delle di Dante: “O malnati, io vidi la speranza de’ beati”, la voce dell’orgoglio nella sventura, della certezza profetica della fede, del predicatore ammonitore: insomma la voce potente che, come Dio un giorno, diventa creatrice per mezzo della parola.
Nella frase che chiude il paragrafo compare un giudizio su Dante e sulla sua poesia che non sembra del tutto coerente con il contesto, e che invece ha esattamente il tono di quei giudizi che di solito informano la lettura spitzeriana dell’opera d’arte, che innescano la funzione dello Zirkelschluss e così diventano forti e danno vita a una proposta critica organica e compiuta.
Il ritratto di Dante maestro di dignità, “voce dell’orgoglio” e “della certezza profetica della fede” è già quello crociano del ’22; il giudizio sulla sua “parola creatrice” sembra invece in aperto dialogo con le letture di Auerbach, che più avanti condurranno, in Mimesis, alla definizione del miracolo della lingua dantesca, che con la sua forza pare riscoprire la realtà il mondo. Prestando attenzione ai tempi non si può azzardare che il giudizio di Spitzer anticipi quello del collega, ma sembra plausibile pensare almeno a uno scambio di opinioni, a una riflessione che deriva dalla condivisione di osservazioni e intuizioni, e che poi Auerbach approfondirà in quella direzione così immensamente prolifica per i suoi studi. Una sintesi di questo orientamento comune e condiviso può essere intravista anche in questo passaggio dello scritto di Spitzer, per di più in una formulazione che di certo colpisce per potenza e incisività.
Questa idea nelle Osservazioni sulla Vita Nuova viene subito abbandonata e resta apodittica e improduttiva, per questo può essere considerata un segnale della difficoltà con cui si attua il rivolgimento teorico e di metodo nell’opera dello Spitzer degli anni Trenta. Il critico non sa rinunciare senza sacrificio alla componente idealistica del proprio pensiero, al giudizio sul poeta che si genera inizialmente per sola intuizione dalla lettura dell’opera, ma preferisce comunque impostare la riflessione su notazioni direttamente analitiche, quindi più rigorose e scientifiche; le singole osservazioni fanno “la parte del leone” ma in questo particolare caso non hanno modo di strutturarsi in un sistema organico, non lasciano al giudizio critico spazio per respirare, e di fatto lo soffocano.
Lo studio spitzeriano sulla Vita Nuova può essere considerato un testimone della difficoltà con cui matura quel passaggio intellettuale che in questa fase di transizione oppone resistenza alla critica, ma che prestissimo porterà a risultati ben più coerenti, riusciti e significativi, ma in effetti ormai di spirito definitivamente diverso rispetto a quello raggiunto prima della parentesi di turca.[8]
Quella proposta di giudizio sulla poesia di Dante che si intravede in uno degli strappi del tessuto delle Osservazioni non è solo un residuo della vecchia consuetudine critica che inavvertitamente riemerge, merita anzi molto più credito di quanto l’autore sembri volerle concedere con il breve spazio che le riserva.
Negli anni americani la critica letteraria di Spitzer torna ad assestarsi lungo la linea tracciata prima del mutamento teorico degli anni Trenta, recupera cioè canoni metodologici vossleriani e crociani. Spitzer intenderà questo rivolgimento come la risposta a istanze contingenti, in coerenza con la più generale posizione epistemologica rappresentata dalla sua opera contro la struttura antimentalista della filosofia americana. L’accentuazione della componente idealistica corrisponde a un intento che Spitzer chiamerà “pedagogico”, che cioè è funzionale alle caratteristiche del destinatario, il pubblico intellettuale degli Stati Uniti, e sorge come reazione critica nei suoi confronti.
In questo clima Spitzer torna a studiare Dante, in particolare l’Inferno. Nel 1942 esce una lettura del canto XIII; l’anno successivo in una pubblicazione della Columbia University escono le Two Dante Notes, di cui solo la prima – Un episodio autobiografico nel canto XIX dell’Inferno – entra nella raccolta di saggi italiani pubblicata in Italia ’76. Il breve scritto Gli elementi farseschi nei canti XXI-XXIII dell’Inferno risale al 1944 e sarà l’unico compreso in seguito nella raccolta d’autore Romanische Literaturstudien (1936-1959).
Di nuovo l’analisi si concentra su questioni puntuali e non affronta, apparentemente, il testo nella sua totalità; l’attenzione è richiamata ancora da fenomeni di natura eterogenea, ma al di sotto di riflessioni tanto diverse sembra manifestarsi ora un fondo comune che illumina e giustifica le letture di Spitzer rendendole tra loro coerenti e permettendo di parlarne quasi come di un corpus organico.
Quel che non era potuto accadere negli anni del saggio sulla Vita Nuova adesso è permesso dal nuovo rivolgimento teorico, e forse si compie in virtù di un atteggiamento nei confronti dell’opera dantesca che discende proprio da quel giudizio fiorito solo come dettaglio accessorio nel testo del ’37.
Rileggendo il canto XIII dell’Inferno Spitzer analizza il language, la veste linguistica, lo stile di questo luogo della Commedia, e si sofferma sulla rappresentazione dello speech, la produzione di parola, l’atto prodigioso con cui sono emesse dalle piante le parole rivolte ai pellegrini, un fenomeno che Dante osserva con attenzione e riporta in maniera fortemente suggestiva. I due termini richiedono un’analisi separata, ma risultano perfettamente avvicinabili se osservati alla luce di quel giudizio sull’arte dantesca intuito in forma vaga anni prima; anzi, più propriamente, in virtù di quello sembrano riuscire ad acquistare forza reciproca.
La parola di Dante ha il potere di creare un mondo nuovo, eccezionale e meraviglioso; e tuttavia inconfutabile. Il prodigio delle parole pronunciate dall’anima di Pier delle Vigne dalla sua prigione arborea è un fatto irreale, un’invenzione fantastica, ma i versi di Dante riescono a rappresentarlo in maniera plastica per i sensi (col picco massimo della similitudine del tizzo verde che brucia), e addirittura conferendo all’immagine statuto di verità, quasi fosse il resoconto di un fatto assolutamente fisico. Attraverso le movenze e i modi espressivi del suo dettato Dante fa precipitare lo straordinario nei termini dell’ordinario, costringe i fatti immaginari all’evidenza e quasi conduce un’operazione subliminale che dà consistenza reale a quello che narra; attraverso le sfumature semantiche e i costrutti che sceglie ottiene credibilità, rende i fatti accettabili senza alcuna riserva, mimetizza la finzione con i termini della verità, creando per i nostri sensi sostanze nuove.
Tutto il paradosso della Divina Commedia si fonda sul procedimento di descrivere come reale, e di concepire come descrivibile con la stessa precisione che si potrebbe applicare ad un oggetto del mondo esterno, ciò che, alla nostra odierna immaginazione secolarizzata, parrebbe il prodotto di un gioco gratuito di fantasia.[9]
La forza realistica con cui è descritto l’atto dello speech c’è già nella rappresentazione del corpo arboreo di Pier delle Vigne come di tutto l’ambiente della selva dei suicidi; ma rendendo sensibili le immagini, e rendendo naturale il modo con cui queste vengono percepite, Dante non sopprime la loro straordinarietà, anzi deliberatamente carica tutta la rappresentazione del senso di stupore, confusione e paura che suscita uno spettacolo innaturale e mostruoso[10]. L’evocazione di quest’atmosfera è funzionale all’intento teorico: orribile, innaturale e perverso è il peccato dei suicidi, e la scena che si presenta al viandante ha quei medesimi caratteri perché realizza la punizione sovrumana e perfetta (perfettamente adeguata) che Dio ha riservato a questi dannati. Tutto concorre per dar potenza al quadro anche in questo senso – Dante non riesce a parlare, le percezioni della vista e dell’udito lo stordiscono con la loro incongruenza – e Spitzer rileva soprattutto come in questo canto la lingua di Dante si sviluppi lungo una rete di artifici e figure della parola: i periodi diventano involuti, battuti da ripetizioni, appesantiti da nodi retorici; le costruzioni sintattiche soffocano il respiro delle frasi e simulano così il ritmo di un percorso disarmonico e deviato, com’è stato il pensiero di chi è arrivato alla colpa della violenza contro se stesso.
In questo canto a Dante interessa soprattutto evocare l’idea di una disarmonia morale.[11]
[…] una volta che la sua immaginazione si era impadronita degli artifici che caratterizzavano quello stile [lo stile ricco di anfratti retorici degli scritti di Pier delle Vigne], questi potevano adattarsi ad un disegno più vasto, a rappresentare la loro parte nell’evocazione di quell’atmosfera di disarmonia che pervade tutto quanto il canto.[12]
Col particolare linguaggio che sceglie, Dante fa sì che quel mondo nuovo e concreto che sta creando sia immediatamente dotato anche di una propria atmosfera che frapponendosi tra lettore e contenuto possa mediare il loro contatto e metterli in comunicazione in un senso più profondo, ma nell’unica direzione voluta dal poeta e prevista dal suo disegno. Per Spitzer Dante non solo realizza l’immagine, ma la rende personale, crea anche l’esperienza che di essa deve avere il lettore. In tutti i suoi livelli l’opera punta a questo unico principio e tutti gli elementi suonano insieme armoniosamente, come emanazioni di quel centro che è la natura particolare dell’arte poetica dantesca: dare a quel che descrive coi propri versi il carattere di una realtà piena, accertabile ed “esperibile”, creare un mondo pronto per i sensi e ricco per l’intelletto del suo lettore.
Con la forza e la disinvoltura con cui è condotta, l’analisi del canto XIII dell’Inferno diventa per gli osservatori di Spitzer il paradigma del metodo dello Zirkelschluss.[13]
Lo stesso concetto di Dante poeta e divino creatore governa anche il testo del ’43 Un episodio autobiografico nel canto XIX dell’Inferno. Qui Spitzer si sofferma su un passaggio discusso della Commedia dove descrivendo le fosse in cui sono puniti i simoniaci il poeta scrive:
Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per luogo de’ battezzatori;
l’un delli quali, ancor non è molt’anni,
rupp’io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’uomo sganni.
[Inf.,XIX, vv.16-21]
Centrando l’analisi linguistica sul significato delle parole suggel e sganni, Spitzer interpreta il verso 21 non in riferimento all’episodio autobiografico che immediatamente lo precede, ma come apertura a quanto viene dopo, la descrizione della punizione dei simoniaci:
Così, preludendo alla rappresentazione dei papi dannati, intrappolati a testa in giù in una buca, Dante ci dice: “la descrizione che io vado sviluppando (“questo”) sia per voi un’immagine di punizione esemplare (“suggel”) che apra gli occhi di ognuno sul destino finale dei peccatori (“ogn’uomo sganni”)”[14]
Con questa lettura Spitzer riesce a nobilitare questo luogo del testo che di solito suscita l’imbarazzo dei commentatori, finora indotti a vedere il sommo poeta approfittare della sede per chiarire un equivoco riguardante un suo accidente personale. Ammettendo la spiegazione di Spitzer, il congiuntivo del verso 21 assume il senso di un imperativo futuro e il tono di Dante davvero si colora della solennità della voce di un profeta.
Sciogliendo il verso dal discorso precedente, tutto l’episodio autobiografico assume un valore diverso: non è inserito nel testo perché l’autore vuole arrivare alla chiusa polemica che lo interessa, ma è chiamato in causa solo per rinforzare la connotazione realistica della descrizione, per avvicinarla al lettore:
E’ fuori discussione che in questo passo Dante si riferisca ad un evento della propria vita, ma è dovere del commentatore soppesare con cura il senso e la misura dell’elemento personale nell’opera di Dante; secondo me lo scopo di questa inserzione di un dato biografico è puramente artistico: convincere il lettore della realtà, aprirgli gli occhi sopra il significato della scena infernale rappresentata in questo canto.
Innanzi tutto Dante desidera che noi ci rappresentiamo con chiarezza, nei minimi dettagli, l’ambiente descritto e la natura della pena inflitta ai papi dannati. Ciò spiega il suo richiamo, a partire dal verso 16, ai recipienti del battistero di San Giovanni […] allusione che non poteva non avere un grande valore evocativo per i lettori fiorentini. Questa elaborata similitudine […] conduce a sua volta con immediata evidenza all’affermazione “L’un de li quali, ancor non è molt’anni, / rupp’io per un che dentro v’annegava” (vv.19-20): affermazione che situa la scena nel tempo e nello spazio (“non è molt’anni”) e, introducendo un riferimento in prima persona (“ruppi”), ottiene l’effetto di sottolineare ulteriormente l’intenzione del poeta: quella di arricchire un fatto dell’oltremondo con la realtà di un evento effettivamente accaduto su questa terra a Dante-narratore. […] l’episodio biografico è parte integrante di un passo descrittivo che i commentatori hanno erroneamente scisso dal contesto, concentrandovi l’attenzione come su un particolare succoso. […] Prendendo quel “ruppi” nel suo valore di allegato documentario si opera una vera e propria degradazione di questo passo, la cui funzione è invece squisitamente artistica.[15]
Nella propria poesia Dante mira a rendere presente una realtà che può far vivere solo a parole; per concretizzarla ha continuo bisogno di referenti quotidiani, sia quando ha per oggetto gli elementi del mondo sovrumano, sia quando sceglie di rappresentare l’uomo e la complessità dell’animo. Tutto è misurato secondo questo proposito: nelle variazioni di stile e nella ricchezza di contenuti e riferimenti esterni che la parola di Dante contempla Spitzer vede le manifestazioni della volontà di attualizzare con pienezza immagini e concetti.
Questa stessa declinazione dell’idea di Dante poeta-creatore spiega per Spitzer la ragione della rappresentazione farsesca con cui nella Commedia sono descritte le bolgie dei barattieri e degli ipocriti. Nell’articolo Gli elementi farseschi nei canti XXI-XXIII dell’Inferno Spitzer dimostra come volutamente Dante conduca un’operazione di abbassamento, espressivo e contenutistico, al genere farsesco, e la spiega con la natura meschina e animale del peccato della baratteria. La Commedia è la visione delle “vite spiritali ad una ad una”, la rappresentazione deve coprire tutti i casi possibili del mondo, anche le esperienze più grossolane dell’uomo; per rendere quello stato Dante decide di immergere completamente la sua arte entro i termini del buffonesco, di assumerne provvisoriamente i motivi portanti, e in questo persegue ancora l’intento non solo di dipingere l’immagine ma ricrearne un’esperienza intera.
Un’altra caratteristica dell’operazione di adattamento del genere farsesco deve essere individuata nella giustificazione teologica introdotta nel discorso. Molte volte lungo questo intermezzo Dante si è preoccupato di segnalare quanto vi fosse di preordinato e di provvidenziale nel carosello diabolico che viene inscenato: la parte comica che i diavoli devono sostenere è voluta da Dio […] nel dramma cristiano il diavolo, il potere del Male, viene sempre rappresentato come un carattere comico, proprio perché vinto in principio da Dio […] La farsa che Dante ha introdotto è voluta da Dio, limitata da Dio, giudicata da Dio. Essa occupa un posto rigorosamente delimitato nel poema sacro per compiere il quale ha posto “mano cielo e terra”. Dante poteva dar forma ai particolari più remoti della sua creazione protetto dalla benedizione di Dio.[16]
Per Spitzer quindi la natura particolare della poesia della Commedia non solo autorizza, ma in effetti esige questo intermezzo: l’intento del poema prevede sia la trattazione di questo argomento sia la particolare scelta stilistica; ciò è coerente con la volontà di rendere non solo una rappresentazione ma una reale esperienza dei fatti; “la materia è l’ordine divino del mondo, non come sistema dottrinale, ma come visione immediata di un uomo che comunica questa visione ad altri”, scriverà Auerbach[17].
Quel principio che aveva solo una posizione secondaria nelle Osservazioni sulla Vita Nuova sembra illuminare con una giusta luce lo spirito degli scritti su Dante degli anni quaranta; forse una prova del fatto che Spitzer insiste a riflettere, ma con attenzione nuova, su quella medesima intuizione si trova in un’altra formulazione, anch’essa quasi passeggera, del testo del 1943 sul XIX dell’Inferno:
L’essenza dell’immaginazione dantesca consiste nell’attribuire un significato morale a situazioni reali sperimentate nella vita reale, sicché il fatto fisico e il fatto morale partecipino della medesima evidenza. Nessun contemporaneo di Dante avrebbe avuto la forza di rendere tanto reale il corporeo e a tutti coloro che sono venuti dopo di lui avrebbe fatto difetto quella energia morale che rende il corporeo simbolo reale. Veramente la scelta di un simbolo corporeo è il suggel della forma mentis dantesca; ed egli era cosciente della propria capacità di simbolizzazione, se è vero, come è vero, che tanto insiste sull’“orribil arte” di giustizia.[18]
La poesia di Dante ha una “voce potente” profetica e miracolosa “che, come Dio un giorno, diventa creatrice per mezzo della parola”; questa efficacia ha origine dalla scelta della realtà come fonte di forza della propria rappresentazione, e dalla capacità di caricare il reale di intensità profonda.
E’ evidente che i termini sono ormai vicinissimi a quelli di Auerbach di “realismo dantesco” e di stile sublime della Commedia, gli stessi principi che a quest’altezza sono ormai in via di fissazione definitiva nel X capitolo di Mimesis. Un contatto tra i due studiosi con parole sorprendentemente simili risale al 1930, ed è testimoniato da Spitzer in una nota al suo saggio di quell’anno su Maria di Francia:
Auerbach, da me interpellato, non è propenso ad accogliere l’opinione di Pongs, che identifica nell’oggetto-simbolo innalzato a segno del destino l’elemento essenziale della novella […] né a vedere novelle nei lais di Maria di Francia; per questo mancherebbe loro la mimesis, cioè la capacità di vedere, assaporare, gustare fisicamente il sensibile come cosa presente, che esiste con noi; la raffigurazione del nostro mondo, insomma. Questa capacità è assente nel Medioevo predantesco, e laddove poté esprimersi (nel fabliau) manca di trascendenza.[19]
“Raffigurazione del nostro mondo” e “trascendenza” sono i termini che Spitzer attribuisce alla riflessione di Auerbach sull’arte di Dante; adesso, nel ’43, Spitzer ne parla come di fatto fisico e fatto morale che partecipano insieme “della medesima evidenza”. Contatti come questo del 1930 senza dubbio non permettono di ricostruire né la genesi dell’idea né il senso di una eventuale influenza tra i due studiosi, ma l’inferenza meno audace porta a supporre che l’intuizione originale di Auerbach abbia uno sviluppo autonomo anche negli studi di Spitzer: emerge in maniera molto debole nello scritto del ’37 dove né l’oggetto, la Vita Nuova, né il momento storico, la fiducia nella teoria dello Wort und Werk, possono dargli adeguato respiro, ma negli anni quaranta, in condizioni profondamente mutate, può essere coltivata e maturare.
Ancora più suggestiva di questa ipotesi è l’idea che i due percorsi ottengano dalla loro vita indipendente una reciproca animazione: anche nel senso opposto il contatto sarà stato significativo e nello sviluppo della critica dantesca di Auerbach può aver avuto peso anche la riflessione di Spitzer. Quando quest’ultimo nel ‘43 osserva come “quella energia morale che rende il corporeo simbolo reale” venga meno dopo Dante, forse contribuisce ad insinuare in Auerbach i dubbi che apriranno la direzione nuova della sua critica dantesca in Mimesis. La poesia di Dante tocca le realtà come mai prima era stato possibile, così celebra l’unità di tutte le cose dell’universo e la loro dignità nel nome di Dio; e d’altra parte è in virtù di questa unità che gli è permessa la raffigurazione tanto profonda del nostro mondo. Così la poesia della Commedia incarna e realizza lo spirito della Weltanschaung del Medioevo; e allo stesso modo contemporaneamente la distrugge mostrando come al cospetto della forza del reale, che solo ora si manifesta con tutta la propria solennità tragica, si indebolisca qualunque astrazione o sistema teorico, e il primum dottrinale che sosteneva tutto ora non abbia più ragion d’essere. La chiave di lettura, l’impostazione critica che con anni di studio Auerbach aveva edificato per penetrare il segreto della poesia di Dante, si è rivelata tanto esatta ed efficace da avere quasi vita propria e quindi svilupparsi in avanti naturalmente, fino a toccare il proprio limite estremo.
Questa considerazione non era emersa negli anni dei primi studi danteschi, si fa strada solo nel ’46 in Mimesis; qui lo studio di Dante in una prospettiva diacronica favorisce la riflessione su questo valore storico della sua arte; ma forse alle spalle di questo sviluppo c’è anche lo spunto che Spitzer aveva abbandonato in fondo al suo articolo del ’43, e che può aver contribuito a suggerire ad Auerbach la possibilità di questo particolare aspetto storico nell’osservazione della poesia dantesca.
Dopo lo scritto del ’44 passano altri dieci anni prima che Spitzer pubblichi altri interventi su Dante: nel 1955 in due numeri successivi della rivista “Italica” escono gli articoli La “tipologia ideale” nel De vulgari eloquentia di Dante[20]e Gli appelli al lettore nella Commedia. In quest’ultimo saggio il confronto con Auerbach si fa diretto e ricerca esplicitamente il dialogo. Spitzer scrive in risposta al testo Gli appelli di Dante al lettore, pubblicato da Auerbach in “Romance Philology” nel ’54. Dopo l’articolo di Spitzer Auerbach torna sull’argomento nel capitolo finale del suo ultimo volume Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, uscito postumo nel 1958.
Spitzer scrive in aperta polemica con le conclusioni cui Auerbach era pervenuto. Egli aveva osservato come la forma dell’appello al lettore fosse una novità introdotta nella poesia di stile elevato da Dante e come il confronto con l’espediente tradizionale ad essa più prossimo, l’apostrofe classica, di fatto metta in evidenza più di ogni argomentazione teorica l’originalità e l’essenza di questi luoghi della Commedia. Il testo esordisce con un rapido excursus storico sui possibili precedenti e si conclude con il confronto col caso più vicino per intensità al risultato di Dante, un passo di un’orazione di Demostene agli ateniesi. Il carattere tutto particolare degli appelli danteschi è dovuto essenzialmente alla materia del poema: la verità della rivelazione divina dell’ordine eterno di tutte le cose, che tratta non solo la vita oltremondana, ma anche e soprattutto la realtà terrena più contingente. Da qui l’urgenza con cui il poeta si rivolge al lettore, sacrificando la finzione, allentando le maglie della normale narrazione; per questo Auerbach parla di un atteggiamento profetico e di un tono autoritario che permea tutta l’opera e si cristallizza in un’espressione suprema proprio negli appelli.
Spitzer analizza molto più da vicino, caso per caso, la fenomenologia degli appelli nella Commedia, ma questa sua attenzione è in forte contrasto col modo piuttosto impreciso con cui legge il testo di Auerbach.
Se ora ripensiamo alla varietà degli appelli danteschi, alle loro combinazioni con altri espedienti retorici, alle loro molteplici sfumature, ci rendiamo conto che nella stragrande maggioranza di questi luoghi danteschi lo scopo a cui si tende è quello di attuare una visualizzazione in favore del lettore di ciò che Dante ha sentito o ha “veduto” nell’aldilà. Non troviamo in alcun caso Dante nell’attitudine di coinvolgere il lettore nei propri giudizi o nelle proprie profezie (soprattutto nelle profezie politiche che Auerbach amplifica tanto dal momento che la funzione di profeta gli appare determinante in Dante). Di conseguenza avremo una certa qual riluttanza ad accettare l’insistenza di Auerbach sulla connotazione autoritaria rilevabile in questi “nuovi appelli profetici” al lettore.[21]
Spitzer sembra non cogliere l’idea fondamentale del saggio di Auerbach: quando questo parla di connotazione autoritaria del dettato non si riferisce al tono degli appelli (che Spitzer, giustamente, vede informati piuttosto da una disposizione fraterna nei confronti del lettore), ma all’atteggiamento generale dell’opera, che è conseguenza diretta della sua materia:
Essendo Dante l’autore d’un libro ed il “vas d’elezione” d’una rivelazione, riferita nel libro, questo doveva racchiudere evidenza didattica e fascino poetico: un potente allettamento dell’anima particolarmente adatto alla sua rivelazione, costruita come una sequela d’avvenimenti, come un viaggio attraverso un aldilà popolato di emozioni e profondamente legato ai problemi più urgenti della vita contemporanea. La Commedia rappresenta uno sviluppo sociale della tradizione dei Vangeli, anch’essi rivelazione d’una dottrina incarnata intorno ad un avvenimento storico. Come annunciatore di una rivelazione il poeta sorpassa i suoi lettori, poiché egli conosce qualcosa di grandissima importanza che essi devono apprendere da lui. Malgrado la carità che egli esercita verso gli altri uomini, impartendo loro il suo sapere, malgrado il fatto che, in quanto uomo, egli è loro uguale al cospetto di Dio, la Grazia divina, scegliendolo per codesta rivelazione speciale, lo ha innalzato al disopra degli altri mortali. Il lettore, non più suo eguale, può ripudiare il suo messaggio, accusarlo di essere un mentitore, un falso profeta, un emissario dell’Inferno, ma non può discutere con lui da pari a pari, non ha altra alternativa che quella “di prendere o lasciare”.[22]
Da questo carattere del poema deriva non il tono degli appelli, ma la loro esistenza, la loro ragion d’essere: questo spirito è una novità assoluta, impensabile fino a quel momento, e una novità di pari portata è l’introduzione della forma dell’appello al lettore che questa particolare natura dell’opera evidentemente ha generato.
Fraintendendo questo passaggio Spitzer ha una visione distorta del saggio di Auerbach, e portando avanti il proprio studio in una direzione che crede diversa, di fatto approda a osservazioni del tutto prossime a quelle da cui pensa di prendere le distanze. Da qui l’inconsistenza del tono polemico che anima lo scritto, il quale a ben vedere ripete il medesimo discorso che attacca:
Secondo me, la scoperta dantesca di un nuovo, autorevole rapporto con il lettore discendeva dalla natura della sua visione che presuppone la presenza del lettore al quale si racconta. Benché Dante presenti se stesso come colui che è realmente stato nell’aldilà (“Nel ciel… fui io”) e che offre un racconto particolareggiato e oggettivo del suo viaggio, e benché fosse pienamente consapevole dell’originalità con cui aveva elaborato il suo tema, certo non riteneva se stesso appartenente a una categoria sovrumana di profeti come accadeva ai poeti religiosi di altre epoche e la sua licentia poetica era riconosciuta tale da ogni lettore contemporaneo attento: il suo “io” […] è in effetti un “io” poetico-didattico che si pone sul piano di ogni altro cristiano per il quale, esattamente come per Dante, un’imprevista illuminazione è possibile grazie alla natura del Dio cristiano. […] Ora, ovviamente, così come Dante è guidato da Virgilio (ispirato da Beatrice, a sua volta ispirata da Lucia, eccetera) egli deve a sua volta guidare il lettore, onde costituire l’anello finale di quella ininterrotta catena che congiunge l’umanità al cielo: la Grande Catena della Rivelazione.[23]
“Rapporto autorevole col lettore”, ruolo di guida e “funzione poetico-didattica” sono termini quasi identici a quelli del percorso di Auerbach. Piuttosto la sua formulazione è più forte e completa di quella di Spitzer perché tiene conto anche dell’aspetto terreno della Rivelazione, da cui deriva tutta la riflessione politica di Dante, e che conferisce ancora più urgenza al messaggio, avvicinando e rendendo davvero solidali l’io narrante e il suo “veramente amato lettore”.[24]
Non considerando questo elemento Spitzer non comprende il ricorso di Auerbach alla citazione di Demostene: questa non solo non porterebbe nessun argomento a sostegno della tesi ma sarebbe addirittura del tutto impropria perché chiama a confronto due “fenomeni incommensurabili”, il discorso che un oratore politico rivolge ai concittadini per giustificare un programma d’azione e l’opera di uno “scrittore religioso”[25] rivolto a lettori singoli per rivelare verità universali e sovrapersonali. In realtà Auerbach chiama in causa le parole di Demostene perché vi è sviluppato un pensiero che è proprio anche della poetica dantesca e concerne appunto la sua visione politica, cioè che il valore della giustizia non vada determinato né giudicato in base al risultato terreno degli eventi. Le ragioni di Demostene risiedono nella profondità della virtù democratica degli ateniesi, e il suo discorso, dal tono tanto accorato e fermo, di fatto perora una causa, sostiene una posizione opinabile, fallibile, chiede consenso; da qui l’intensa apostrofe rivolta ai destinatari. Il poeta cristiano invece si appella a principi completamente nuovi: Dio è sola fonte e solo arbitro di giustizia, la Sua volontà, da cui dipendono tutti gli eventi, è imperscrutabile, quindi “la lotta politica […] è divenuta una lotta per l’interpretazione della volontà di Dio […] e l’interpretazione cristiana della vita umana come caduta e redenzione è alla radice della comprensione dialettica della storia”[26]. Questo è un assunto certo e condiviso, un dogma; Dante si rivolge al lettore con intento del tutto nuovo, senza ricercare assenso: fa discendere il proprio giudizio naturalmente, con la sicurezza di chi spiega la dimostrazione di un teorema matematico. Non istituisce un rapporto con chi legge per guadagnarsi il suo appoggio, ma per mostrare quanto necessari, immanenti e vicini al lettore siano gli aspetti della verità che pronuncia.
La stessa grandezza artistica, il medesimo argomento in oggetto e la stessa funzione conativa rendono i due fenomeni non solo confrontabili, ma fortemente simili, allora sarà assolutamente degna di nota e significativa la natura totalmente diversa della soluzione dantesca, che tuttavia non deriva dal fatto che egli non sta facendo un’arringa politica, ma dal fatto che l’arte di Dante si informa attorno a valori e principi mutati, e la sua poesia quindi sviluppa movenze che anche formalmente risultano profondamente innovative.
Tutti gli argomenti con cui Spitzer critica la posizione di Auerbach si sgretolano facilmente[27], e l’ultima prova della fragilità del suo attacco è il capoverso aggiunto in appendice al saggio per la ripubblicazione nel volume Romanische Literaturstudien (1936-1959), dove l’autore segnala come Auerbach abbia “riformulato e riveduto le sue considerazioni intorno agli appelli al lettore”, tenendo conto delle sue obiezioni, nel suo ultimo lavoro, il libro postumo del ’58. Ma la ripresa da parte di Auerbach dell’argomento in quella sede è solo una riformulazione senza alcun ripensamento, la medesima tesi è riproposta senza nessuna modifica, in un’esposizione neanche troppo diversa, ma che evidentemente a Spitzer sembra più chiara.
L’inesattezza della critica spitzeriana all’analisi di Auerbach non va intesa come una lettura disattenta o imprecisa; piuttosto dalla pars costruens dell’articolo di Spitzer sembrano emergere elementi che fanno pensare a una lettura “limitata”, condizionata da un precedente giudizio personale. Spitzer dopo aver sfogliato tutte le occorrenze della forma dell’appello al lettore sottolinea con insistenza come “nella stragrande maggioranza di questi luoghi danteschi lo scopo a cui si tende è quello di attuare una visualizzazione in favore del lettore”[28]; alle spalle di questa abitudine del poeta c’è una funzione visualizzante: in quei luoghi Dante chiede al lettore di figurarsi, di vedere quello che lui ha potuto vedere davvero. In queste affermazioni di nuovo Spitzer si espone contro Auerbach:
Mi sembrerebbe strano che il professor Auerbach, autore di opere eccellenti come Dante poeta del mondo terreno e Mimesis non abbia pensato (o non in primo luogo) alla possibilità che gli appelli di Dante fossero finalizzati, appunto, alla “mimesis”, ad ottenere una rappresentazione dell’oltre-mondo dotata di quella icasticità o realismo, con cui si possono rappresentare le cose di questo mondo.[29]
La teoria di Spitzer sembra articolarsi lungo una direzione che è ancora quella del giudizio sul potere creatore della parola poetica dantesca, considerato ora in un senso forse più esteriore, meno essenziale, rispetto al peso e alla ricchezza di suggestioni che quella formula aveva nella sua sintesi iniziale: “la voce potente che, come Dio un giorno, diventa creatrice per mezzo della parola”[30]. Gli appelli al lettore sono intimamente legati a questa natura principale della poesia dantesca, al suo potere di ricreare nei versi l’esperienza intera dei fatti che rappresenta. Per Spitzer lo sbaglio di Auerbach sta nel non aver considerato adeguatamente questo elemento e la causa sarebbe da ascrivere a una sorta di “deformazione professionale”:
E sono portato ad attribuire l’errore di Auerbach nel tirare le conseguenze da Mimesis per il nostro particolare problema, solamente nella comprensibile tendenza dello studioso a provare sazietà per le categorizzazioni così splendidamente operate in altre opere.[31]
Quasi che, esaurita l’osservazione del fenomeno del realismo dantesco con la sua trattazione in Mimesis, Auerbach abbia condotto ora un lavoro nuovo in una terra di nessuno, lontano dai principi che avevano informato e fatto grande la sua analisi, ottenendo un risultato piuttosto superficiale.
In realtà Auerbach non ha affatto perso di vista la funzione della mimesis a cui si riferisce Spitzer, anzi si muove esattamente entro i suoi stessi confini; egli infatti sembra intendere gli appelli al lettore come passaggi della Commedia in cui quella mimesis è più che mai fondamentale, e in un senso del tutto eccezionale, poiché vi è evocata, sovvertita e negata. In un punto del suo scritto è ben visibile come per le tesi Auerbach sia fondamentale che Dante, rivolgendosi al lettore, interrompa il flusso della finzione narrativa:
la sua relazione col lettore, quale è espressa negli appelli che gli rivolge, s’ispira a “finzione poetica”[32]
Quel che riferisce è assoluta verità rivelata, rappresentata con estrema forza perché afferri e convinca il lettore; ma l’incanto di questa figurazione è ripetutamente interrotto cosicché il poeta, mentre racconta, possa anche ricordare al lettore che è destinatario di un messaggio, che quella poesia è prima di tutto un mezzo, e che quindi il vero cuore della sua operazione artistica è proprio l’atto della trasmissione di quelle verità: la missione da cui evidentemente deriva il tono “autoritario, urgente e profetico” delle sue parole. Rivolgendosi con quell’intensità al lettore Dante istituisce un rapporto per cui chi legge è avvertito che la realtà che gli si sta rappresentando attorno con tanta forza è comunque fittizia, perché è di certo una verità, ma una verità che adesso è oggetto di un atto comunicativo. Per portare a compimento la funzione didattica il poeta smuove il lettore, lo rende cosciente del fatto che sta ricevendo un insegnamento: una mimesis nella realtà dell’atto narrativo.
La forma degli appelli al lettore nella Commedia forse attira Auerbach proprio perché, oltre che essere un’altra delle conquiste che si sono potute realizzare nella letteratura occidentale solo dopo la fine del mondo classico, è anche un luogo particolare in cui il genio poetico di Dante si confronta ancora, in maniera diversa, con la potente istanza realistica che informa la sua arte.
Questa prospettiva è completamente estranea a Spitzer; osservando questi passaggi del poema egli non li vede se non in perfetta consonanza con la facoltà creatrice che caratterizza la parola poetica dantesca e che ormai è il primum incrollabile che genera i suoi giudizi critici sull’arte di Dante. In una nota al proprio articolo Spitzer commenta:
Discorrendo nei termini del mio metodo del “circolo filologico”, direi che Auerbach ha preso le mosse dalla sua ineguagliabile conoscenza del complessa della Commedia, trascurando l’analisi del dettaglio prescelto in questo articolo per rappresentare l’insieme, mentre io preferisco partire dall’analisi di un dettaglio, ritenendo, almeno all’inizio della ricerca, che il complesso dell’opera mi è ancora ignoto e avvicinandomi poi all’insieme sulla base della preliminare analisi del dettaglio. Ho l’impressione che Auerbach, possedendo una corretta visione dell’insieme, porti solo in un secondo momento la sua attenzione su un particolare che potrebbe dare la chiave di tutto.[33]
Qui l’autore rivendica con orgoglio l’efficacia del proprio metodo: ignorare il risultato dell’opera esclude qualsiasi pregiudiziale nell’analisi scientifica del dettaglio. Eppure in questo caso l’adesione a questo principio non dà un effetto così smagliante, e in buona misura può essere stata ancora una volta la variante diacronica osservata nell’attività di Spitzer ad aver condizionato profondamente il lavoro.
Nel discorso del 1960, riferendosi a questi momenti più recenti della propria attività, Spitzer afferma di essere pervenuto a una posizione che parzialmente ridiscute la definizione più generica di critica stilistica:
Come avete notato […] la domanda principale per me come critico, non è più quella crociana: “è questo poema poesia o non poesia?” – domanda che il critico deve aver deciso da sé quando comincia un lavoro critico – ma quella strutturale: “rientra questa parte particolare del poema nel tutto o no?”
[…] Come avete visto, l’elemento strutturale, l’architettura del pensiero riflesso nei poemi, hanno assorbito sempre più la mia attenzione. Se è una buona ginnastica per la lettura estetica, la stilistica può essere solo una delle ancelle della percezione artistica. Ciò che credo di poter raccomandare oggi con piena convinzione – e penso di aver sempre praticato – è l’osservazione diretta da ogni lato di un’opera letteraria concreta, osservazione diretta che rispetta l’unità del poema e non rimuove il particolare dal contesto.[34]
Gli stilemi dell’autore non catalizzano più l’attenzione del critico come concrezioni dello spirito dell’artista, e quindi chiavi per penetrare l’opera: prima della definizione del carattere dell’autore e della sua arte il critico deve confrontarsi fattualmente con quanto c’è di concreto, con quanto il poeta ha licenziato, l’opera finita come egli l’ha pensata e organizzata. Il sistema dello Zirkelschluss continua a funzionare, e adesso punta sempre di più a rendere un servizio all’opera nella sua completezza, a spiegarne la natura di organismo infinitamente ricco e tuttavia finito e autonomo. Quando, nel ’55, studia gli appelli al lettore nella Commedia probabilmente Spitzer è già suggestionato da una considerazione di questo tipo riguardo al prodotto artistico, un edificio in cui tutti gli elementi concorrono per sostenere un principio comune; tuttavia sembra ancora evidentemente condizionato da quel giudizio sulla poesia dantesca che ormai da decenni pare guidare, da una posizione implicita e defilata, le sue letture; per questo tende a leggere quei passaggi del poema prestando attenzione sia alla loro funzione creatrice, come punti di forza che spingono alla “visualizzazione”, sia al loro essere elementi di una struttura architettata con un preciso equilibrio e soprattutto con profonda coerenza interna. Sono strumenti della mimesis perché alla mimesis è votata l’intera struttura del poema. Sembra possibile azzardare che lo scritto di Spitzer sia in questo senso addirittura “viziato”, non perché la sua conclusione sia in sé poco convincente o sbagliata, piuttosto perché un giudizio preesistente gli impedisce di penetrare realmente il significato delle parole di Auerbach, contro cui di proposito sceglie di scagliarsi. La sua critica è debole non perché Spitzer non abbia compreso il senso degli appelli al lettore di Dante, ma perché non intende a pieno il significato del giudizio contro cui polemizza.
Attraverso il fattore temporale si evidenzia un’evoluzione dell’attività critica di Spitzer che per la sua portata è stata rilevata da più osservatori e a diverso titolo. Il metodo spitzeriano dello Zirkelschluss si presta a questa varietà di contesti teorici, e mostra così una coerenza interna tanto forte da far pensare a una pratica che è valida in assoluto, come se si articolasse su un presupposto che è una verità non generica ma universale: l’opera d’arte è definibile come l’atto di comunicazione in cui ovunque lo spirito individuale dell’autore addita una particolare interpretazione della realtà, anche in modi all’apparenza non avvertibili. Questa forse è la suggestione più forte che è restituita dall’attività critica di Leo Spitzer. La Commedia di Dante è di certo una delle prove in cui questo principio si attualizza con più evidenza, e anche la riflessione di Auerbach su di essa in fondo si sviluppa a partire da un presupposto non troppo dissimile.
Tuttavia anche in merito alla celebrazione dell’integrità del metodo lo scritto del ’55 sugli appelli al lettore può rappresentare un terreno scivoloso: in questa sede sfugge a Spitzer un’ultima possibilità di dare una traccia di organicità profonda al corpus dei propri studi danteschi. Il testo del 1943 sul XIX dell’Inferno chiedeva di leggere il verso 21 - “e questo sia suggel che ch’ogn’uomo sganni” - come l’introduzione alla descrizione che immediatamente lo segue, sulla pena dei simoniaci. Per Spitzer questo passaggio può essere spiegato solamente ricorrendo all’immagine di un narratore che esplicitamente assume una postura didattica, che annuncia al pubblico l’azione successiva con l’intenzione di dichiararne l’importanza e di attirare e concentrarvi attorno l’attenzione di chi legge. Di fatto è un appello al lettore: il poeta esplicitamente afferma e certifica il valore di verità pieno e inattaccabile di quanto si accinge a dire. Tuttavia Spitzer non richiama questa sua personalissima proposta di lettura nel saggio sugli appelli. Nell’ultima nota al testo l’autore rivendicava per sé, contro Auerbach, la pienezza del rigore metodologico: l’analisi si centra nell’osservazione di dettagli e solo in seconda battuta approda alla considerazione dell’opera nel suo insieme. Ma proprio un dettaglio, osservato anni prima, inteso nel medesimo senso dell’indirizzo di ricerca presente, sfugge oggi all’analisi di Spitzer; è persa un’occasione di sovrapporre il microscopico al macroscopico, il minuto passaggio formale alla struttura, e di farli suonare insieme, concordemente, dando peso e forza a tutto il campo della riflessione. L’adesione al nitore geometrico del metodo dello Zirkelschluss si rivela ben più incerta di quanto l’autore non affermi. Non sembra pertinente arrivare a parlare di uno Spitzer che poteva essere “ben più spitzeriano” di quanto di fatto non sia stato, né è questo che interessa. Può essere invece significativo osservare come gli ingranaggi di un meccanismo solitamente solido ed efficace mostrino qualche attrito di troppo proprio quando vanno ad osservare l’opera di Dante; quasi che il segreto della forza dell’arte dantesca sia rimasto impenetrabile anche per il sottile e acutissimo occhio critico Spitzer e per le categorie che ha fondato. Il vero contributo di Spitzer alla critica dantesca allora non sta tanto – o almeno non solo – nella formulazione di giudizi e nella notazione di particolari che arricchiscono il patrimonio delle interpretazioni, ma soprattutto nella dimostrazione delle innumerevoli possibilità e ragioni di approccio che la poesia di Dante permette; di quanto in essa c’è di osservabile, anche sotto molteplici punti di vista, e di quanto invece resta più difficile da circoscrivere; tutto un mondo di elementi di cui, con la varietà e la dinamicità dei propri studi, Spitzer ha potuto fare continua esperienza.
Riferimenti bibliografici:
- Leo SPITZER, Studi italiani, a cura di Claudio Scarpati, Milano, Vita e pensiero, 1976 (pp.7-40 e pp.95-149)
- Leo SPITZER, Critica stilistica e semantica storica, Bari, Laterza, 1966
- Leo SPITZER, Saggi di critica stilistica. Maria di Francia, Racine, Saint-Simon, Firenze, Sansoni, 2004 (pp.3-65 e pp.285-296)
- Leo SPITZER, Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna, Torino, Einaudi, 1959
- Leo SPITZER, Sviluppo di un metodo (testo integrale della conferenza tenuta alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma il 23 maggio 1960) in “Cultura Neolatina” 20 (1960), 2-3 (pp.109-128)
- Erich AUERBACH, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963
- Erich AUERBACH, Mimesis, Torino, Einaudi, 2004
- Erich AUERBACH, Lingua letteraria e pubblico, Milano, Feltrinelli, 1979 (pp.217-305)
- Erich AUERBACH, S.Francesco Dante Vico, Bari, De Donato, 1970 (pp.229-249)
- Benvenuto TERRACINI, Analisi stilistica. Teoria, storia, problemi, Milano, Feltrinelli 1966
- Emerico GIACHERY, Leo Spitzer (1887-1960) in “Belfagor” 16 (1961), 4 (pp.441-464)
- Cesare CASES, I limiti della critica stilistica e i problemi della critica letteraria in “Società” 11 (1955), 1 (pp.47-63) e 2 (pp.266-291)
[1] E’ l’ipotesi di macrostruttura di Gabriele Rossetti che Spitzer difende nella nota 5 a p.100 dell’edizione italiana del saggio, nel volume Leo SPITZER, Studi italiani, a cura di Claudio Scarpati, Milano, Vita e pensiero, 1976 (pp.95-146).
[2] Forse non è un casuale che questo sia il primo intervento e il più lungo della serie, il meglio organizzato, in certa misura il più “spitzeriano”, dove il testo è osservato contemporaneamente da vicino e da lontano, nel dettaglio della scrittura e nella totalità della struttura.
[3] Commentando al § 4 (pp.109-111) i versi “più non vòi discovrir qual donna sia / che per le proprietà sue canosciute” Spitzer chiama in causa il saggio Dante poeta del mondo terreno, e legge nel participio passato “conosciute” una fondamentale specificazione temporale: “conosciute adesso, solo adesso che Beatrice è morta”; in questo distico sarebbe già visibile per Spitzer una prima embrionale realizzazione del principio per cui la vera estrinsecazione delle qualità dell’essere terreno avviene solo dopo la morte, il principio che Auerbach aveva riconosciuto come caratterizzante la rappresentazione della Commedia. Spitzer conclude che già qui Dante avrebbe “delineato e anticipato il principio di rappresentazione della Commedia” (p.110), facendo discendere da una riflessione di Auerbach una deduzione che forse quest’ultimo non avrebbe condiviso senza riserve.
[4] Cfr. § 22 Il sonetto XV (“Tanto gentile e tanto onesta pare”) in Leo SPITZER, Studi italiani… (pp.143-146) e soprattutto § 18 “Sì è novo miracolo e gentile” (pp.133-136).
[5] Leo SPITZER, Sviluppo di un metodo (testo integrale della conferenza tenuta alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma il 23 maggio 1960) in “Cultura Neolatina” 20 (1960), 2-3 (pp.109-128), (cit.pp.118-120).
[6] Leo SPITZER, Linguistica e storia letteraria (1948) in Leo SPITZER, Critica stilistica e semantica storica, Laterza, Bari, 1966 (pp.73-105).
[8] L’esempio più significativo dell’attività di Spitzer di questa fase è il saggio L’arte della transizione in La Fontane (1938) in italiano in Leo SPITZER, Critica stilistica e semantica storica… (pp.106-147).
[10] Spitzer nota come il concetto di ibrido che informa la descrizione dantesca dell’uomo pianta sia “in sé repellente” per il cristiano medievale; a tale proposito analizza i modelli classici di quest’immagine – Ovidio e Virgilio – osservando come Dante li abbia presenti ma voglia anche tenersene lontano. E’ importante notare come neanche l’analisi delle fonti sia accostabile a quelle proposte nel saggio sulla Vita Nuova perché qui non si tratta di un richiamo erudito, freddo, fine a se stesso, è anzi assolutamente funzionale a uno studio del testo che punta ad aspetti di tutt’altro ordine.
[13] Cfr. Benvenuto TERRACINI, Analisi stilistica. Teoria, storia, problemi, Milano, Feltrinelli, 1966 (pp.81-106).
[14] Leo SPITZER, Studi italiani… (cit.p.182). Spitzer chiede evidentemente anche di cambiare la punteggiatura dei vv.20-21.
[17] Erich AUERBACH, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, 1979 (cit.p.274).
[19] Leo SPITZER, Maria di Francia autrice di favole problematiche in Leo SPITZER, Saggi di critica stilistica. Maria di Francia, Racine, Saint-Simon, Firenze Sansoni 2004 (pp.15-68); (cit.p.62, nota 39).
[20] Lo scritto sul De vulgari eloquentia osserva una categoria dell’epistemologia moderna - l’“Idealtypus” - poiché la riconosce attiva anche nel trattato dantesco; il testo quindi è un saggio di storia della linguistica (o forse più di storia della cultura) ma non direttamente di critica letteraria.
[22] Erich AUERBACH, Gli appelli di Dante al lettore in Erich AUERBACH, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963 (pp.309-323); (cit.pp.319-320).
[24] Con questa espressione Spitzer chiude il proprio saggio sottolineando con ironia come il rapporto dell’autore col lettore sia appunto di “fraterna vicinanza” e non di autorità profetica “sovrumana” come Auerbach, secondo Spitzer, avrebbe malamente inteso.
[25] Questa è la discutibile formula usata dall’autore, cfr Leo SPITZER, Studi italiani… (cit.pp.236).
[27] Spitzer parla anche di un errore di Auerbach nel calcolo del numero degli appelli al lettore: Auerbach avrebbe accettato 20 dei 21 luoghi già segnalati da Hermann Gmelin, e in questa riduzione commette comunque uno sbaglio perché in un caso (Par., IX, vv-10-11) nemmeno lui si accorge di avere a che fare solo con una apostrofe. Questa osservazione è errata e non tiene conto della prima nota di Auerbach al proprio saggio (nell’edizione italiana in volume a p.309). Qui l’autore prende le distanze da due dei luoghi segnalati da Gmelin, uno è proprio il caso contro cui punta il dito Spitzer, che in effetti non sarà considerato nel testo; l’altro è Par., XIII, vv.1-12 (“Imagini chi ben intender cupe..”) che Spitzer invece annovera tra gli appelli regolari. Nel testo Auerbach farà un rapido riferimento indiretto a quest’ultimo passaggio come esempio di variante umile di parafrasi del vocativo (p.314); subito dopo specificherà che il vocativo (o le sue parafrasi) è caratteristico sia dell’apostrofe tradizionale che dell’appello dantesco. Auerbach quindi non si pronuncia chiaramente sullo statuto di questo esempio, quasi sia da collocare al confine tra le due tipologie; il suo tono in effetti è meno diretto, più mediato, rispetto a quello degli appelli veri e propri.