Un'intervista a Edoardo Sanguineti
Un testo di Valerio Magrelli
Edoardo Sanguineti
Incontro con l’autore
A cura di Francesco Galluzzi e Matteo Chini
[ Pioggia Obliqua #10 dicembre 1996/gennaio 1997 ]
Francesco Galluzzi: Riflettendo sul concetto gramsciano di “egemonia”, una delle intuizioni del Gruppo 63 fu quella che per innovare la cultura italiana bisognava cominciare a pensare in termini di industria culturale, superando il vecchio sistema arcadico-accademico. Come vede la questione oggi, che gli intellettuali sono invece accusati invece di essere troppo presenti sui mezzi di comunicazione di massa?
Edoardo Sanguineti: Mah, la cosa suscitò naturalmente anche una quantità di equivoci. Tener conto dell’industria culturale vuol dire tener conto di quelle che sono le modalità comunicative che il presente offre con tutte le possibilità e gli arricchimenti, le complessità che lo sviluppo tecnologico-industriale comporta. Distinguerei tra sviluppo tecnico e sviluppo industriale ( non è una questione di vocabolario ). C’è uno sviluppo tecnico con delle possibilità comunicative che diventano più ricche, più complesse, più articolate. C’è uno sviluppo industriale che invece è puro sviluppo capitalistico degli interessi del capitale. Spesso le due cose sono andate confuse, per molto tempo si è detto “ma, in fondo la nuova avanguardia è semplicemente il rispecchiamento del neocapitalismo sul terreno dell’arte”. Tener conto di come si sviluppa il capitalismo è molto importante perché è inutile fingere che si viva in una situazione di idillio o di Arcadia o di Accademia o di artigianato della scrittura. Questo non vuol dire subordinarsi agli interessi mercantili. Anzi, il problema è proprio di un’egemonia culturale, ma qui allora ritorna il punto : il problema è quello dell’anarchia. Io mi limito oggi a chiamarla così, e dico “mi limito” anche se in realtà faccio a mio parere la richiesta massima. A dirlo molto in fretta, per paradossale che sembri il comunismo a mio parere è la realizzazione dell’anarchia. Il programma anarchico dello sviluppo delle libere facoltà di tutti è il programma che solo il comunismo riesce a realizzare in modo non utopico. È tutto da fare, tutto da inventare, la storia ha sgombrato ormai da tanti equivoci, però è importante che questo rimanga all’orizzonte. Tra le cose che devo fare in questo periodo c’è una prefazione al “manifesto del Partito Comunista” di marx e Engels. Non so esattamente cosa dirò perché è un problema piuttosto complesso oggi quello di una rilettura di questo testo ma penso che sia importante rileggerlo e ripensarlo, in realtà è un testo pochissimo letto.
Matteo Chini: L’anarchia come programma politico, che da Bakunin a malatesta ha costituito una parte fondamentale dei movimenti sociali del secolo scorso, si è però forse spostata oggi su modalità e prassi differenti. Il discorso libertario ormai riguarda piuttosto le possibilità di autogestione dei centri sociali o le battaglie di singoli e collettivi contro il copyright….
E.S.: Devo confessare che faccio del termine anarchia un uso del tutto particolare che ha poco a che fare con quello che l’Anarchia storicamente e politicamente è considerata e mi ricordo che le prime volte che resi esplicito questo richiamo ( che era già esplicito nelle mie poesie del ’51, è proprio un motivo fondamentale della mia scrittura ) però nemmeno allora c’era un rapporto coi gruppi anarchici politicamente organizzati – un po’ come io ero filocinese nel ’63 ma non avevo nessun rapporto con i movimenti filocinesi: era un modo molto allegorico di richiamarmi a certe cose; tanto è vero che come dicevo poco fa penso al comunismo come alla realizzazione del messaggio anarchico. Però credo che a livello intellettuale le grandi spinte che hanno mosso gli intellettuali del Novecento all’esplorazione, alla scoperta, alla contestazione, sia a livello delle tematiche come a livello formale, sia proprio una spinta al disordine, all’anarchia, alla protesta, alla rivolta, finalmente alla rivoluzione. Che si tratti di Brunuel, che si tratti di Beckett, questa specie di radicalismo anarchico che comincia in fondo con Baudelaire, con Lautréamont, con Rimbaud e arriva a Artaud ovviamente… Tutto questo i giovani non lo vedono come una linea portante. Internet può essere una via di anarchismo comunicativo quanto di egemonia del capitale, dell’organizzazione. Non sappiamo al momento attuale, quali strade e quali esiti avranno queste cose, però i giovani sarebbero incauti ad arrendersi di fronte all’idea che ormai in certo modo i giochi sono fatti. Credo che invece, come diceva Benjamin in termini mistico-ebraici “ ad ogni istante può apparire il messia”, che ogni momento sia buono per una posizione anarchica purché si sia decisi a non compromettersi con la realtà.
F.G.: A tutt’oggi, in quali esperienze della cultura italiana riconosce questa pulsione anarchica?
E.S.: Mi pare pochissimo affiorante. Io continuo ad avere piuttosto simpatia, ma è anche un fatto generazionale, più per vecchi amici perché in qualche modo, anche quando non sono in accordo con loro (il che capita) però esiste un consolidamento di esperienze oltre a un certo obnubilamento dovuto ad un’esperienza – come dire - di complicità e di affetto. Allora quando parlo di musica continuo, in fondo, a pensare a Berio, e quando parlo di pittura a Baj anche se poi io lavoro ogni giorno con musicisti e con pittori molto più giovani e molto diversi. Devo ammettere che ho una certa diffidenza verso i giovani. Posso raccontare un aneddoto. Quando balestrini pubblicò le primissime poesie su “Il Verri”, io suonai le campane a festa nel mio cuore dicendomi “ecco uno veramente di qualità”. E presi la penna, scrissi ad Anceschi per congratularmi. Lui mi rispose approvando, ma cauto e prudente (una prudenza dettata dall’affetto perché lo conosceva, balestrini era stato suo allievo…). Però devo dire che non sono tanti i momenti in cui uno legge un libro e dice “Ecco uno scrittore”, o vede una mostra e dice “Ecco un pittore”… Invecchiando uno diventa prudente ma io ero prudente anche da giovane. Allora non mi sentirei di dire oggi chi sarà il portatore dell’inquietudine adeguata al momento attuale. Ultimamente ho provato simpatia per Scarpa. Ho pensato che Occhi sulla graticola fosse veramente un bel libro. Spero che non resti un libro unico. Detto questo devo anche dire che quando uno ha fatto un buon libro può anche non scrivere più delle belle cose. Del resto c’è gente che passa la vita senza mai scrivere niente di bello. Vengono rimproverati molto di più quelli che hanno fatto una cosa buona perché poi non ne hanno fatte delle altre, piuttosto che quelli che non ne hanno mai fatta nessuna. Ci sono degli scrittori giovani che ho amato: Ottonieri giovane, anche se aspetto sempre che anche lui mantenga un po’ fede a certe cose, Frixione tra i poeti, che ormai non è più giovanissimo.
M.C.: Alcuni aspetti della sua poetica, il plurilinguismo, la commistione di codici alti e bassi, la ritmicità “urbana” di Senzatitolo, presentano caratteri che ritornano in numerosi aspetti della creatività contemporanea, come nel caso della musica rap. C’è un po’ di Sanguineti disseminato in campi che sembrano molto lontani dalla poesia?
E.S.: Può darsi. L’ ultima cosa che io ho fatto proprio con un musicista, l’ho fatta con un rapper, Liberovici. Fra l’altro adesso faremo un’altra cosa insieme di scrittura e musica che si chiamerà Sonetto. Sì, io sono sempre contento quando c’è l’occasione di incontrare dei musicisti, degli scrittori e dei pittori con i quali sia possibile fare qualcosa. D’altra parte bisogna pensare che nella vita non è che capitino ogni giorno gli incontri felici. È bello quando accade. In fondo, malgrado tutto, uno rimane cristallizzato…. Quando penso alla musica penso a Berio, quando penso alla pittura penso a Baj perché queste grandi passioni nascono quando uno ha vent’anni. Poi, se queste si convalidano nel tempo, acquistano inevitabilmente uno spessore forte e allora uno pensa più a questo che non a rapporti a rapporti con persone più giovani. Ma ritengo che la questione di rimescolare i linguaggi sia un problema necessario e quindi se c’è qualche giovane che condivide questo sforzo di prospettiva e di poetica e che insomma mette insieme avanguardia, anarchismo, amore per il disordine, la contestazione e per le molteplicità delle possibilità del linguaggio sono contento. Insomma, facciamone “un’arte da museo” di tutte queste cose!
Pioggia Obliqua, dicembre 1996/gennaio 1997
La grande spugna
di Valerio Magrelli
Poi dicono che le riviste letterarie non servono…Nel 1982 “Nuovi Argomenti” cambiò editore. Lasciò la Garzanti per la Mondadori, i redattori pensarono di inaugurare la nuova gestione con un giro di interviste sul panorama politico, in linea con la grande tradizione della testata. Era il periodo della massoneria. Scrittori, registi e giornalisti risposero a partire da un’inquietante ipotesi di Moravia, che aveva immaginato la P2 come un’immensa spugna capace di impossessarsi del potere assorbendolo dal secchio della democrazia parlamentare. Tra tanti, anch’io mandai un breve intervento, che poi, col tempo, dimenticai.
Qualche anno dopo, come nelle fiabe, si ripropone la medesima situazione, anche se ora è la Mondadori a essere sostituita dalla Giunti. Questa volta, nessuna intervista: la quarta serie si inaugura con la traduzione di alcuni versi francesi di Moravia. Nulla da eccepire, ma la curiosità mi spinge in cantina, a ripescare quel vecchio numero con il mio articolo, che diceva più o meno: “L’attività eversiva svolta dalla P2 si è rivelata, più che una sorprendente scoperta, una scontata e quasi attesa conferma. Dal pittoresco arsenale di emblemi, dalla penombra iniziatica della Loggia, viene infatti alla luce un’interrogazione sulla natura della nostra società. Fin dove arriva la sovranità della Repubblica, fino a che punto essa può dirsi libera, letteralmente, non più o non ancora occupata da altre forze?
Il sentimento dell’apparato statale, come in letteratura il romanzo, resta distante dalla nostra storia, che ha sempre visto imporsi forme più frazionate, diffuse, locali. In Italia, la patria dei dialetti, potere e narrazione prediligono il particulare. La lingua ufficiale, come l’arredamento dei pubblici locali, sembra non appartenere a nessuno. Lo stato esiste poco e malvolentieri. È latitante, privo di simboli e parola.
Lo prova la presenza, nel cuore stesso della capitale, di un territorio autonomo come il Vaticano, città nella città, lontano dalla giocosa evanescenza di San Marino. Così, l’Italia nasce “bucata” proprio in mezzo, e le sue febbri croniche rispecchiano questa origine debole, tutta vissuta “a togliere”, “in levare”. Perché stupirsi allora del fascino che emana da tanti rizomatici poteri offerti dal mercato? All’afasia della res publica rispondono i codici fortemente tipizzati di organismi parlanti, che vivono nello stato e dello stato, rispondendo a una domanda di identificazione e liturgia non troppo dissimile da quella cui rispose il Fascismo.
La P2 non è che l’ultimo tra gli agenti patogeni individuati nel tessuto della società, e forse non sarà inutile situarla in un quadro eziologico più vasto. Parlando delle teorie mediche rinascimentali, Ernst Bloch ha ricordato che, per Paracelso, la malattia rappresenta un’essenza organica malamente autonomizzatasi, legata a un rapporto parassitario. Questione morale è il termine tecnico che designa la presente devastazione”. Fine della citazione.
E poi dicono che le riviste letterarie non servono…
Provate a leggere queste righe accanto a ciò che ha scritto un paio di mesi fa Luciano Canfora sul “Corriere della Sera”.
Parlando del governo Berlusconi, egli osservava che, dopo aver collocato i suoi uomini direttamente nel governo, difficilmente la P2 avrebbe mollato la preda. Infatti i suoi affiliati, stando almeno alle dichiarazioni di Licio Gelli, sarebbero stati ben sette.
Se non bastasse, ecco il vescovo d’Ivrea, Luigi Bettazzi, manifestare pubblicamente, nei mesi scorsi, tutta la sua preoccupazione per come Berlusconi avrebbe attuato il Piano di rinascita democratica della Loggia P2, lo stesso che già nel 1976 prevedeva: dissoluzione dei partiti, costruzione di due poli organizzati in clubs territoriali, monopolio dell’informazione, controllo delle banche, uninominale secca, repubblica presidenziale, e controllo della magistratura. Sono segnali di fumo, e il fumo è nero. Morale: grazie all’attenta lettura di “Nuovi Argomenti”, non solo scopriamo che la spugna di Moravia esisteva realmente, ma anche che, per sbrigare il suo lavoro, ha impiegato all’incirca dodici anni. In verità le servirebbe ancora qualche mese: facciamo in modo di non regalarglielo.
Pioggia Obliqua, 1997