UNA GOCCIA
D'INCHIOSTRO DI CHINA
scritti a cura di Cristina Banella
Haiiro: il colore dello spirito
di Cristina Banella
Quello che colpisce nel bel volume che raccoglie le fotografie scattate da Maurizio Cianciarelli1 è soprattutto la connessione che il fotografo romano mantiene con il pensiero classico giapponese. Questa relazione non dipende tanto dall’aver posto in dialogo le sue fotografie con la voce dei poeti di tanka del passato e dall’aver irrobustito questo legame mediante la trascrizione ad inchiostro e pennello delle poesie, ma dal riverbero che si scorge fra la sua fotografia, la filosofia buddhista, e i principi estetici wabi e sabi che da questa traggono origine e che, come diceva il grande filosofo Suzuki Daisetsu (1870-1966), sono alla base della civiltà nipponica.
In genere, parlando di relazione fra estetica wabi-sabi e poesia, fra buddhismo e versificazione, la forma che viene subito in mente è lo haiku. Ed è in particolar modo quello del grande maestro Matsuo Bashō (1644-1694) ad avere dei profondi legami con il buddhismo, filosofia che pone l’accento sulla vacuità di questo mondo, dove ogni fenomeno non esiste di per sé o in sé stesso (anattā). Nella realtà infatti, tutto esiste solo in rapporto ad altri fenomeni, per cui ogni cosa risulta priva di una vera, propria essenza, ed è destinata al dissolvimento. Lo haiku di Bashō è espressione evidente dell’estetica wabi-sabi per la quale viene preferita ogni cosa che è dimessa, povera, non artificiosa, non vistosa e in definitiva, dai colori sobri come il grigio, che in tutti suoi toni domina questa raccolta fotografica. (vedi sezione fotografica riferimento Foto 1, Foto 2, Foto 3)
Secondo il wabi la bellezza va trovata in ciò che è umile e persino imperfetto: siamo di fronte, dunque, ad un tipo di bello che è ben lontano dalla perfezione a cui in qualche modo ci ha abituati la Grecia classica. Wabishii (‘triste’, ‘solitario’, ‘malinconico’, misero’ ma anche ‘smorto’), aggettivo da cui wabi proviene, è legato alla vita in solitudine e alla malinconia, ma anche al vivere distaccati dal mondo, dalle cose, modo di vivere che permette di vederle come sono, ossia nel loro essere provvisorie. Ed è frugalità, povertà; come affermava Suzuki: ‘Wabi è essenzialmente questo: essere poveri [...] Nella vita quotidiana significa accontentarsi di un piccolo rifugio, una stanza di due o tre tatami [...] un piatto di verdure raccolte nei campi, ascoltando magari il ticchettio di una pioggerella primaverile’.
Il testo fotografico di Maurizio Cianciarelli si ricollega a questa povertà proprio perché non coglie della Natura gli aspetti più opulenti e colorati, ma i soggetti più umili, quotidiani, disadorni: un ramo morto, contorto e scuro quasi come fosse bruciato, adagiato su un prato secco al punto da sembrare fatto di stoppie; oppure dei semplici blocchi di granito disallineati tra loro, o un comunissimo e singolo uccello “illuminato” come fosse al centro di un immaginario palcoscenico. (vedi sezione fotografica in riferimento Foto 4, Foto 5, Foto 6)
L’altro elemento della coppia, sabi, è connesso al verbo sabiru, che indica il farsi vecchio, l’arrugginire, e al verbo sabu, applicabile ad un luogo che si svuota di vita e di persone, che si spopola, nonché a qualcosa che si deteriora col tempo. Di conseguenza evoca il fascino del passato, quella capacità di attrarre e sedurre l’animo umano che le cose acquistano nel momento in cui su di loro diviene evidente il lento lavorio del tempo. ‘Se un oggetto artistico suggerisce [...] il richiamo ad un’epoca passata, allora vi è presente il sabi. Il sabi risiede nella rusticità senza pretese o nell’imperfezione arcaica, nell’apparente semplicità o disinvoltura esecutiva, nella ricchezza di risonanze storiche [...].’ sottolinea ancora Suzuki Daisetsu.
Ed anche questo criterio estetico trova concretizzazione nel testo di Maurizio Cianciarelli, laddove il suo sguardo si ferma sulle spalle di una statua erosa dalla pioggia e dal trascorrere degli anni, oppure indugia sulle cortecce di alberi che ne richiamano la venustà. (vedi sezione fotografica riferimento Foto 7 e Foto 8)
Il binomio wabi-sabi, come dicevamo, trova un posto speciale all’interno dello haiku. Ci si aspetterebbe quindi questo tipo di poesia per accompagnare le fotografie, in un accostamento che in Giappone ricorre spesso. Maurizio Cianciarelli sceglie invece una forma di poesia leggermente più lunga, il tanka (o waka se ci riferiamo alla stessa forma ma prima dell’Ottocento) che è stato ed è tradizionalmente legato alla Corte Imperiale nonché un tipo di lirica dedicato sì ai fenomeni naturali, ma soprattutto all’amore: in epoca cortese, gli amanti componevano waka per rivelare i propri sentimenti.
Maurizio Cianciarelli non sceglie di sviluppare il tema dell’amore nella propria raccolta fotografica, ma solo quello della Natura, riutilizzando lo schema ritmico del tanka per creare l’impianto del proprio libro. Il tanka classico infatti si compone di 5 versi, in cui troviamo 5 sillabe nel primo verso, 7 sillabe nel secondo, di nuovo 5 nel terzo, per finire con due versi di 7 sillabe ciascuno; parimenti il libro è articolato in nove sezioni, composte da un gruppo di cinque fotografie correlate tra loro e legate dal titolo della sezione come fossero nove tanka ‘fotografici’ , e in ogni sezione la foto singola corrisponderà al verso di cinque sillabe, due foto sovrapposte in dittico, nella stessa pagina, indicheranno il verso di sette sillabe.
Le nove sezioni hanno un titolo che già da solo tradisce il legame del fotografo con il pensiero buddhista. Troviamo infatti: ‘Passaggi’ (推移Suii), ‘Tracce’ (足跡Ashiato),
‘Resilienza’ (弾性Dansei), ‘Movimento’ (運動Undō), ‘Sogno’ (夢Yume), ‘Ricordi’ (追 想Tsuisō), ‘Similitudini’ (反射Hansha), ‘Apparizioni’ (出現Shutsugen), ‘Transizioni’ (変遷Hensen). Sono tutti termini che, in un modo o nell’altro, a ben vedere sono riconducibili all’idea buddhista della transitorietà. Tutto è caduco, impermanente, per il buddhismo: ‘invero tutte le esistenze quali che siano e comunque siano, tutte le condizioni di esistenza sono impermanenti, dolorose e costituite da incessante mutamento’ recita Udāna, uno dei testi sacri. L’impermanenza (anicca), che in giapponese viene definita con la parola mujō 無常, insieme alla sofferenza e all’assenza di un ‘io’, di una essenza, costituiscono i tre elementi fondanti del buddhismo, il quale ci insegna che proprio perché nulla è duraturo su nulla dobbiamo fermare i nostri sentimenti e che l’attaccamento a qualsiasi cosa produce in definitiva solo sofferenza. Il waka (o tanka) presenta molto presto dei legami con il buddhismo, e il concetto dell’impermanenza si ritrova già nelle poesie del Man’yōshū (‘Raccolta delle diecimila foglie’, o ‘Raccolta di diecimila generazioni’, 600 -759) che è la prima antologia privata giunta fino a noi e la più antica. In essa l’idea del transeunte si concretizza nell’immagine della schiuma sull’acqua a cui viene paragonata la vita dell’uomo:
E sotto il monte
Makimuku 2, risuona
acqua che passa;
a lei simili tutti,
noi, uomini del mondo.
巻向之山辺響而住水之三名沫如世人吾等者
(Makimuku no/yamabe toyomite/yuku mizu no/mina wa no gotoshi/yo no hito ware wa)3
Anche il Kokinshū (‘Raccolta di poesie an<che e moderne’, 920 ca.), la prima delle ventuno sillogi compilate per volere imperiale e che ha costituito il punto di riferimento per tutta la poesia di corte successiva dal momento che ne ha fissato canoni estetici e linguistici, è un’antologia che deve molto al buddhismo e che accosta l’esistenza umana alla spuma dell’acqua:
Come schiuma
non svanisce e galleggia, vita penosa;
eppure, trascinato
dalle onde ancora spero.
Ki no Tomonori
水のあわのきえでうき身といひながら流て猶もたのまるるかな
(mizu no awa no/ kiede uki mi to/ iinagara/ nagarete nao mo/ tanomaruru kana)
Maurizio Cianciarelli, che sembra aver fatto proprio questo concetto di mutamento e di melanconia che ad esso si accompagna, attinge a tutta questa tradizione letteraria e filosofica e sceglie, per esempio, nella sezione intitolata ‘Movimento’ una poesia tra6a anch’essa dal Kokinshū e legata all’immagine dell’acqua che, con la sua schiuma e i suoi vortici o con il suo ristagnare, è un elemento ben presente in tutta la raccolta fotografica.
Schiuma sull’acqua, nuvole fluttuanti, riflessi, echi: sono queste le metafore della vita umana a cui ricorrono testi sacri del buddhismo come il Sūtra del Diamante (Kongō Hannyakyō) o il Sūtra del Loto (Hokkekyō). E sono queste le immagini che spesso ricorrono anche in Haiiro. Non è un caso se le immagini della sezione ‘Similitudini’ sono accompagnate dai versi di un altro grande nome del tanka classico, il monaco- poeta Saigyō (1118- 1190). Nella lirica che viene citata in Haiiro, il vento e le nuvole fanno da sfondo ad un volo di oche all’alba; Maurizio la illustra attraverso foto del cielo, in cui si sfilacciano stracci di nubi. Il cielo: un’altra grande metafora del buddhismo per indicare il ‘vuoto’ (kū), tanto che in Giappone lo stesso cara6ere
indica entrambi (空).
Le fonti da cui Maurizio Cianciarelli ha aUnto i tanka che accompagnano le
immagini delle sezioni fotografiche di Haiiro, sono quindi le antologie classiche più conosciute: il Man’yōshū; il Kokinshū; il Goshūishū (‘Seconda raccolta di poesie sparse’, 1075-1086), che costituiva la quarta antologia imperiale; lo Shinkokinshū. Un solo autore moderno lo colpisce ed è Ishikawa Takuboku (1886-1912), fine poeta di tanka e innovatore dell’inizio del secolo. Ed è lui che sceglie per aprire la sezione ‘Tracce’, che del ‘Movimento’ - e quindi del mutare universale - sono il risultato. Il fotografo qui sembra sottolineare con le parole di questo sfortunato poeta moderno la vanità dei nostri sforzi, della nostra vita che è simile a sabbia, come dice Takuboku stesso, o ai sogni. I sogni: ecco un’altra sezione di Haiiro collegata ai testi buddhisti che in questo modo indicano la mancanza di sostanza essenziale di questo mondo e di noi stessi: ‘Il corpo, falsa visione, è pari al sogno’ ammonisce il Sūtra degli Insegnamenti di Vimalakīrti (‘Vimalakīrti Nirdeśa Sūtra’). Nelle fotografie di questa sezione, le forme sfumano come intraviste a6raverso un velo, si fanno indistinte, oppure lo sguardo del fotografo le proietta su sfondi impossibili, come avviene appunto nei sogni, giocando attraverso la gamma dei grigi e dei neri, colori fondamentali nella cultura giapponese, tutti legati a quel ‘soffio che pesa l’intero’4 che è la morte.
Ma oltre ad essere un colore connesso al lutto, il nero riporta anche alla virtù confuciana della saggezza e, nel Giappone della classicità, era una tinta legata alla bellezza: le dame della corte Heian, infatti, si dipingevano i denti di un composto di questo colore per far risaltare il pallore della carnagione. Al di fuori della corte, il nero poteva fungere da amuleto: la gente comune infatti, ed in special modo i pescatori, gli attribuiva un potere protettivo nei confronti dei malefici e dei pericoli in mare: i tatuaggi che chi esercitava il mestiere della pesca incideva sulla sua pelle erano in nero.
Anche il grigio, declinato in tutte le sue gradazioni, dallo scuro color inchiostro fino ad una eterea tinta, era legato alla morte, come testimoniano alcune poesie del Kokinshū o come si rileva dall’usanza, ancora oggi mantenuta, di inviare letitere di condoglianze scritte a mano con inchiostro e pennello - inchiostro rigorosamente meno denso di quello usato per vergare missive normali - in modo che ne risultino dei caratteri di un grigio diluito, diafano. 5
Il grigio, in Occidente è un colore ‘sempre connesso alla mancanza di pathos’ per dirla con le parole di Peter Sloterdijk (1947) ed è un termine che nel parlare comune designa qualità per lo più negative perché ‘(...) è associato all’indecisione, significa medio, neutrale, ordinario, connaturato alla consuetudine al di là del desiderio e dell’avversione. Se non è colore, allora si chiama quotidianità.’ È il colore del nostro essere nel mondo, secondo Martin Heiddegger (1889-1976). Il grigio, così bistra6ato in Occidente, ha però in Giappone un legame con la sfera della positività e un assoluto apprezzamento nell’ambito della moda, per esempio. Quando nel periodo Edo (1603-1867) si volle ovviare all’eccessivo sfarzo della classe mercantile che imitava i costumi della corte eme6endo leggi suntuarie di notevole severità, la gente del popolo fu costretta a rinunciare alla seta e vestire solo di cotone. Vennero proibiti i ricami vistosi e le vesti impreziosite con fili d’oro, d’argento o la tintura a ‘mantello di cerbiatto’ (kanoko), destinata invece agli abiti dei membri delle classi nobili. L’uso dei colori fu grandemente limitato: le uniche tinte permesse erano sobrie, ossia marrone, nero, blu scuro e grigio scuro. Ma la gente comune seppe fare di questa limitazione una risorsa, facendo incarnare a quei colori la quintessenza dell’eleganza, il cosiddetto ‘iki’.
‘Iki’ non è solamente eleganza esteriore: è connesso anche con le capacità interiori, dal momento che è seduzione (bitai 媚態) accompagnata da energia spirituale (iki意
気 o ikiji意気地) e comporta la ‘rinuncia’ (akirame 諦め).
I tre colori iki sono dunque grigio, marrone e blu, assurti a simbolo dell’eleganza e fra loro è proprio il grigio a rivestire un ruolo speciale, secondo il filosofo Kuki Sūzō: ‘Nessun colore è più adatto ad esprimere la “rinuncia” intrinseca all’iki.’
Questo colore, dunque, è profondamente coinvolto con qualità spirituali. E se in Giappone o in Cina si propone come colore positivo, anche perché capace di segnalare che si è trascesa ogni opposizione 6, potrebbe, con un po' di riflessione, essere avvertito come tale anche in Occidente, qualora si travalicasse il senso comune per rendersi conto che ‘il grigio è il colore a priori del compromesso. Dove lo si vede, il bianco ha dovuto concedere qualcosa e il nero ha ammesso di non poter avere tutto per sé.’7
Quale altro mezzo, allora, sarebbe più idoneo per cominciare ad apprezzare questo colore dai significati così ricchi, se non la fotografia in bianco e nero, dove sono proprio le gradazioni dei toni grigi che producono il contorno e rendono riconoscibile la realtà?
Bibliografia per un approfondimento degli argomenti trattati:
Peter Sloterdijk, Grigio – Il colore della contemporaneità, Marsilio, 2023
Giangiorgio Pasqualo6o, ‘I colori del Giappone antico’, Materiali di Este<ca – Il Linguaggio dei colori -, n.10.1 (2023)
Aldo Tollini, L’Ideale della Via, Einaudi, 2017
Laura Ricca, La tradizione estetica giapponese, Carocci, 2016
Daisetz T. Suzuki, Lo Zen e la cultura giapponese, Adelphi, 2014
Andrea Maurizi ed., ‘Spiritualità ed eLca nella le.eratura del Giappone premoderno ̧ Utet, 2012 Maria Teresa Orsi (a cura di), Murasaki Shikibu, La Storia di Genji, Einaudi, 2012
Giangiorgio Pasqualo6o, Estetica del vuoto, Marsilio, 2002
Ikuko Sagiyama (a cura di), Kokin Waka shū – Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne -, Ariele, 2000
Kuki Shūzō, La struttura dell’iki’, Adelphi, 1992
Kyūsoji Hitaku ed., Kokinwakashū, vols. 4, Kōdansha, 1979 - 1983,
Kuki Shūzō, Iki no kōzō, Iwanami Shoten, 1979,
Conze Edward (a cura di), Sūtra del Diamante – Sūtra del Cuore, Ubaldini Editore, 1976
Hisamatsu Sen’ichi, Man’yōshūka, vol. 3 (5 vols.), Kōdansha, 1976,
1 Nato e residente a Roma, da sempre appassionato di fotografia, dal 2018 si dedica a tempo pieno a questa attvità. Partendo dall’interesse per la fotografia di territorio, si concentra sulla ‘scoperta dei segni che l’uomo lascia nel paesaggio e sui tanti piani di le6ura che può offrire la ricerca delle relazioni tra forme naturali e ar<ficiali, tra tempo e materia, luce, ombre e superfici’. Questo lo ha portato ad indagare in par<colare la trasformazione dei luoghi, la loro evoluzione e il loro abbandono, ‘ricercando i legami inconsueti e contraddi6ori che la stratificazione della memoria opera sulle forme che popolano i nostri conosciuti, e allo stesso tempo ignoti, luoghi di vita’.
Grazie alla guida di Massimo Siragusa e dei professionisti attvi all’interno di Officine Fotografiche di Roma, ha potuto affinare le sue competenze, sviluppando la propria crea<vità a6raverso la partecipazione a vari corsi e workshop così da arrivare alla realizzazione nel 2020 della fanzine fotografica TRN, in cui ha organizzato un racconto utilizzando le immagini dei paesaggi colti attraverso i numerosi viaggi effettuati sul “Frecciarossa” negli anni 2015-2018.
Anche Haiiro (‘Color cenere’) è stato realizzato con la collaborazione di Massimo Siragusa a cui si è affiancata l’opera della maestra calligrafa Kinuko Miura.
2 Nella prefettura di Nara; il basso monte viene celebrato sia nelle poesie del Man’yōshū che in quelle del Kokinshū.
3 Hisamatsu Sen’ichi, Man’yōshūka, vol. 3, Kōdansha, 1976, p. 321
4 Così la definisce il poeta italiano Alfonso Gatto (1909-1976) in Sciarada; Silvio
Ramat (a cura di), Alfonso Gatto -Tutte le poesie -, Mondadori, 2005, p. 403
5 Nelle lettere scritte a mano, come nel sumi-e (pittura ad inchiostro), anche se oggigiorno sono disponibili comode bottglie di inchiostro liquido, è tradizione prepararlo da soli, sciogliendo un bastoncino rigido d’inchiostro in acqua strofinandolo su una apposita pietra, con movimenti circolari codificati: da sinistra verso destra nelle missive comuni e da destra verso sinistra nelle le6ere di condoglianze.
6 Uno dei testi che illustrano la strada che porta alla comprensione della realtà, e quindi al Risveglio, è lo Hōkyō zanmaika (‘Canto del samādhi dello specchio prezioso’), che è stato accompagnato da un commento: Goi kenketsu genji kyaku (‘Sull’autentica enunciazione della rivelazione dei Cinque Gradi’): quest’ultimo testo illustra cinque fasi che portano alla comprensione e alla contemplazione dell’unità degli opposti. Le cinque tappe vengono mostrate graficamente con 5 cerchi variamente colorati: mezzo nero, mezzo bianco, cerchio bianco che ne contiene un altro nero al suo interno o, viceversa, un cerchio nero che ne contiene uno bianco; infine un cerchio completamente riempito di colore. Quest’ultimo, che corrisponde alla comprensione totale e quindi al superamento delle opposizioni, quali esse siano, è di colore grigio.
7 Peter Sloterdijk, Grigio – Il colore della contemporaneità, cit., p. 130
La felicità delle contaminazioni:
la pittura occidentale incontra la poesia giapponese
La modernizzazione del Giappone, iniziata nel 1868 con la sua apertura al mondo occidentale dopo oltre due secoli di chiusura del paese, apportò un mutamento a tutto campo nella vita quotidiana, nelle abitudini e, fra le altre cose, anche nella cultura e nelle arti. A questo cambiamento diede il suo contributo anche l’Italia, attraverso l’opera e gli insegnamenti di Antonio Fontanesi[1] che, recatosi in Giappone per insegnare pittura occidentale, finì per influenzare persino lo haiku. Già una prima contaminazione fra poesia giapponese e pittura occidentale si era avuta quando lo haijin Masaoka Shiki (1867 -1902), che stava riformando lo haiku per dargli nuova linfa, si era appropriato del termine shasei (‘realismo’), che in Giappone traduceva i vocaboli stranieri ‘dessin’ o ‘sketch’, per farne uno dei cardini della propria poetica. Come avevano insegnato la Scuola di Barbizon e gli Impressionisti, i quali insistevano sulla necessità di uscire dagli atelier per osservare direttamente i cambiamenti della luce e i fenomeni naturali, anche Shiki in poesia sollecitò gli haijin perché smettessero di copiare i classici e prendessero contatto diretto con la natura, osservandone anche i più piccoli fenomeni da ‘riportare così come erano’ (‘ari no mama ni utsusu’). In un saggio del 1900, Jojibun (‘Prosa descrittiva’) Shiki affermava appunto che: ‘quando si osserva una scena o un avvenimento che si ritiene interessante e lo si vuole mettere per iscritto in maniera tale da far provare al lettore lo stesso interesse che noi abbiamo provato, non si dovrebbero usare ornamenti verbali o esagerazioni: si dovrebbe solo copiare la cosa così com’è, come la si vede’[2]. Un principio di realismo valido in pittura, in prosa e in poesia e che era arrivato in Giappone dall’Occidente.
Shiki può considerarsi quindi, il tramite attraverso cui avvenne un contatto fecondo fra generi e un passaggio di idee da un mondo all’altro: passaggio che si rivelò fondamentale per la cultura giapponese. Attratto dalla pittura fin da bambino, si era accostato a quella occidentale quando aveva frequentato la scuola che doveva prepararlo ad entrare all’università; tuttavia i dipinti occidentali rimasero a lungo per lui insoddisfacenti: di fatto non cominciò seriamente ad apprezzarli se non dopo accanite discussioni con i suoi amici pittori Nakamura Fusetsu (1866 -1943)[3] ed Asai Chū (1856 – 1907)[4]. (cfr. figura 1)
La passione per la pittura aveva rischiato addirittura di distrarlo da quella per lo haiku, tanto da indurlo a confessare nel saggio E (‘Pittura’, 1900): ‘Se mi dedicassi alla pittura, abbandonerei lo haiku’[5]. La possibilità di votarsi ad entrambe le arti sembra in questo caso addirittura esclusa - tanto era il coinvolgimento che l’attività pittorica pareva ispirargli - anche se in Giappone il genere haiga, dove le poesie affiancano i disegni a inchiostro, aveva una lunga tradizione, e lo stesso Yosa Buson (1716 – 1783), tanto ammirato da Shiki, le aveva praticate contemporaneamente da professionista. Anche Shiki si dedicò alla pittura ad acquerello, mantenendosi allo stadio di dilettante, ma in condizioni a dir poco disagiate: inchiodato al letto dalla tubercolosi, costretto a prendere la morfina per sopportare i dolori di una malattia a cui non c’era cura e che si andava via via complicando, Shiki dipingeva stando disteso o appoggiato su un gomito. I suoi acquerelli, regalati ad amici e vicini di casa, erano semplici, ma possiamo immaginare tutta la difficoltà della loro realizzazione dalle parole dello stesso Shiki, contenute in una lettera inviata insieme al disegno di un crisantemo ad uno dei suoi migliori amici, il romanziere Natsume Sōseki (1867 – 1916): “[…] pensa che è brutto perché l’ha dipinto un malato: se credi che sia una scusa prova un po’ a dipingere appoggiato sui gomiti.” [6] (cfr. figura 2)
L’acquerello raffigurato nella figura 2 è dovuto al pennello dell’amico pittore Nakamura Fusetsu, ma esiste anche un dipinto ad inchiostro dello stesso Shiki che si ritrae nell’atto di scrivere. È il 1899, quando il poeta, ricevuta in dono una stufa e sostituiti i tradizionali scorrevoli di legno che si affacciavano sul giardino con altri in vetro, ha ora abbastanza calore e luce per poter lavorare fuori dal futon e non rinuncia a rappresentare la preziosa stufa. (cfr. figura 3)
Eppure, nonostante tutte le difficoltà, non escluse quelle economiche, il poeta riuscì nel 1902 a completare due album di acquerelli: Kudamonochō (“Taccuino di frutta”) e Kusabanachō (“Taccuino di erbe e fiori”). Il 19 settembre dello stesso anno – poco meno di un mese dopo la compilazione dell’ultimo taccuino - morirà. (cfr. figure 4 e 5)
Mia cura d’ogni giorno
dipinger erbe e fiori.
Viene, l’autunno…
草花を描く日課や秋に入る
(kusabana o/egaku nikka ya/aki ni hairu)[7]
Il cambiamento nei gusti, l’allargamento dei suoi orizzonti, arriva per Shiki solo quando permette a sé stesso di mescolare i giudizi sulle diverse arti. Appassionato di pittura giapponese, ne scopre i limiti quando vi applica il metro di valutazione dello haiku. Scrive: ‘Circa dieci anni fa (1890) ero un fanatico della pittura giapponese e disprezzavo quella occidentale. In quel periodo con Izan[8] discutemmo su quale delle due fosse la migliore ed io non avevo nessuna intenzione di perdere. Alla fine Izan mi spiegò che le onde tondeggianti dei dipinti giapponesi non sono le onde del mare e poi, disegnati uno accanto all’altro il profilo di un volto secondo i canoni della nostra pittura e uno in stile occidentale, me ne chiarì le differenze. Persino uno ostinato come me, proprio perché profano, rimase per metà stupito e per metà ammirato ascoltando questa spiegazione pratica. Fui particolarmente sorpreso quando mi disse che in un profilo in stile giapponese gli occhi erano disegnati come se fossero visti stando di fronte al soggetto. Tuttavia nascosi il mio stupore argomentando che la somiglianza delle forme non aveva relazione con la qualità di un dipinto. Dopo, lavorai con Fusetsu a Shōnippon[9] e dato che quasi ogni giorno ci incontravamo, ogni volta discutevamo di teoria della pittura. Anche allora, dal momento che ero ancora un appassionato paladino della pittura giapponese, ci scontravamo su tutto. Se io dicevo che il Fuji era una bella montagna, Fusetsu ribatteva che era ordinaria. Se io dichiaravo che gli alberi di pino erano belli, lui diceva che erano comuni. Se io sostenevo che Daruma era un soggetto elegante, lui affermava che era volgare. Se io dichiaravo che le armature giapponesi erano artistiche, lui ribadiva che quelle occidentali lo erano ancora di più. Ci contraddicevamo su ogni singola cosa e mi sembrava davvero strano il fatto che due esseri umani potessero sentire in maniera così diversa, perciò ci riflettei a lungo. Poi, dopo che provai a fare dei paragoni con lo haiku, ebbi una grande rivelazione. Se si inserisse il monte Fuji in una poesia, questa diventerebbe facilmente banale; anche nello haiku ci sono versi sui pini, ma molti sono comuni mentre fra quelli sugli alberi spogli in inverno ce ne son molti eleganti; se si parla di Daruma in uno haiku, si ha un effetto molto sgradevole: sapevo già tutto questo da prima ma non lo avevo potuto applicare alla pittura. E capii che come le persone che non conoscono lo haiku si sentono molto felici se leggono dei versi sul monte Fuji, noi ci sentiamo felici senza sapere perché nel guardare un quadro che lo riproduce. Mi sembrò di avere aperto gli occhi per la prima volta.’[10]
Queste conversazioni e l’osservazione diretta di come un pittore riproducesse sulla tela il paesaggio che stava osservando, modificarono sottilmente la poesia di Shiki. Dal 1894, anno in cui si erano conosciuti, Shiki e Fusetsu infatti usavano passeggiare insieme nei dintorni della capitale e mentre uno dipingeva l’altro componeva haiku. Questa sinergia fa sì che i versi dello haijin finiscano spesso per disegnare piccoli quadri precisi di quanto era da lui direttamente osservato. Nascevano così i due cardini della poetica della sua scuola: lo shasei (‘realismo’) e ari no mama ni utsusu (‘riportare così com’è’):
Alti cipressi,
un tramonto d’autunno
su un chiosco del tè
杉高く秋の夕日の茶店かな
(sugi takaku/aki no yūhi no/ chamise kana)[11]
e nella luna cola
acqua del pozzo
杉暗し月にこぼるる井戸の水
(sugi kurashi/ tsuki ni koboruru/ ido no mizu)[12]
dal portale del tempio…
fulgore di stelle
禅寺の門を出づれば星月夜
(zendera no/kado o dezureba/hoshizukiyo)[13]
e una luce che sale
i gradini di pietra
春の夜の石壇上るともし哉
(haru no yo no / ishidan agaru /tomoshi kana)[14]
Fusetsu non lo influenzò soltanto con l’esempio, ma praticamente gli insegnò alcune tecniche pittoriche di cui rimangono tracce nel diario di Shiki stesso, Bokujū Itteki (‘Una goccia di inchiostro’, 1901): “Quando, dal mio giaciglio di malato, mi esercito a dipingere dal vero, come modelli non ho altro che dei piccoli contenitori che sono nella stanza, oppure fiori o bonsai. Ero lì tutto contento e disegnavo erbe e fiori, quando Fusetsu un giorno mi disse che se si ritraggono due o tre fiori o un solo filo d’erba bisogna farli più grandi del normale, altrimenti non vengono valorizzati; sono stato felice di sentirlo. È un insegnamento a cui anche chi fa haiku dovrebbe dare importanza.”[15] In questa osservazione riverbera l’eco di un insegnamento fondamentale che Fontanesi aveva impartito ai suoi allievi: quello della composizione. Fontanesi aveva infatti affermato: “Ci sono due modi per dipingere dal vero. Il primo è rappresentare i luoghi storici famosi, il secondo è scegliere il paesaggio bello e tralasciare la parte poco affascinante. […] per fare una pittura perfetta, bisogna cercare la posizione perfetta ed omettere la parte non rappresentabile, poi si può disegnare. […]”[16]. Le parole di Fontanesi parlano molto chiaramente della necessità di operare anche una scelta, di selezionare il materiale per ridisporlo nello spazio compositivo che si intende utilizzare, sia esso tela o carta. Fusetsu, che aveva appreso le tecniche e le teorie di Fontanesi, le aveva spiegate a Shiki in occasione di una mostra tenutasi a Tokyo nel 1894. Vi erano esposti dei paraventi di Sesshū (1420-1506), e Fusetsu gli aveva illustrato in maniera dettagliata la disposizione degli oggetti e l’unità della composizione. Il pittore gli spiegò che attraverso la composizione si ordinano gli oggetti sulla superficie del quadro rendendo chiari sia i problemi che pone l’obiettivo, sia lo scopo del dipinto, e che qualsiasi buona idea viene vanificata se il quadro è mal composto. È una buona sistemazione degli elementi a far risaltare i colori e le forme.
L’acquerello del popone e dei cetrioli (cfr. fig. 4) ci rivela che Shiki aveva cercato di applicare questo principio: pare infatti inseguire un’armonia tra le masse e i colori, tentando di bilanciare il chiaro della polpa del grosso popone con la buccia scura dei cetrioli, per esempio. Quest’idea di equilibrio fra gli oggetti e di composizione venne traslata a poco a poco in poesia: lo vediamo quando, quattro anni dopo l’incontro con Fusetsu, consiglierà ai poeti di tanka[17], genere al quale applicava la stessa poetica dello haiku, di mitigare l’effetto spoetizzante di alcuni soggetti moderni attraverso l’introduzione di motivi naturali tradizionali. Il treno, per esempio, che appare a Shiki come un mucchio di metallo poco trattabile, va ‘ingentilito’, bilanciato con un elemento tradizionale: ‘Ci sono persone che dicono che va bene parlare in poesia di ciò che è nuovo, le cosiddette macchine moderne, cioè il treno, la strada ferrata, ma è un grande errore. Le macchine della civiltà moderna sono decisamente poco eleganti ed è difficile inserirle in un tanka, ma se si volesse farlo non si può far altro che combinarle con un elemento che abbia gusto. Scrivere ‘Sui binari passa il vento’ senza qualcosa che accompagni l’immagine, è il massimo della prosaicità. Se almeno vi abbiniamo altri soggetti, come le violette che fioriscono accanto ai binari, oppure i papaveri che perdono i petali dopo il passaggio del treno a vapore, o le piume delle pampas che tremano, l’effetto visivo migliora un po'. Ciò che è squallido, inoltre, è meglio guardarlo da lontano.’[18] Lo scritto risale al 1898; sotto l’influenza della pittura, lo Shiki iniziale che trasformava in versi qualunque cosa osservasse senza selezionare il materiale né combinarlo, aveva compiuto dei notevoli passi in avanti e proponeva una poetica che ‘mediava’ tra pittura e poesia, oriente e occidente, tradizione e modernità. L’idea di composizione trascinava con sé quella di ‘scelta’ degli elementi da inserire nel quadro o nella poesia: Shiki, che aveva cominciato a sentirsi insoddisfatto della ‘quantità’ di haiku che l’osservazione diretta in loco e la riproduzione realistica gli permettevano di scrivere, ricerca ora la ‘qualità’ limando i suoi versi, scartando e ridisponendo gli elementi della scena: “Le persone alle prime armi, quando vedono un paesaggio e pensano ‘facciamone una poesia’, hanno poi molti dubbi su cosa cogliere e inserire. Dato che il paesaggio non è stato creato perché fosse materiale per gli haiku, indubbiamente presenterà anche cose che non sono adatte, o cose che una volta scritte non saranno interessanti, oppure ci sarà tanto materiale da risultare impossibile farlo stare tutto in diciassette sillabe. È compito del letterato raccogliere i gioielli e selezionare il bello da tutta la creazione che è una confusione di pietre senza valore e diamanti, di bello e di brutto. Ed è impresa dello haijin riordinare in maniera sistematica la bellezza che non è ordinata, e assortire secondo una regola i gioielli che erano stati disposti senza regola. Quindi anche nel caso in cui si componga una poesia su qualcosa osservato dal vivo, si deve eliminare ciò che è brutto ed utilizzare ciò che è bello. […]”.[19] Questo fa sì che Shiki per esempio sposti l’ambientazione di quello che viene riconosciuto come il suo haiku più famoso:
…E come mordo il cachi
risuona, la campana.
Antico tempio
柿食えば鐘が鳴るなり法隆寺
(kaki kueba/kane ga narunari/Hōryūji)[20]
È cosa nota che Shiki lo aveva composto basandosi su una esperienza reale, ma il tempio dove l’aveva vissuta era il Tōdaiji e non lo Hōryūji vicino a Nara di cui parla la poesia; il poeta aveva cambiato lo sfondo, perché il Tōdaiji era solitamente affollato da gente in visita e la cacofonia non permetteva di far risaltare i suoni della campana e il crocchiare del cachi.
Sebbene non si fossero mai incontrati direttamente, il pittore italiano e il poeta giapponese condividono pensieri e atteggiamenti. Al rimprovero di cecità e disattenzione da parte di Fontanesi ai suoi allievi giapponesi che, invitati a riprodurre un paesaggio della zona di Marunouchi di Tōkyō erano tornati a mani vuote, fa eco il rimprovero di Shiki ai poeti del suo tempo, per la mancanza di creatività e cecità che li portava a riutilizzare sempre gli stessi soggetti. Fontanesi aveva sottolineato che la colpa dell’insuccesso di quei suoi allievi non era del posto in cui li aveva inviati a dipingere, ma della loro incapacità di vedere con occhi da artista; Shiki, dal canto suo, affermava: “Non dovete fermarvi quando avete composto una o due poesie da un vasto paesaggio. La cosa successiva da fare è guardare davanti ai vostri piedi e scrivere di quello che vedete, l’erba o i fiori in boccio. Se scriverete di tutto questo, avrete venti o trenta poesie senza muovervi dal posto in cui siete. Prendete i soggetti da ciò che vi circonda: se vedete un fiore di tarassaco, parlate dei fiori di tarassaco. Se vedete dei crisantemi, scrivete di quelli. Se ci sono dei campi di grano, scriverete del grano non ancora maturo. Se i fiori della soia stanno sbocciando, componete versi con questo soggetto. Se c’è la nebbia, scrivete della nebbia; se fa un tempo splendido, dovreste parlarne. Lunghi giorni di primavera, la tranquillità, la tarda primavera, l’approssimarsi dell’estate, i fiori di pesco, i salici sulla riva del fiume, la raccolta delle erbe dei campi, una passeggiata fra l’erba, le rondini… I soggetti della poesia sono tutti intorno a voi al punto da poterli gettare via”[21]. I due uomini condividevano ancora la convinzione che fosse solo la Natura l’elemento da cui trarre i soggetti, assegnando un ruolo secondario all’immaginazione. All’affermazione di Fontanesi: “[…] se si studiasse con religione il vero, si farebbe nuovo, perché la natura è sempre nuova e infinitamente variata”[22] corrisponde quella di Shiki: “Ciò che è immaginato è espressione del pensiero umano, quindi, dal momento che quell’essere umano non è un genio straordinario, è impossibile evitare in modo assoluto la mediocrità e l’imitazione. Invece col realismo, poiché si riproduce la natura e proprio perché la natura cambia, anche la prosa e la pittura possono cambiare. Guardando le opere realistiche si può anche avere l’impressione che siano un po’ superficiali, ma più le si assapora profondamente, maggiore è la varietà di mutamenti e di gusto che rivelano. ”[23]
Ma non è solo con Fontanesi che Shiki condivide il proprio pensiero. Nel corso delle nostre ricerche abbiamo trovato un curioso episodio in cui il pittore Édouard Manet (1832 – 1883) in Francia e il poeta Shiki in Giappone, pur non avendo mai avuto contatti, sembrano rubarsi le parole di bocca. Manet infatti, dando lezioni di pittura ad Eva Gonzales (1849 -1883), a proposito della rappresentazione di un pesce le disse: “[…] quando contempla tutto l’insieme non si sogna di contare le scaglie del salmone, vero? Le deve vedere come piccole perle d’argento contro il color grigio e rosa […]”[24]; Shiki, dal canto suo, parlando di carpe nella pittura tradizionale giapponese, dichiarava quasi la medesima cosa:
“[…] in una carpa si vedono una per una chiaramente 36 scaglie. Anche le carpe del periodo Higashiyama[25], che sembrano pesci gatto, sono grossolane, ma riuscire a contare le squame è strano […]. In realtà le persone, quando guardano le carpe, non vedono le scaglie una per una, e la sensazione di bellezza che provano di fronte alle carpe non ha nulla a che fare con il fatto che ce ne siano o meno 36”.[26]
Ma forse il pittore occidentale al quale il pensiero di Shiki è più vicino nella sua concezione della Natura e nell’importanza che le attribuisce per lo haiku, è Paul Cézanne (1839 – 1906), quando questi esorta ad uscire dagli atelier e a prendere contatto diretto col paesaggio, sottolineando la ‘sincerità’ dell’approccio: “[…] tutti i quadri fatti in interno, in studio, non varranno mai le cose fatte all’aria aperta.”[27], “il pittore deve consacrarsi interamente allo studio della natura […]. Non si è né troppo scrupolosi, né troppo sinceri, né troppo sottomessi alla natura”[28]. Entrambi inoltre spingevano perché gli artisti superassero le tradizioni da cui erano nati: Shiki propose agli haijin suoi contemporanei la figura di Kobayashi Issa (1763 -1827), e soprattutto quella di Yosa Buson come alternativa a Bashō a cui si faceva costante riferimento, mentre Cézanne esortava ad apprendere dai pittori del passato ma per poi tornare alla natura: “Couture[29] diceva ai suoi allievi: ‘frequentate buoni pittori’, cioè ‘andate al Louvre’. Ma dopo aver visto i grandi maestri che qui riposano, bisogna affrettarsi ad uscire e a vivificare a contatto con la natura gli istinti, le sensazioni dell’arte che sono in noi”[30], “il Louvre è un buon libro da consultare ma non deve essere che un intermediario”[31].
Al di là di queste somiglianze ‘fortuite’, dobbiamo dire che molti haiku di Shiki sembrano davvero richiamare i quadri impressionisti, per i giochi di luce, i colori brillanti e la pennellata breve, fatta di pochi tocchi:
Sottile, sottile,
dalla finestra, il sole.
Mese di maggio
うすうすと窓に日の差す五月かな
(usu usu to/ mado ni hi no sasu/ gogatsu kana)[32]
E sopra i futon
stesi sulla veranda,
le foglie morte…
縁に干す蒲団の上の落葉かな
(en ni hosu/futon no ueno/ochiba kana)[33]
Scintillano, scintillano
trotelle lungo il fiume.
Sole al tramonto…
ちらちらと小鮎ののぼる夕日かな
(chirachira to/ koayu no noboru/yūhi kana)[34]
Mille colline
e rosse foglie d’acero.
Un corso d’acqua…
千山の紅葉一すじの流れかな
(senzan no/ momiji hitosuji no/nagare kana)[35]
Il sole del mattino!
In mille verdi foglie
su tutta la montagna
満山の若葉にうつる朝日かな
(manzan no/wakaba ni utsuru/asahi kana)[36]
Tornando a Fontanesi, comunque, va detto che se è vero che sia il pittore italiano che lo haijin partono entrambi dalla natura, Fontanesi, sviluppando la propria pittura, approderà ad un lirismo che è estraneo a Shiki: quest’ultimo, pur parlando dei propri sentimenti di solitudine, di dolore di fronte alla morte imminente, non arriva mai allo sfogo lirico, impossibilitato sia dalla brevità della forma poetica che dalla sua educazione di samurai e di confuciano. Fontanesi è stato di volta in volta etichettato come ‘classicista’, ‘poeta romantico’ e ‘pittore del vero naturale’. In riferimento ai suoi quadri si è parlato di ‘melanconia’, come ben illustrano ad esempio i suoi dipinti ‘Solitudine’, o ‘Novembre’ che per composizione sembra essere quasi una copia speculare di ‘Solitudine’, o lo stesso ‘Aprile’ che non presenta nulla dell’esuberanza primaverile che ci si aspetterebbe. (cfr. figure 6,7,8)
Quello che invece Shiki mantiene anche di fronte a sentimenti complessi ed estremi quali quelli suscitati dalla visione del proprio degrado fisico e dall’inesorabilità del proprio destino, è il realismo, il distacco e un approccio sincero ai propri sentimenti, privo di retorica o ornamenti verbali:
Secco, il pennello…
Più non ci sono fiori
che possano sbocciare
筆ちびて返り咲くべき花もなし
(fude chibite/ kaerizakubeki/hana mo nashi)[37]
scrive sinceramente e lucidamente il poeta, parlando della propria malattia, nel suo diario ‘pubblico’ Bokujū Itteki (‘Una goccia d’inchiostro’) che ogni giorno compariva sulle pagine del quotidiano Nihon. Qui Shiki allude ai fiori di ciliegio che possono tornare a fiorire una seconda volta se l’autunno è particolarmente mite. Ma per lui non c’è speranza: sapeva fin dall’inizio che la sua malattia era mortale. Ora che le sue condizioni si sono fatte più serie, Shiki contempla con distacco la propria morte[38]. Sono soprattutto gli haiku scritti negli ultimi anni di vita ad essere così obiettivi e sinceri nel trattare i sentimenti:
Ho ucciso il ragno.
Ma poi che solitudine…
Notte gelata
くも殺す後の淋しき夜寒かな
(kumo korosu/ ato no sabishiki/yosamu kana)[39]
Nelle lunghe notti di veglia per il dolore, persino un ragno può essere una compagnia. Persa anche quella, la notte si fa più tremenda. Così, l’arrivo di un amico è sempre un conforto per un malato:
La neve è sciolta…
Oh, la felicità:
un suon di passi!
雪解けて雪踏の音の嬉しさよ
(yuki tokete/setta no oto no/ureshisa yo)[40]
Uno spaventapasseri,
tra poco…
十年の狂態今に案山子哉
(jūnen no/kyōtai imani/kakashi kana)[41]
Di questa vita
resta ancora qualcosa.
Che breve notte
余命いくばくかある夜短し
(yomei/ ikubaku ka aru/yomijikashi)[42]
Come si vede, ogni situazione viene affrontata senza sentimentalismo, senza lirismo e senza arrivare al patetico.
Le strade del pittore e del poeta, giunte a questo punto, si dividono: gli allievi giapponesi di Antonio Fontanesi non ne recepirono la ‘malinconia’, in parte perché il maestro rimase con loro per meno di due anni, in parte perché dovette insegnare i rudimenti della pittura occidentale senza avere il tempo per approfondire la sua idea di rapporto fra uomo e natura, di ‘poesia del vero’ intesa come Melanconia. Ma è indubbiamente esistito un ‘filo rosso’ che ha legato non solo la pittura e la poesia, ma ben tre paesi insieme: la Francia dei pittori di Barbizon, l’Italia di Fontanesi e il Giappone di Shiki, a sua volta motore di un enorme rinnovamento culturale in patria.
[1] Antonio Fontanesi (1818 – 1882) arrivò in Giappone nel 1876. Aveva ricoperto in Italia il ruolo di professore all’Accademia Albertina di Torino ed era quindi un nome noto nel mondo dell’arte italiana, anche se in molti mostravano di non capire la sua pittura. La sua insoddisfazione per le tendenze conservatrici dell’Accademia e dell’ambiente artistico del tempo, rappresentò uno dei motivi che lo spinsero ad accettare di insegnare in Giappone, dove rimase per poco meno di due anni. Era stato invitato dall’istituto per le arti Kōbu bijutsu gakkō che venne inaugurato quello stesso anno, e la cui creazione si inseriva nel progetto di ‘modernizzazione’ del paese che passava per l’apprendimento delle nuove tecniche occidentali. L’accesso alla scuola era negato ai principianti e, cosa eccezionale, erano ammesse anche le donne. Fontanesi, che ebbe come allievi pittori destinati a diventare artisti di pregio, fu particolarmente amato dai suoi studenti giapponesi. Serve anche ricordare che, nello stesso anno di Fontanesi, nel medesimo istituto giapponese vennero chiamati ad insegnare anche lo scultore Ragusa e l’architetto Giovanni Vincenzo Cappelletti: tutti italiani, dunque, come fu italiano anche colui che consigliò la costruzione del Kōbu bijutsu gakkō all’Imperatore Meiji, ossia l’ambasciatore Alessandro Fé d’Ostiani. Per ulteriori informazioni sulla vita di Fontanesi, si consultino gli Atti Convegno Internazionale - italiani nel Giappone Meiji, La Sapienza ed., Roma, 2007, oppure il catalogo della mostra su Fontanesi tenutasi a Reggio Emilia nel 1999: Elisabetta Farioli, Claudio Poppi (a cura di), Antonio Fontanesi e la pittura di paesaggio in Italia (1861-1880), Motta Editore,1999.
[2] Masaoka Shiki, ‘Jojibun’, Shiki Zenshū, Tokyo, Kōdansha, 1975-1978, vol. XIV, p. 240 e segg., 正岡子規,『叙事文』,
「子規全集」, 第14巻 , 講談社.
[3] Fusetsu era allievo di Koyama Shōtarō小山正太郎 (1857 – 1916), uno studente di Fontanesi, e conobbe Shiki nel 1894.
[4] Asai Chū 浅井忠(1856-1907) fu il miglior discepolo di Fontanesi e il suo dipinto Shūkaku ("Il raccolto") è considerato il primo capolavoro giapponese della pittura a olio di soggetto paesaggistico. Il legame con Shiki era profondo: i due vivevano vicini e quando Chū partì per Parigi, mandò allo haijin i disegni per la copertina della sua rivista letteraria Hototogisu nonché il taccuino Guretsu Nikki ("Diario di Graz"). Secondo alcuni studiosi, questo taccuino sarebbe stato compilato appositamente per Shiki. Il rispetto che quest’ultimo nutriva per Chū era evidente: era una delle pochissime persone che chiamava con l’appellativo di ‘maestro’.
[5] Masaoka Shiki, ‘E’, Abe Akira ed., Meshi matsu aida – Masaoka Shiki zuihitsusen -, Tokyo, Iwanami bunko, 1985, p. 115, 正岡子規,『絵』, 阿部昭編集,「飯待つ間・正岡子規随筆選」, 岩波書店.
[6] Tsubouchi Toshinori, Shiki sanmyaku, Tokyo, Nhk Raiburarī, 1997, p. 168, 坪内稔典 ,「子規山脈」, NHKライブラリー.
[7] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, Tokyo, Iwanami bunko, 2000, p 292, 高浜虚子選,「子規句集」, 岩波文庫.
[8] Shimomura Izan下村為山 (1865 – 1949) oltre ad essere un pittore in stile occidentale, era anche uno haijin ed aderiva al gruppo di Shiki partecipando con le proprie illustrazioni alla rivista del gruppo, Hototogisu. Anche lui come Fusetsu era stato allievo di Koyama Shōtarō (cfr. nota 3).
[9] Il giornale che sostituì Nihon, di cui Shiki era un redattore, quando questo cessò le pubblicazioni.
[10] Masaoka Shiki, ‘E’, Abe Akira ed., Meshi matsu aida – Masaoka Shiki zuihitsusen, op.cit., pp. 112-113
[11] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, op.cit., p. 98.
[12] Shiokawa Kyōko, Masaoka Shiki no omokage, Kyoto, Kyōtoshinbunsha, 1996, p.113, 塩川京子,「正岡子規の面影」,京都新聞社.
[13] Yamamoto Kenkichi, Katō Shūson hen, Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon Shijin Zenshū, Tokyo, Shinchōsha, 1969, p. 106, 山本健吉、加藤楸邨編,「 正岡子規・高浜虚子-日本詩人全集」, 新潮社.
[14] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, op.cit., p. 90.
[15] Masaoka Shiki, Bokujū Itteki, Tokyo, Iwanami bunko, 2000, p. 107, 正岡子規,「墨汁一滴」, 岩波文庫.
[16] Atti Convegno Internazionale italiani nel Giappone Meiji, Roma, La Sapienza ed., 2007, p. 239
[17] Genere poetico più lungo dello haiku, strutturato su 31 sillabe suddivise secondo una scansione ritmica di 5-7-5-7-7 sillabe.
[18] Masaoka Shiki, ‘Utayomi ni atōru sho’, Masaoka Shiki - Chikuma Nihon Bungaku Zenshū - , Tokyo, Chikuma Shobō, 1998, pp. 363-364 , 正岡子規,『歌よみに与ふる書』,「正岡子規-ちくま日本文学全集」,筑摩書房.
[19] Masaoka Shiki, ‘Haikai Hōgukago’, Shiki Zenshū, Tokyo, Kōdansha, 1975-1978, vol. IV, pp. 577-578, 正岡子規,『俳諧反故籠』, 坪内稔典 編集,「子規の俳句革新・子規選集」, 第6巻, 増進会出版社.
[20] Shiki Zenshū, Tokyo, Kōdansha, 1975-1978, vol. II, p. 325, 「子規全集」, 講談社.
[21] Masaoka Shiki, ‘Zuimon Zuitō’, Shiki Zenshū, op.cit., vol. V, pp. 262-263, 正岡子規,『随問随答』,「子規全集」, 講談社.
[22] Calderini Marco, Antonio Fontanesi pittore paesista 1818- 1882, Torino, 1925 (I ed. 1901), p. 45.
[23] Masaoka Shiki, Byōshō Rokushaku, Iwanami Bunko, 2000, pp. 76 -77, 正岡子規,「病床六尺」, 岩波文庫 .
[24] Rewald John, La storia dell’Impressionismo, Milano, Mondadori, 1991, p. 192.
[25] Periodo del Giappone medievale e località di Kyōto dove si era ritirato lo shōgun Yoshimasa nel 1483. Mecenate delle arti , Yoshimasa protesse poeti e pittori dell’epoca, dando il via alla cultura detta ‘cultura di Higashiyama’. Resta famoso anche per aver fatto costruire il famoso tempio zen ‘Padiglione d’argento’ (Ginkakuji) tuttora esistente in Kyōto.
[26] Masaoka Shiki, ‘Bungaku bijutsu hyōron’, Awazu Norio ed., Shiki to kaiga - Shiki senshū , n. 8, Zōshinkai, 2002, p. 56, 正岡子規,『文学美術評論』, 粟津則雄編,「子規と絵画・子規選集」, 第8巻, 増進会 .
[27] Rewald John ed., Paul Cézanne - Correspondance, Paris, Grasset, 1978, p. 157.
[28] Ibidem, p. 379.
[29] Thomas Couture (1815 – 1879), notissimo pittore francese, fu insegnante di Manet.
[30] Rewald John ed., Paul Cézanne - Correspondance, op.cit., p. 371.
[31] Ibidem, p. 378.
[32] Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon Shijin Zenshū, vol. 2, Shinchōsha, 1969, p 90.「正岡子規・高浜虚子」,日本詩人全集, 第2巻, 新潮社
[33] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, op. cit., p.82.
[34] Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon Shijin Zenshū, op.cit., p. 88.
[35] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, op.cit., p. 26.
[36] Ibidem, p. 144.
[37] Masaoka Shiki, Bokujū Itteki, op.cit., p. 11.
[38] Shiki fu comunque una persona dalla grandissima vitalità: lavorò sempre e morì poco dopo aver composto i suoi tre ultimi haiku.
[39] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, op.cit., p. 151.
[40] Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon Shijin Zenshū, op.cit., p. 157.
[41] Ibidem, p. 152.
Ranpu no kage (‘Alla luce della lampada’): disegno di Asai Chū che accompagna la pubblicazione del saggio breve ‘Ranpu no kage’ di Shiki nel 1900 sulla rivista letteraria Hototogisu; vi è raffigurata la stanza di otto tatami (ca. 14 metri quadri) dove giaceva Shiki, durante uno haikukai, una riunione coi suoi allievi per comporre haiku. Shiki appare al centro della composizione, semidisteso, appoggiato su un gomito.
Disegno di Nakamura Fusetsu: ‘Davanti al giardino’ (Teizen zugasan)
Masaoka Shiki, Shirouri; Kyūri (“Popone e cetrioli”, luglio 1902), in Kudamonochō (“Taccuino di frutta”)
Masaoka Shiki, Nogiku (“Crisantemo selvatico”, agosto 1902), in Kusabanachō (“Taccuino di erbe e fiori”)
Antonio Fontanesi ‘Solitudine’ , 1875 circa
Antonio Fontanesi ‘Novembre’, 1864
Antonio Fontanesi, ‘Aprile’, 1873 circa
Universo e Vuoto: lo haiku giapponese
Il piccolo universo di diciassette sillabe che compone lo haiku, potrebbe sembrare uno spazio angusto, troppo, perché vi si possa trovare qualcosa di più che un piccolo ‘quadro’, una gradevole scena di vita naturale. Eppure la maestria dei poeti giapponesi, aiutati anche dalla struttura allusiva della loro lingua, è stata in grado di restituirci versi che sollecitano profonde riflessioni, oltre alle suggestioni e agli echi che sollevano nel nostro animo. Le regole dello haiku tradizionale sembrano ad un primo sguardo fin troppo semplici: diciassette sillabe[i] che nello haiku moderno e contemporaneo appaiono distribuite su tre versi di cinque, sette e cinque sillabe; una parola che indica la stagione a cui i versi intendono riferirsi (kigo); una pausa che in giapponese è indicata da una parola (kireji) intraducibile e spesso resa con puntini di sospensione, punti fermi o punti esclamativi. Ma aldilà di queste basilari regolette, lo haiku è soprattutto una poesia di ‘concentrazione’. Concentrazione dell’attenzione del poeta in primis, nei confronti dell’ambiente naturale che lo circonda e che comprende non solo il regno vegetale e animale ma anche l’uomo e le sue attività. È questa concentrazione che fa sì che lo haijin sia assolutamente presente a sé stesso e al mondo che lo circonda contemporaneamente, centrato oltre che concentrato nel momento che sta vivendo. Questa attenzione lo porta in primo luogo a scorgere cose che al distratto occhio quotidiano dei più risultano invisibili. Ad uno stadio successivo, lo conduce ad una ‘assimilazione’ di identità con l’oggetto osservato. Prendiamo come esempio questo haiku del maestro Takahama Kyoshi 高浜虚子 (1874-1959), capo della più grande scuola del Novecento, Hototogisu (‘Il Cuculo’) da cui uscirono, anche solo per contestarla, tutti gli haijin più famosi fino ai giorni nostri:
Bocca d’insetto…
una piccola perla
di brina, vedo.
虫の髭に小さき露のあるを見る
(mushi no hige/ni chiisaki tsuyu no /aru o miru) [ii]
Qui, il poeta che aveva sostenuto la necessità di un assoluto realismo, affila il proprio sguardo fino a scorgere la bocca dell’insetto e su di essa una minuscola perlina di brina. Quasi un’osservazione entomologica effettuata con l’uso di un microscopio.
Ma la concentrazione, necessità dettata dall’esiguità dello spazio di scrittura, è anche del materiale poetico: l’autore è costretto ad una estrema opera di selezione degli elementi che compongono la scena che sta osservando. Sebbene anche gran parte della letteratura occidentale sia costruita attraverso una mancanza, tacendo parti importanti che vengono lasciate alla ricostruzione e all’immaginazione del lettore[iii], è lo haiku la poesia dove dominano le ellissi, chiamate in giapponese shōryaku, nonché quegli spazi di silenzio che il lettore è chiamato a riempire con la sua fantasia coadiuvata dalla sua conoscenza pregressa e condivisa della cultura dell’autore. Questo spazio bianco, definito yohaku, è presente anche in versi semplici come quelli del poeta Masaoka Shiki 正岡子規 (1867 -1902), maestro di Kyoshi e figura fondante del genere haiku:
Nuvole gonfie:
le bianche vele raccolte
insieme, a sud…
雲の峰 白帆 南に群がれり
(kumo no mine/ shiraho minami ni /muragareri)[iv]
Anche senza sapere che kumo no mine è la parola indicante la stagione estiva con le sue imponenti formazioni nuvolose bianche generate dal calore nel cielo terso, nella mente del lettore sembra formarsi naturalmente il quadro di un paesaggio sereno, una marina che ci rappresentiamo grazie alla sola presenza delle vele. Eppure il mare non viene mai menzionato, non troviamo né il termine ‘mare’ o ‘oceano’, né ‘porto’, né ‘spiaggia’: insomma nessuno dei comuni vocaboli associati ad un paesaggio marino. Però il fatto che le barche si allontanino all’orizzonte suggerisce un panorama vasto che il lettore non può fare a meno di associare al mare, piuttosto che ad un lago o ad un fiume. Attorno a quell’omissione di un termine determinante, grazie a quel silenzio, il lettore costruisce uno scenario con una vasta distesa di acque dove, come nei migliori haiku, compare un contrasto: quello fra le bianche nuvole torreggianti e le altrettanto bianche ma minuscole vele.
Lo haiku è dunque – e la cosa può sembrare un ossimoro – una poesia costruita intorno al ‘vuoto’: un vuoto che permette la sua concentrazione. Vuoto non soltanto per il molto che vi viene taciuto, ma anche perché il genere conserva un legame con il ‘Vuoto’ in senso metafisico, come è stato concepito nel buddhismo. Se nel mondo occidentale il Vuoto è stato identificato con il Nulla, nel mondo cinese e giapponese corrisponde invece a quella parte assente che permette al pieno di esistere. È un elemento fondante per tutta la cultura giapponese: è la parte interna ed esterna della tazza da tè che ne permette l’esistenza e la funzione; è lo spazio bianco della pagina che riempiamo con l’inchiostro in calligrafia ed è infine il silenzio nello haiku.[v] Questo collegamento con il buddhismo non riguarda solo lo haiku – e ricordiamo che il suo poeta più rappresentativo, Matsuo Bashō 松尾芭蕉 (1644 - 1694) praticava la meditazione zen oltre ad essere un indefesso viaggiatore e poeta – ma tutta l’arte poetica giapponese: già nel 1400 la poesia venne accostata alla filosofia buddhista dal poeta Shinkei[vi], che sosteneva che i versi nascevano quando i desideri e le passioni mondane si erano ormai spente e si era diventati consapevoli dell’inconsistenza degli eventi, i quali non hanno natura propria ma esistono solo in relazione all’evento contrario.
A questo legame dobbiamo la presenza di tanti elementi filosofici nello haiku e quella profondità che fa sì che le opere migliori non si arrestino alla sola rappresentazione realistica, al solo ‘quadro’, stadio iniziale della scrittura per uno haijin, ma presentino una stratificazione di senso.
Vediamo a questo proposito proprio uno haiku di Bashō:
Erbe d’estate…
I guerrieri d’un tempo,
resti d’un sogno.
夏草や兵どもが夢の跡
(Natsukusa ya/tsuwamonodomo ga/yume no ato)[vii]
Il poeta ha composto i versi durante il viaggio documentato dal suo diario più interessante, Oku no Hosomichi 奥の細道 (‘Lo stretto sentiero verso Nord’), ed esattamente a Hiraizumi, nella regione nord-est del Giappone, il Tohoku. Qui si era svolta una sanguinosa battaglia: il signore della provincia, Fujiwara Hidehira (data sconosciuta - 1187) aveva donato un castello a Minamoto no Yoshitsune (1159 – 1189), considerato un rivale al potere dal suo stesso fratello, lo shōgun Minamoto no Yoritomo. Alla morte di Hidehira, il suo erede rivolle indietro il dono e, spinto dallo shōgun, scatenò contro Yoshitsune una battaglia in cui quest’ultimo e tutti i suoi persero la vita. Bashō, che visitò il luogo cinquecento anni dopo, riportò nel suo taccuino: ‘Le tre generazioni gloriose dei Fujiwara di Hiraizumi sono scomparse nello spazio di un sogno […] la dimora di Hidehira ora è solo un campo vuoto […] Yoshitsune si era chiuso in questo castello ma il suo nome glorioso, in un momento, s’è tramutato in erba. […] Qui, senza più coscienza del tempo che passava, rimasi in lacrime.’[viii]
Bashō, nel breve giro delle diciassette sillabe, ci rammenta un episodio storico che i letterati del suo tempo ben conoscevano e facendolo, evoca una storia di conquista e perdita del potere. Insieme alla rievocazione del fatto, ci ammonisce sulla vanità delle cose umane: per quanto possano esser grandi i sogni e fieri i guerrieri – non a caso il poeta usa per ‘guerrieri’ il termine roboante tsuwamonodomo – ciò che resterà sarà solo semplice erba estiva. Ma anche questa morirà per essere riassorbita in qualcosa che è più grande, onnicomprensivo, ossia la Natura che nel suo ciclo costante di nascite e morti sarà alla fine la sola a perdurare. L’idea dell’impermanenza, come accade spesso nei migliori haiku, convive all’interno dei versi con ciò che è permanente. Ma non solo questo: persiste fra i caratteri, un nucleo vuoto che il poeta non disvela. Perché nell’originale giapponese la frase è tronca e manca un verbo. Questo genera un’ambiguità: quello che resta è solo il sogno dei guerrieri? Non è forse anche il sogno del poeta che, suggestionato dal luogo, rivede davanti ai suoi occhi la battaglia di un tempo? Ma anche entrambe le ipotesi sono possibili.
Persino poeti come Masaoka Shiki 正岡子規 (1867 -1902) che, formatosi nel confucianesimo, fu un fiero avversario di ogni interpretazione filosofica degli haiku di Bashō e che difese la rappresentazione più realistica e oggettiva possibile del paesaggio, non sono immuni da influenze del buddhismo e dello zen, a riprova del fatto che questa filosofia era - ed è ancor oggi - acquisita in modo inconscio e diventata parte imprescindibile del bagaglio culturale. Analizziamo a riprova questi suoi versi:
Caduti, i fiori:
scorrendo verso il sud
il fiume va.
花散って水は南へ流れけり
(hana chitte / mizu wa minami e / nagarekeri)[ix]
Quando in poesia si parla di ‘fiori’ per convenzione consolidata si allude ai fiori di ciliegio, il simbolo per eccellenza della caducità. Il quadro è semplice: un campo con alberi di ciliegio e un fiume, ma al di là di questo, ancora una volta abbiamo la compresenza di ciò che è permanente e ciò che è perituro. Quello che era destinato per sua natura a finire è caduto, sembra dire il poeta, mentre il fiume continua indifferente nel suo scorrere. Ma alla fine anche questo elemento naturale sarà riunito a qualcosa di più grande, il mare, la cui acqua di nuovo tornerà in altra forma sulla terra. Proprio perché il poeta lascia un vuoto descrittivo che possiamo colmare, riusciamo ad immaginare una relazione anche più diretta fra i fiori e il fiume, a legare più strettamente le due immagini e a vedere i petali cadere direttamente nell’acqua, dove vengono trascinati via fino ad essere inglobati dalle acque del mare, rendendo di fatto possibile il loro riassorbimento nell’eterno.
Il ‘vuoto’ dello haiku non è dunque solo ‘assenza’ di soggetto, di parti della frase che sollecitano il nostro riempimento, ma è anche vuoto in senso metafisico ed alcuni poeti fanno apertamente riferimento ad esso. È il caso di Kawahigashi Hekigotō 河東碧梧桐 (1873 – 1937), altro allievo di Masaoka Shiki e innovatore più deciso, con i suoi versi che tradivano la misura sillabica canonica per contrarsi in brevissime frasi o in composizioni lunghissime, tanto che il poeta stesso le definì ‘poesie brevi’ (tanshi) piuttosto che haiku. Una sua creazione, che però rispetta la metrica canonica, recita:
Pizzica il vuoto
il granchio morto là.
Torri di nubi.
空をはさむ蟹死にをるや雲の峰
(kū o hasamu/kani shi ni oru ya/kumo no mine)[x]
Il panorama marino sembra offrire una scena chiara, realistica e senza nulla di anomalo, ma dietro l’apparente banalità i contenuti si accumulano. Il primo carattere della poesia (空), infatti, ha una doppia lettura e un doppio significato: il più comune è ‘cielo’ (sora) e, di conseguenza la prima immagine che si forma nella mente del lettore giapponese sotto l’influenza del solo effetto grafico dell’ideogramma, è quella di un granchio che sembra voler ‘pizzicare’ il cielo. Ma è stato il poeta stesso a segnalare che il carattere andava letto kū, ossia ‘vuoto’. Si deve dunque dare al termine un significato che vada oltre il fenomeno fisico. L’animale assurge quindi a simbolo del poeta stesso e forse di tutti gli uomini, nella loro incapacità di raggiungere il cielo o, in senso metafisico, il Vuoto, il Nirvana. Il granchio appare minuscolo contro la gigantesca nube e con questo contrasto violento il poeta costruisce un primo piano e uno sfondo, conferendo alla composizione profondità di campo. Destinato alla dissoluzione nel ciclo naturale, il piccolo crostaceo rappresenta inoltre il transeunte: insieme a lui anche la nube, per quanto possa essere grande - come i guerrieri nello haiku di Bashō con la loro ambizione e fierezza - si dissolverà: quello che rimarrà allora, sarà proprio il cielo, o meglio ancora il ‘vuoto’.
Ancora oggi, anche se i giapponesi praticano sempre meno la meditazione zen, questi riferimenti al ‘vuoto’ e all’impermanenza, centrali nel buddhismo, riaffiorano inconsapevolmente tra i versi. Si veda ad esempio questo haiku di Natsuishi Ban’ya 夏石番矢 (1955), presidente della World Haiku Association e promotore dell’internazionalizzazione di questa forma poetica:
Il vuoto va
attraverso i dotti lacrimali.
Vanno, le nubi.
涙腺を真空が行き雲が行く
(ruisen o/shinkū ga yuki/kumo ga yuku)[xi]
Lo haiku parla apertamente di un ‘vuoto’ che siamo liberi di ipotizzare essere l’assenza di una persona amata che ci ha lasciati. Questo vuoto, questo dolore, coinvolge le ghiandole lacrimali (ruisen) - termine scientifico che stempera un’eccessiva commozione e annulla il pericolo di un vieto sentimentalismo - esternandosi in pianto: ma il dolore stesso è impermanente, ragione per cui anche i dotti lacrimali si fanno ‘vuoti’, mentre le lacrime si sono da tempo tramutate in vapore acqueo, in nubi. Le stesse nubi sono poi destinate ad ‘andare’: quel che resta, come nello haiku precedente, sarà ancora il ‘cielo’, ancora una volta il ‘vuoto’. Notiamo come, pur parlando di dolore, il poeta non sia caduto nella trappola della confessione personale e l’ego sia stato annullato per dare spazio ad un punto di vista universalmente valido.
Con la sua struttura, la lingua giapponese sembra particolarmente adatta a lasciare spazio a questi vuoti. La mancanza di declinazione dei verbi e l’omissione dei soggetti contribuiscono all’ambiguità e alle sovrapposizioni di lettura. Interessanti, a questo proposito, i versi di Yamaguchi Seishi山口誓子 (1901 -1994):
s’incontrano motrici
senza carrozze.
秋夜遭ふ機關車につづく車輌なし
(shūya au/kikansha ni tsuzuku/sharyō nashi)[xii]
In questo haiku il verbo è presente, ma è il soggetto che manca. Nella lingua giapponese dove, per soprammercato, uno stesso sostantivo può essere singolare o plurale ed il verbo non viene declinato a seconda del soggetto, quando tale soggetto è assente non è possibile esser certi di chi compia l’azione, come invece accade in italiano grazie alla declinazione del verbo: chi, in questi versi, incontra treni senza carrozze? È forse il poeta che camminando in una sua peregrinazione notturna s’imbatte in questa motrice che sembra abbandonata sul binario? O non sono forse – ed è egualmente possibile dal punto di vista della costruzione meramente linguistica – due motrici che si spostano, l’una in una direzione, l’altra nella direzione contraria e che ad un certo punto si intersecano? Ma la frase giapponese consente anche una terza interpretazione, forse anche più suggestiva. Esaminando i versi parola per parola abbiamo infatti: shūya ossia ‘notte di autunno’, au ovvero ‘incontrare’ e kikansha ‘motrice’. Tenendo conto della regola grammaticale per cui se un verbo precede un sostantivo siamo in presenza di una frase relativa, il verso può suonare come ‘motrice che incontra la notte d’autunno’, suggerendo l’immagine di un treno privo di carrozze che corre nel tramonto incontro alla notte. Rimane quindi un’ulteriore dubbio nella mente del lettore, e questa volta il poeta non concede nessun elemento per chiarirlo: perché mai questa motrice non è seguita, come sarebbe logico e naturale, dalle carrozze? Il critico giapponese Konishi Jin’ichi faceva notare come la capacità di Yamaguchi Seishi di tacere quello che dovrebbe esserci e di inserire nello haiku quello che non appare necessario, sconcerti il nostro senso comune aprendoci allo stesso tempo nuove possibilità di percepire il mondo[xiii]. Interessante è l’interpretazione che offre lo haijin italiano Toni Piccini per sciogliere il nodo di non detto che fonda questi versi, mettendo in collegamento l’autunno - stagione che avvia il mondo naturale alla ‘morte’ in inverno - alla motrice, che privata delle sue carrozze non ha più una sua funzione: “un momento di non vita, prima dell'ormai prossimo fine vita”, una sensazione immediata poi confermata nella sua riflessione sul testo. “Un oggetto è 'vivo' mentre svolge la sua funzione, cosa che le motrici non possono fare essendo senza le carrozze, a loro levate nel luogo di ricovero notturno ove si incontrano. Autunno, la stagione che precede l'inverno, la fine del ciclo. Autunno, il periodo prima della stagione più dura, come ci ricorda anche uno haiku di Shiki: “Io parto \ tu resti – due autunni”[xiv], laddove il dolore più crudo arriverà con l'inverno, il senso di vuoto e di gelo, più silenti ma più mordaci del momento dell'addio. Stagione più dura che per le motrici corrisponde all'impossibilità di altri momenti di vita, una volta sostituite e giunto il loro fine vita\morte.”[xv]
Possiamo quindi dire che lo haiku è il luogo delle letture molteplici, il luogo di una profondità di riflessione che solo il ‘vuoto’ rende possibile, e che ci rende possibile affinare le nostre percezioni del mondo.
[i] Si ricorda che si parla di ‘sillaba’ solo per convenzione: infatti quelle della lingua giapponese, dove esistono suoni lunghi e brevi e dove anche la ‘n’ da sola conta per una sillaba, non corrispondono esattamente a quelle italiane.
[ii] Fukuda Kiyoto, Maeda Tomi eds., Takahama Kyoshi, Shimizu Shoin, 1991, p. 111, 福田清人, 前田登美,「高浜虚子」,清水書院
[iii] Si veda a questo proposito il bel saggio di Nicola Gardini, Lacuna, Einaudi, Torino, 2014
[iv] Takahama Kyoshi ed., Shiki Kushū, Iwanami Bunko, 2000, p. 141, 高浜虚子選, 子規句集, 岩波文庫
[v] Per un approfondimento: Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia, 1992
[vi] Shinkei 心敬 (1406 – 1475) fu un noto poeta di renga, poesia a catena composta da diversi poeti a turno, autore della raccolta Sasamegoto (‘Amorosi sussurri’, 1463).
[vii] Imoto Nōichi, Hori Nobuo eds., Matsuo Bashōshū, vol. 1°, Shōgakukan , 1995, p. 271, 井本農一,
堀信夫編集,「松尾芭蕉集・全発句」, 第1巻, 小学館
[viii] Oku no Hosomichi, Shinchō Kasetto Buku, Nihon no Koten, Shinchōsha, 1989, p. 26, おくのほそ道、新潮カセットブック・日本の古典、新潮社
[ix] AAVV, Shiki Zenshū, Kōdansha, 1975 1978, vol 2, p. 206, 子規全集, 講談社
[x] Kurita Kiyoshi, Kawahigashi Hekigotō, Kagyūsha, 1996, p. 59 栗田靖, 河東碧梧桐, 蝸牛社
[xi] Natsuishi Ban’ya, Cascade du futur, Paris, Harmattan, 2014, p. 34
[xii] Gendai Nihon Bungaku Zenshū 91, Gendai Haikushū, Chikuma Shobō, 1961, p. 123, 現代日本文学全集91, 現代俳句集, 筑摩書房
[xiii] Konishi Jin’ichi, Haiku no Sekai – Hassei kara gendai made-, Kōdansha Gakujutsu Bunko, 1995, 小西甚一, 俳句の世界‐発生から現代まで‐, 講談社学術文庫
[xiv] 行く我にとどまる汝に秋二つ (yuku ware ni/todomaru nare ni/ aki futatsu). Takahama Kyoshi ed., Shiki Kushū, Iwanami bunko, 2000, p. 155 高浜虚子選, 子規句集, 岩波文庫
[xv] Contributo dello stesso haijin Toni Piccini.
Cristina Banella
Traduttrice in lingua giapponese e insegnante di italiano per stranieri, ha conseguito un dottorato di ricerca presso il dipartimento di Studi Orientali dell’Università di Roma ‘La Sapienza’, con una tesi incentrata sui rapporti fra lo haiku di Masaoka Shiki e quello di Yosa Buson. Borsista del governo giapponese per tre anni, ha approfondito gli studi sulla lingua e sullo haiku presso l’Università di Lingue Straniere di Tokyo e svolto un ulteriore anno di ricerca su haiku e tanka presso l’Università Keio a Tokyo. Dopo aver ricoperto il ruolo di docente a contratto dal 2001 al 2004 presso il Dipartimento di Studi Orientali dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, dove ha tenuto corsi sulla poesia giapponese, è stata per 4 anni Visiting Professor presso l’Università di Lingue Straniere di Tokyo. Durante tutto il periodo trascorso in Giappone, è stata membro di numerosi circoli di haiku (i suoi articoli scientifici concernenti lo haiku sono reperibili in rete). Ha contribuito alla traduzione e alla resa metrica di parte delle liriche contenute nell’antologia ‘Un solo mare e la parola’, pubblicata in occasione dell’evento internazionale di poesia tenutosi alla Casa dell’Architettura Acquario Romano nel 2017, che ha radunato poeti da zone di guerra e da paesi dell’America del Sud, ed ha tradotto in giapponese le poesie di Donatella Bisutti comparse nella silloge Duet of Water nel 2018. Accanto ad iniziative e conferenze volte a promuovere la conoscenza dello haiku in tutta Italia – si ricordano gli interventi del 2019 e nel 2021 presso l’associazione ‘Lo spazio di Sophia’ di Pescara; presso FUIS (Federazione Unitaria Italiana Scrittori) di Roma; presso Yamaha Moto Art Roma e Ubik Caltanissetta - continua a svolgere attività di ricerca sul movimento di protesta nello haiku giapponese del Novecento.